10 Luglio 2018

CIRCOLARE DI APPROFONDIMENTO Prot. n° 1040/22

ESTERNALIZZAZIONE D’AZIENDA: L’APPALTO.

 

§. Premesse.
Nel nostro ordinamento giuridico, i processi di esternalizzazione di attività sono regolamentati secondo diversi modelli contrattuali, fra i quali, i più conosciuti, la subfornitura ed il contratto di appalto, d’opera o di servizi.
Oggi le imprese esternalizzano spesso intere fasi del ciclo produttivo, affidandosi a ditte o a lavoratori esterni, per svariate motivazioni che, fondamentalmente, possono essere ricondotte ad esigenze di flessibilità e ottimizzazione organizzativa finalizzate al mantenimento di una posizione nel mercato che è sempre più globalizzato.
Pertanto, l’innovazione tecnologica e la crescente competitività sono alla base del superamento dell’impostazione “fordista” dell’impresa, in base alla quale tutto doveva essere rigidamente organizzato e gestito all’interno dell’azienda.
Pertanto, l’esternalizzazione a soggetti terzi di parte dell’attività (anche quella rappresentante il core business e non soltanto quella marginale) è ormai una scelta discrezionale dell’imprenditore, immune –se effettivamente attuata- anche dal sindacato del Giudice.
Sotto tale ultimo profilo, tenuto conto che la norma espressamente legittima i licenziamenti connessi ad esigenze di “organizzazione del lavoro” (cfr. art. 3 della legge 604/66, c.d. “per giustificato motivo oggettivo”), c’è chi considera le esternalizzazioni una sorta di espansione del potere di recesso del datore di lavoro, ciò anche a prescindere da una effettiva crisi e/o difficoltà economico-finanziarie, cui, ex adverso, la Giurisprudenza di Merito e di Legittimità ha più volte fatto ricorso per corroborare un g.m.o. di licenziamento.
In senso conforme, la più recente Giurisprudenza, ex multis Cassazione 13516/2016, per effetto della quale: in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro, nel procedere al riassetto della sua impresa, può ricercare il profitto mediante la riduzione del costo del lavoro o di altri fattori produttivi, fermo il limite che il suo obbiettivo non può essere perseguito soltanto con l’abbattimento del costo del lavoro, ossia con il puro e semplice licenziamento di un dipendente non giustificato da un effettivo mutamento dell’organizzazione tecnico-produttiva ma solo dal fine di sostituirlo con un altro meno retribuito, ancorché addetto alle medesime mansioni. Ne consegue che, in caso di riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro, al quale l’art. 41 Cost., nei limiti di cui al comma 2, lascia la scelta della migliore combinazione dei fattori produttivi ai fini dell’incremento della produttività aziendale, non è tenuto a dimostrare l’esistenza di sfavorevoli contingenze di mercato, trattandosi di necessità non richiesta dall’art. 3 della l. n. 604 del 1966 e dovendosi altrimenti ammettere la legittimità del licenziamento soltanto laddove esso tenda ad evitare il fallimento dell’impresa e non anche a migliorarne la redditività”.

§. L’appalto: inquadramento giuridico e caratteristiche morfologiche dell’istituto.
Tuttavia, va tenuto ben presente che la non genuinità dell’appalto, così come di qualsivoglia altro processo di esternalizzazione, comporta rischi importanti.
Infatti, l’appalto può essere utile, purché sia genuino; altrimenti, le aziende si espongono a rischi rilevanti, anche sul piano penale, stante la nuova formulazione dell’art. 603-bis del codice penale, nel testo novellato dalla Legge 199/2016.
Più in dettaglio.
Secondo la nozione “civilistica”, l’appalto, ai sensi dell’art. 1655 è “il contratto con cui una parte (appaltatore) assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro”.
Dalla definizione codicistica vengono subito in rilievo i seguenti tre elementi morfologici dell’appalto:

  1. L’organizzazione di mezzi necessari;
  2. Gestione a rischio dell’appaltatore;
  3. Compimento di un’opera o di un servizio;

