1 Febbraio 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

L’ACCERTAMENTO FISCALE E’ PIENAMENTE VALIDO ANCHE AI FINI PREVIDENZIALI, SALVA LA PROVA CONTRARIA GRAVANTE SUL CONTRIBUENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 950 DEL 20 GENNAIO 2021.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 950 del 20 gennaio 2021, ha statuito che l’accertamento disposto e compiuto dall’Agenzia delle Entrate estende i suoi effetti – a pieno titolo – anche sul rapporto giuridico previdenziale con l’effetto che l’Inps può invocarlo a sostegno della propria pretesa, fermo restando la prova contraria, il cui onere ricade sul contribuente.

La vicenda presa in esame dagli Ermellini nasce ad impulso di un contribuente che, vittorioso in primo grado, si era visto condannare dalla Corte di Appello di Firenze al pagamento di una somma di denaro a titolo di contributi artigiani a fronte di un accertamento compiuto dall’Agenzia delle Entrate.

In particolare, è stata oggetto di interpretazione nomofilattica la disposizione di cui all’art. 39 comma 12 del DL 98/2011 convertito dalla L. 111/2011.

La predetta norma prevede(va), al fine di deflazionare il contenzioso tributario, una definizione agevolata delle liti pendenti – alla data del 31 dicembre 2011 – entro la somma di € 20.000,00#.

Ebbene, i Giudici di Piazza Cavour hanno precisato, nel richiamare precedenti della stessa Corte (sentenze 19640/2018 e 13463/2017), che – in materia tributaria – si è in presenza di un sistema di accertamento, liquidazione e riscossione comune anche al rapporto previdenziale, con l’effetto che detti atti di accertamento, disposti dall'Agenzia delle Entrate, costituiscono atti di esercizio anche del rapporto previdenziale.

Pertanto, l’Inps è pienamente legittimato ad utilizzarli per richiedere i contributi previdenziali, fermo l’onere -per il contribuente- di contestare l'idoneità degli apprezzamenti posti a base dell'atto di accertamento tributario. Detto onere, nel caso in esame, non era stato soddisfatto e, quindi, l’avviso di addebito confermato.
 

IL DATORE DI LAVORO DESTINATARIO DI NORME ANTINFORTUNISTICHE E' ESONERATO DA RESPONSABILITA' LADDOVE IL COMPORTAMENTO DEL LAVORATORE SIA ABNORME OVVERO POSTO IN ESSERE DEL TUTTO AUTONOMAMENTE RISPETTO ALLE MANSIONI AFFIDATE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 652 DELL’ 11 GENNAIO 2021.

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 652 dell’11 gennaio 2021, ha (ri)confermato che la responsabilità datoriale in tema di infortunio sul lavoro sussiste in ogni caso di omessa informazione e formazione sulle norme antinfortunistiche e in caso di omessa vigilanza del loro rispetto nelle fasi operative ed esecutive.

Nel caso de quo, un lavoratore, dipendente di un laboratorio di pasticceria, dopo aver infornato una notevole quantità di biscotti, tra i cui ingredienti vi era anche una notevole quantità di liquore, veniva investito dall'esplosione del forno, riportando lesioni personali gravi.

La responsabilità di tale evento era attribuita al datore di lavoro, ex art. 71, commi 1, 2 e 4, d.lgs. n°81/2008, per non aver istruito il dipendente sulle modalità di uso del forno e in particolare in quanto non aveva adeguatamente informato il lavoratore sulla circostanza che non dovessero essere cotti alimenti contenenti sostanze infiammabili.

La Corte d'Appello di Palermo, giudicando in sede di rinvio, aveva confermato la sentenza del Tribunale della stessa città, con la quale il datore di lavoro era stata condannato alla pena di mesi sei di reclusione, perché ritenuto responsabile del reato di lesioni personali colpose. In particolare, il Gudice di merito, pur riconoscendo il dovere di collaborazione che grava sul lavoratore che avrebbe dovuto fare attenzione alle indicazioni riportate sul forno, rilevava il profilo di colpa individuata nella mancata osservanza dell'obbligo di vigilanza che ricade in capo al datore di lavoro.