I) Quanto al primo elemento (organizzazione di mezzi), nel tempo, di pari passo con la evoluzione naturale dei processi di esternalizzazione di cui alle premesse, si è superata quella concezione puramente “materialistica” per approdare ad una visione “immateriale”.
Si è, in buona sostanza, superato quell’approccio in base al quale l’appaltatore doveva disporre di una propria organizzazione materiale dell’impresa al fine di realizzare l’opera o il servizio ex art. 1658 c.c., comprendente macchinari, strumenti e capitale, in maniera adeguata rispetto all’opera o al servizio da realizzare.
Oggi, cosi come comprovato dall’art. 29 comma 1 del decreto delegato 276/2003, la genuinità dell’appalto (recte la differenziazione con la somministrazione) è da rinvenire (anche) nell’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto.
Viene, cioè, in evidenza l’aspetto immateriale dell’organizzazione, intesa come il coordinamento (nella forma più strong: esercizio del potere organizzativo e direttivo) della forza lavoro e del know how aziendale (bagaglio di conoscenze tecniche e competenze professionali).
L’appalto può, quindi, ritenersi lecito, anche quando non sia necessario l’utilizzo di macchinari o attrezzature per lo svolgimento dell’attività appaltata, essendo sufficiente l’organizzazione e la direzione del personale da parte dell’appaltatore purché quest’ultimo, in ogni caso, si assuma il correlativo rischio d’impresa.
La presenza dell’elemento immateriale diventa il discrimine per la valutazione della genuinità dell’appalto in tutti quei casi di appalti c.d. “labour intensive”, dove – cioè – la struttura materiale dell’impresa, seppur presente, non è rilevante o incisiva rispetto all’esecuzione dell’opera o del servizio. Il riferimento è ai servizi di vigilanza, quelli di pulizie, ovvero i servizi di mensa aziendale.
Nella definizione giuslavoristica di appalto, il legislatore pone l’accento sulla distinzione con il contratto di somministrazione.
La somministrazione di lavoro è un contratto concluso tra una impresa (utilizzatrice) ed un soggetto somministratore autorizzato (Agenzia) per la fornitura di personale a tempo indeterminato o determinato.
In nuce, l’art. 29 comma 1 introduce, rispetto all’art.1655 c.c., un’ulteriore specificazione in merito al primo requisito: l’organizzazione dei mezzi, infatti, può anche risultare dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, in relazione all’opera o al servizio appaltato.
Interessante, in tal senso, risulta essere l’interpello n. 77 del 22 ottobre 2009, con cui la Direzione Generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali ha risposto ad un quesito della Confindustria, in merito alla corretta interpretazione della disciplina relativa all’impiego di manodopera negli appalti di opere e di servizi, di cui all’art. 29, comma 1, del D.lgs. n. 276/2003.
Il Ministero, con il citato documento di prassi, ha chiarito come l’indagine circa l’elemento organizzativo non debba concentrarsi esclusivamente sul dato formale della proprietà degli strumenti di produzione, di per sé non decisivo, bensì sull’assetto organizzativo complessivo dell’appalto/subappalto al fine della verifica in merito alla sussistenza di una struttura imprenditoriale adeguata rispetto all’oggetto del contratto (c.d. soglia minima di imprenditorialità). Di conseguenza, il solo utilizzo di strumenti di proprietà del committente ovvero dell’appaltatore da parte dei dipendenti del subappaltatore non costituisce di per sè elemento decisivo per la qualificazione del rapporto in termini di appalto non genuino, attesa la necessità di verificare tutte le circostanze concrete dell’appalto e segnatamente la natura e le caratteristiche dell’opera o del servizio dedotti nel contratto di modo che, nel caso concreto, potrà ritenersi compatibile con un appalto genuino anche un’ipotesi in cui i mezzi materiali siano forniti dal soggetto che riceve il servizio, purché la responsabilità del loro utilizzo rimanga totalmente in capo all’appaltatore e purché attraverso la fornitura di tali mezzi non sia invertito il rischio di impresa, che deve in ogni caso gravare sull’appaltatore stesso.
Si badi, tuttavia, che l’appaltatore deve conservare il potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto.
Infatti, come affermato dalla Cassazione, ex multis sentenza n° 12357/2014, c’è intermediazione e interposizione nelle prestazioni lavorative quando l’appaltatore mette a disposizione del committente una mera prestazione di lavoro, rimanendo in capo all’appaltatore i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione, finalizzata a un risultato produttivo autonomo.

II) Per quanto concerne, invece, il rischio d’impresa, questo non è da intendere in senso tecnico-giuridico, ma economico, frutto dell’impossibilità di stabilire in anticipo i costi legati all’esecuzione del contratto di appalto, con la conseguenza legittima che l’appaltatore potrà incorrere in una perdita in caso di costi superiori al corrispettivo concordato. Il rischio riguarda anche la possibilità di non raggiungere il risultato legato alla stipulazione del contratto. In sostanza, il corrispettivo dell’appalto dovrà essere subordinato al risultato produttivo dell’opera o del servizio e non alla semplice messa a disposizione di prestazioni di lavoro.
Ne sono indici:

  • la sussistenza di attività imprenditoriale esercitata già in precedenza;
  • l’attività svolta in maniera evidente e comprovata;
  • l’operare per diverse imprese da più tempo ed anche nello stesso periodo di tempo.

Più recentemente, ma in continuità, la Cassazione, sentenza n° 3178/2017, ha individuato alcuni tra gli indici sintomatici della (potenziale) mancanza di genuinità dell’appalto:la richiesta da parte del committente di un certo numero di ore di lavoro;

  • l’inserimento stabile del personale dell’appaltatore nel ciclo produttivo del committente;
  • l’identità dell’attività svolta dal personale dell’appaltatore rispetto a quella svolta dai dipendenti del committente;
  • la proprietà in capo al committente delle attrezzature necessarie per l’espletamento delle attività;
  • l’organizzazione da parte del committente dell’attività dei dipendenti.

Nel puntualizzare la distinzione tra i due fenomeni interpositori, la Circolare del Ministero del lavoro n. 5/2011 ha affermato che:

• L’appalto ha per oggetto un «fare», giacché l’appaltatore fornisce al committente un’opera o un servizio, da realizzare tramite la propria organizzazione di uomini e mezzi, assumendosi il rischio d’impresa (obbligazione di risultato);

• La somministrazione di lavoro ha invece per oggetto un «dare», in quanto il somministratore si limita a fornire a un terzo forza-lavoro da lui assunta, affinché questi ne utilizzi la prestazione secondo le proprie necessità, adattandole al proprio sistema organizzativo (obbligazione di mezzi).
In definitiva un appalto può essere definito “genuino” quando l’appaltatore non risulti essere un intermediario, ma un vero e proprio imprenditore che, come tale, impieghi una propria organizzazione produttiva ed assuma i rischi della realizzazione dell’opera, o del servizio pattuito. L’appalto, invece, maschera una interposizione illecita di manodopera, quando il pseudo-appaltatore si limita a mettere a disposizione del pseudo-committente le mere prestazioni lavorative dei propri dipendenti.

III) Il compimento di opera o di un servizio. Più precisamente:

  • appalto d’opera: ha ad oggetto la realizzazione di un bene, anche intesa come la trasformazione o la lavorazione di materiali che comportino il mutamento di cose preesistenti.
  • appalto di servizi: ha ad oggetto tutte quelle prestazioni caratterizzate da una limitata incidenza della struttura materiale aziendale, utilizzando idee, conoscenze e competenze per la fornitura di un servizio, che abbia una qualunque utilità per l’appaltante.