Avverso la sentenza, l'imputato ha presentato ricorso per cassazione invocando il comportamento abnorme del lavoratore, pasticciere impiegato da oltre tre anni nel laboratorio, che agiva in piena autonomia nella preparazione dei prodotti da forno i cui ingredienti non erano conosciuti dall'imputato.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ritenendo infondato il motivo di doglianza. In particolare, gli Ermellini, nel confermare il giudizio della Corte di merito, hanno ritenuto che non fosse stata svolta una adeguata attività di informazione-formazione sul rischio che correva il lavoratore nell'introdurre nel forno, successivamente esploso, prodotti contenenti sostanze alcoliche, non ritenendo idoneo l'assolvimento di detto obbligo informativo dalla mera apposizione della targhetta contenente l'avvertimento di non introdurre prodotti a base alcoliche. Anche i moduli formativi, sottoscritti dal lavoratore, non contenevano alcuna indicazione in ordine al corretto utilizzo del forno in questione ed attestavano la generica formazione sull'utilizzo delle apparecchiature a disposizione del lavoratore. Ma non solo, la sentenza impugnata ha messo in evidenza come il datore di lavoro, per sua stessa ammissione, non si recasse mai nel laboratorio, cosicché era venuto meno al dovere di vigilanza sul rispetto delle norme antinfortunistiche che se correttamente espletato avrebbe impedito l'evento.

In tale contesto, hanno continuato gli Ermellini, la sentenza impugnata ha correttamente rilevato che la mancata vigilanza sul corretto funzionamento del forno era imputabile al datore di lavoro in quanto rientrante nel rischio che grava sulla sua posizione di garanzia e che il comportamento negligente del lavoratore non era imprevedibile, proprio perché era notorio l'utilizzo di detto forno da parte dei lavoratori, sicché non vi era stato un comportamento di carattere esorbitante ed abnorme del lavoratore.

In nuce, il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli – e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro – o rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro.

 

LEGITTIMO PER IL PROFESSIONISTA EFFETTUARE PRELIEVI, ANCHE COSPICUI, DAL PROPRIO CONTO CORRENTE, IN ASSENZA DI ALTRI INDIZI REDDITUALI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 22905 DEL 21 OTTOBRE 2020

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 22905 del 21 ottobre 2020, ha statuito che l’Agenzia delle Entrate non può presumere che i versamenti sul conto corrente del professionista costituiscano compensi non dichiarati qualora quest’ultimo dimostri che le somme accreditate rappresentino delle liberalità da parte di familiari abbienti.

Inoltre, sempre secondo i Giudici Supremi, i prelevamenti di somme cospicue dal conto corrente non possono rappresentare un indizio assoluto di evasione laddove il conto sia utilizzato dal professionista anche per fini personali e qualora egli dimostri che i prelevamenti sono compatibili con il proprio tenore di vita.

Il caso di specie riguarda le doglianze di un avvocato in merito a degli avvisi di accertamento notificati sulla base dell’analisi del proprio conto corrente per gli anni 2003, 2004 e 2005 in seguito ad un processo verbale della Guardia di Finanza, ed a cui venivano attribuiti maggiori redditi imponibili ai fini Irpef, Irap e volume d’affari ai fini Iva.

I Giudici di piazza Cavour, con la sentenza de qua, hanno ribadito che in sede di determinazione del reddito di un professionista sulla base delle indagini finanziarie, in assenza di ulteriori elementi è del tutto arbitrario ritenere che i prelevamenti di cospicue somme dal conto corrente siano sinonimo di reddito occulto e che i versamenti sul conto corrente da parte di familiari abbienti rappresentino compensi non dichiarati.

In nuce, la S.C., ha confermato il trend delle ultime pronunce giurisprudenziali, dalle quali si evince che gli indizi e le presunzioni addotte dagli accertatori possono ritenersi, a volte, insufficienti a legittimare la pretesa erariale, dove i professionisti sono chiamati sempre più spesso, a fronteggiare i rilievi del Fisco in merito a presunte evasioni contestate sulla base di versamenti sul conto corrente o di prestazioni gratuite ovvero rese a prezzi ritenuti particolarmente “bassi” o, ancora, di compensi corrisposti a familiari.

 

CORRETTO PARLARE DI “DIMISSIONI PER GIUSTA CAUSA” IN CASO DI EVIDENTE DEMANSIONAMENTO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 811 DEL 19 GENNAIO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 811 del 19 gennaio 2021, ha statuito che è legittimo il recesso per “giusta causa” del lavoratore, ancorché in presenza di un “patto di stabilità” siglato con la società, qualora il trasferimento adottato dall’azienda nei confronti del lavoratore comporti un evidente demansionamento.

Nel caso di cui trattasi, un lavoratore proponeva ricorso avverso il decreto con cui l’istituto di credito, suo datore di lavoro, gli ingiungeva il pagamento di oltre 75mila euro a titolo di penale in relazione all’inadempimento del “patto di stabilità” sottoscritto. Secondo la società, infatti, il dipendente si era dimesso senza una giusta causa ed era, quindi, obbligato a pagare il corrispettivo del preavviso non lavorato.