§. Il sistema di tutele per il lavoratore: la imputazione del rapporto di lavoro.
Sotto il profilo giuslavoristico, quando il contratto di appalto sia stipulato in violazione di quanto disposto dal comma 1 dell’art. 29, il lavoratore interessato e impiegato nell’appalto, può chiedere giudizialmente (mediante ricorso ex art. 414 c.p.c.) il riconoscimento e la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del committente (art. 29, comma 3-bis, D.lgs. 276/2003).
Infatti, l’articolo 29, comma 3-bis del decreto legislativo 276/2003 prevede che: “quando il contratto di appalto sia stipulato in violazione di quanto disposto dal comma 1, il lavoratore interessato può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’ articolo 414 del codice di procedura civile , notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo. In tale ipotesi si applica il disposto dell’articolo 27, comma 2 [da leggersi come art. 38 comma 3 del decreto legislativo 81/2015, n.d.r.]”.
Detta possibilità per il lavoratore (legittimato attivo), ritualmente azionata alla cessazione del rapporto, è soggetta ad un iter procedimentale ben preciso simile all’impugnativa del licenziamento.
Infatti, per effetto dell’estensione di suddetta impugnativa anche alle ipotesi in cui si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto (art. 32, comma 4, della legge 183/2010), il lavoratore dovrà, con qualsiasi atto scritto, entro 60 giorni dalla cessazione del rapporto, impugnare stragiudizialmente nei confronti dello pseudo committente (utilizzatore)- e, nei successivi 180 giorni, dovrà depositare il ricorso presso la cancelleria del Tribunale competente, da individuare ex art. 413 c.p.c.

§. (segue) Il sistema di tutele per il lavoratore: la responsabilità solidale.
Nel contratto di appalto è prevista la responsabilità solidale tra appaltatore e appaltante, a tutela dei diritti (retributivi/contributivi) dei lavoratori subordinati impiegati nell’appalto.
E’ strutturata in diverse forme:

  1. art. 1676 c.c.;
  2. art. 29 comma 2 D.lgs. 276/2003;
  3. art. 26 comma 4 D.lgs. 81/2008 (danno differenziale);

Più in particolare:
art. 1676 c.c. “i dipendenti dell’appaltatore hanno diritto di proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino a concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore al tempo della domanda”.

L’esercizio dell’azione ex art. 1676 c.c. è subordinata ai seguenti presupposti:

  • il lavoratore deve essere un dipendente dell’appaltatore;
  • il lavoratore deve essere titolare di un credito verso l’appaltatore, che quest’ultimo non ha soddisfatto;
  • il credito deve essere relativo alle mansioni che il lavoratore ha esercitato per il compimento dell’opera o del servizio appaltati;
  • l’esigibilità del credito presuppone un debito corrispondente del committente verso l’appaltatore;
  • il debito del committente verso l’appaltatore si misura nel momento in cui il lavoratore esercita l’azione.

art. 29, comma 2, D. Lgs. 276/2003, “il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascun eventuale subappaltatore, entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, ivi incluse le quote di TFR, i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde il solo responsabile dell’inadempimento…….”
L’esercizio dell’azione ex art. 29, co 2, D.lgs. 276/2003 presuppone che l’appaltatore/subappaltatore sia rimasto inadempiente all’obbligazione retributiva/contributiva verso il lavoratore (anche parasubordinato).
A ciò si aggiunga che, così come stabilito dalla Corte di Cassazione (ex multis, 8959/2017 e 15432/2014), il regime di cui all’art. 29 comma 2 non si applica alle Pubbliche Amministrazioni.
Nel concetto di retribuzione si segnala l’interessante approdo giurisprudenziale della Corte di Appello di Torino, sentenze 473 e 440 del 2016, a mente del quale è stato precisato che “la locuzione normativa “trattamenti retributivi”, costitutiva dell’obbligazione di garanzia solidale del committente con l’appaltatore datore di lavoro, ai sensi dell’art. 29, secondo comma, d.lgs. 276/2003, debba essere interpretata in senso rigoroso, ossia nel senso della natura certamente retributiva degli emolumenti che il datore di lavoro sia tenuto a corrispondere ai propri dipendenti. Ne discende l’impossibilità di qualificare come emolumento retributivo l’indennità sostitutiva delle ferie e/o dei permessi non fruiti priva di tale natura”
Siffatta interpretazione dovrebbe, oggi, essere riesaminata alla luce della recentissima statuizione della Corte di Cassazione, ordinanza 13473 del 29 maggio 2018, che, relativamente all’indennità sostitutiva delle ferie, ne ha affermato la natura retributiva e, per l’effetto, la piena imponibilità contributiva.
Di seguito una tabella di raffronto fra le due tutele.