I Giudici di merito, sia in primo che in secondo grado, ritenevano priva di fondamento la richiesta della società ed accoglievano l’opposizione proposta dal lavoratore. Il giudice d’Appello, in particolare, rilevava la validità del “patto di stabilità” sottoscritto ma sottolineava che, “già dagli atti delle parti emergeva che il trasferimento del dipendente si preannunciava demansionante, sicché non era necessario sperimentare le nuove mansioni assegnate prima di rassegnare le dimissioni per giusta causa”. Veniva, infatti, evidenziato che il lavoratore proveniva da una filiale presso la quale era responsabile del “Centro Private Banking” dove gestiva autonomamente investimenti considerevoli, aveva poteri di firma e concessione di credito fino a 500mila euro, nonché il coordinamento di cinque dipendenti, mentre per effetto del trasferimento sarebbe stato “inserito nello staff che si occupava dello “Sviluppo Commerciale” con compiti di ricerca di nuove sedi per filiali della banca senza poteri decisori ed anzi con assoggettamento a direttive di una collega di pari livello”.

La società datrice proponeva ricorso in Cassazione ritenendo illogico valutare la sussistenza del demansionamento e della conseguente giusta causa di dimissioni sulla base della mera assegnazione del lavoratore ad un ufficio diverso, prima ancora che, di fatto, le mansioni fossero mutate e senza possibilità, quindi, di verificarne l’effettività.

I Giudici della Suprema Corte, richiamando quanto sostenuto dalla Corte d’Appello, ribadivano che il contenuto del provvedimento di assegnazione alle nuove mansioni non era contestato e, parimenti, erano incontroverse quelle in precedenza assegnate: si poteva, pertanto, sostenere che le nuove mansioni si preannunciassero demansionanti già nel provvedimento di assegnazione. Correttamente, quindi, ritenevano “irrilevante, ai fini del legittimo esercizio delle dimissioni sorrette da giusta causa, una sperimentazione in concreto delle mansioni dequalificanti assegnate”.

In conclusione, dunque, la Corte ha ritenuto acclarato che il lavoratore, con la nuova assegnazione, venisse privato di mansioni con un grado di autonomia ed una rilevanza nell’ambito dell’organizzazione aziendale che precedentemente gli erano assegnate in quanto, a seguito del trasferimento, non solo gli sarebbero stati assegnati compiti privi di autonomia decisionale, ma si sarebbe trovato a dover rispondere del suo comportamento ad un pari grado. Di conseguenza, è lecito parlare di dimissioni per giusta causa e, per l’effetto, escludere la violazione del patto di stabilità.

 

L’ILLEGITTIMA ASSEGNAZIONE ALLA SEDE DI LAVORO COMPORTA IL RISARCIMENTO DEL LAVORATORE SECONDO IL PRINCIPIO DI UNICITÀ DEL DANNO NON PATRIMONIALE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 703 DEL 18 GENNAIO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n. 703 del 18 gennaio 2021, ha statuito l’onnicomprensività della liquidazione del danno non patrimoniale, indipendentemente dal nomen iuris che può assumere il diverso tipo di danno patito.

Nel caso in oggetto, un lavoratore adiva il Tribunale contro il provvedimento di assegnazione ad una sede diversa da quella da lui richiesta emesso dal datore di lavoro, lamentando il pregiudizio subito sotto il profilo psico – fisico, nonché l’impossibilità di un’adeguata assistenza al familiare affetto da una forma di depressione. Sia in primo che in secondo grado il provvedimento del datore di lavoro viene ritenuto illegittimo, con condanna di quest’ultimo al risarcimento del danno.

Tuttavia, il lavoratore ricorreva in Cassazione, lamentando la mancata liquidazione del danno biologico.

Secondo i Giudici della Suprema Corte, il danno non patrimoniale derivante dalla lesione del diritto inviolabile della persona è riconoscibile quando non sussiste un fatto reato, ma a condizione che l'interesse leso sia ritenuto costituzionalmente rilevante, che la lesione subita sia grave, cioè oltrepassi la soglia minima di tollerabilità e che il danno non sia ritenuto futile, cioè non sia configurabile come mero disagio.

Inoltre, i Giudici di legittimità hanno sottolineato come la giurisprudenza si sia più volte espressa in merito all’onnicomprensività del danno non patrimoniale, al fine di evitare duplicazioni risarcitorie. Tale principio non è in contrasto con la natura ontologicamente diversa delle varie tipologie di pregiudizio comprese nella categoria del danno non patrimoniale, giacché nomi diversi non comportano l’ammissione di un pregiudizio differente, avendo una mera funzione descrittiva del danno, che è compito del Giudice valutare.

Nel caso in esame, i Giudici di merito avevano correttamente valutato i danni non patrimoniali derivanti dalla mancata assegnazione ad una sede più vicina, non solo tenendo in considerazione la documentazione medica prodotta, ma anche facendo ricorso ad una ricostruzione presuntiva del danno basata sul principio dell'id quod plerumque accidit ed effettuando una valutazione equitativa del danno patito.

Dunque, sulla base delle argomentazioni esposte, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 1 Febbraio 2021