Soggetti Art. 1676 c.c. Art. 29 comma 2
Soggetti

tutelati

Lavoratori subordinati Lavoratori subordinati e parasubordinati
Soggetti responsabili Appaltatore e appaltante Appaltatore, subappaltatore e appaltante
Diritti tutelati Retribuzioni Retribuzioni, TFR e contribuzione previdenziale -assistenziale
Ambito di applicazione Settore pubblico e privato (solo) Settore privato
Limite economico Limite del debito tra appaltante e appaltatore Non previsto
Termine di esercizio dell’azione Non previsto Due anni dalla conclusione  dell’appalto

 

Si precisa, inoltre, che con la recente sentenza n° 254 del 6 dicembre 2014, la Corte costituzionale ha esteso il sistema di responsabilità solidale del committente, ex art. 29 comma 2 del d.lgs. 276/2003, anche alla c.d. “fornitura in opera”, recte sub-fornitura di cui alla legge 192/1988.
In particolare, l’art. 1 di prefata norma individua due modelli di subfornitura:
Subfornitura di lavorazione, un imprenditore (subfornitore) si impegna per conto dell’impresa committente ad effettuare lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime fornite dal committente medesimo;
Subfornitura di prodotto, il subfornitore si impegna a fornire prodotti o servizi destinati ad essere incorporati od utilizzati nell’attività economica del committente, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli e prototipi, forniti dall’impresa committente stessa.
Invero, la Corte costituzionale ha precisato che “la ratio dell’introduzione della responsabilità solidale del committente – che è quella di evitare il rischio che i meccanismi di decentramento, e di dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione, vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell’esecuzione del contratto commerciale – non giustifica una esclusione (che si porrebbe, altrimenti, in contrasto con il precetto dell’art. 3 Cost.) della predisposta garanzia nei confronti dei dipendenti del subfornitore, atteso che la tutela del soggetto che assicura una attività lavorativa indiretta non può non estendersi a tutti i livelli del decentramento.

§. (segue) Il sistema di tutele per il lavoratore: la responsabilità solidale – la difesa del committente/appaltatore.
Il sistema così delineato dall’art. 29 comma 2, per quanto decisamente importante ed utile per il lavoratore, espone il committente/appaltatore ad un rischio particolarmente elevato, senza efficienti mezzi di controllo.
Infatti, nella pratica si assiste sovente al fatto che il committente/appaltatore inserisca nei contratti delle clausole che obbligano l’appaltatore/subappaltatore di turno a presentare, prima di ogni pagamento, il DURC (nei limiti della sua validità), l’elenco dei dipendenti impiegati sull’appalto con il numero di ore eseguite. Tuttavia, tali dati, benché forniti, restano privi di riscontri oggettivi. Infatti, il DURC può attestare la correntezza dei pagamenti, ma certamente non la correttezza degli stessi. Così come, eventuali liberatorie dei dipendenti (anche in ordine al numero di ore effettuate e all’integrale soddisfo dei crediti retributivi) a nulla valgono se non rese nelle forme di cui all’art. 2113 c.c.
Per ovviare, in parte, a tale situazione negativa, sembra sia in arrivo una nuova banca dati predisposta dall’Inps e denominata “RAM” (rendicontazione appalto mensile).
Con questo strumento il committente potrà incrociare le informazioni in suo possesso (nominativo, giornate lavorative, eventuali part-timer, retribuzione imponibile dei lavoratori impegnati sull’appalto) con quelle dichiarate dall’appaltatore/subappaltatore nel flusso Unimens.

§. (segue) Il sistema di tutele per il lavoratore: la responsabilità solidale in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro.
Infine, l’articolo 26 comma 4 del decreto legislativo 81/2008 prevede che: “ferme restando le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi, l’imprenditore committente risponde in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall’appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato ad opera dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) o dell’Istituto di previdenza per il settore marittimo (IPSEMA). Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici”.

§. (segue) Il sistema di tutele per il lavoratore: la responsabilità penale.
La legge 199/2016 ha riscritto l’art. 603-bis del codice penale introducendo il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Suddetta previsione legislativa stabilisce che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:
1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;

2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.

Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:

1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;

2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;

3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;

4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

La portata ampia della norma porta a ritenere una possibile applicazione della stessa anche nei casi di appalto non genuino, ricorrendone le previsioni descritte (evidenziate in grassetto, n.d.r.).

§. Sanzioni amministrative per appalto non genuino.

Nei casi di appalto privo dei requisiti di cui all’art. 29, co 1, del d. lgs. n. 276/2003, sotto il profilo sanzionatorio, l’utilizzatore e il somministratore sono puniti con la pena della ammenda di euro 50 euro per ogni lavoratore occupato e per ciascuna giornata di irregolare occupazione.
Qualora vi sia sfruttamento di minori, la pena è dell’arresto fino a diciotto mesi e l’ammenda è aumentata fino al sestuplo (art. 18, comma 5 bis, D.lgs. 276/2003).
Così, infatti, recita l’art. 18, comma 5-bis, del decreto delegato 276/2003, a seguito delle modifiche introdotte dal D.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8 con il quale sono state depenalizzate tutte le violazioni per le quali è (era) prevista la sola pena della multa o dell’ammenda e, per l’effetto, saranno soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro.
Invero, l’articolo 1 comma 5 della predetta norma ha statuito che la sanzione amministrativa pecuniaria è così determinata:

a) da euro 5.000 a euro 10.000 per i reati puniti con la multa o l’ammenda non superiore nel massimo a euro 5.000;

b) da euro 5.000 a euro 30.000 per i reati puniti con la multa o l’ammenda non superiore nel massimo a euro 20.000;

c) da euro 10.000 a euro 50.000 per i reati puniti con la multa o l’ammenda superiore nel massimo a euro 20.000.

La somma dovuta non può, in ogni caso, essere inferiore a euro 5.000 né superiore a euro 50.000#.

L’art. 8 D.lgs. n. 8/2006 stabilisce espressamente che le sanzioni amministrative ivi introdotte si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto n. 8/2016, sempre che il procedimento penale non sia già stato definito con sentenza o decreto penale irrevocabili, situazione applicabile certamente anche al caso di specie.
Il Ministero del Lavoro, con la circolare n° 6 del 5 febbraio 2016 ha avuto modo di precisare che a dette sanzioni amministrative si applica, giusto richiamo dell’art. 6 del d.lgs. 8/2016, la previsione di cui all’art. 16 della L. 689/81 (importo più favorevole al trasgressore fra il doppio del minimo ovvero 1/3 del massimo).
Pertanto, qualora l’importo della sanzione sia inferiore a € 5.000,00 (minimo irrogabile), la riduzione art. 16 andrà applicata su detto importo. Quindi la sanzione irrogata sarà pari a € 1.666,67 (5000,00/3). Qualora, invece, sia compresa nel range 5.000,00-50.000,00, la riduzione art. 16 si applicherà sull’importo risultante.
Secondo l’opinione prevalente, dottrina e giurisprudenza, la imputazione del rapporto in capo al (pseudo) committente non può avvenire ad opera dell’ispettore, restando la stessa una facoltà esclusiva del lavoratore, da esercitarsi nei modi già illustrati.
Si registra, tuttavia, al riguardo, qualche isolata statuizione giurisdizionale di segno opposto che, facendo leva sulla natura fraudolenta del contratto (ex art. 1344 c.c.), ha ritenuto possibile ex lege la costituzione del rapporto di lavoro in capo al committente/utilizzatore (Cassazione, sentenza n° 22894/2011).

§. La certificazione dei contratti
Un utile strumento in materia è l’istituto della certificazione.
Come noto, il d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, agli artt. da 75 ad 84, ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico la certificazione dei contratti di lavoro, quale mezzo attraverso il quale raggiungere l’obiettivo della deflazione del contenzioso del lavoro in tema di qualificazione dei contratti, oltre che strumento per la costruzione del regolamento negoziale idoneo a conferire certezza ai rapporti nei quali sia dedotta, anche indirettamente, una prestazione di lavoro.
Tale procedura si attiva attraverso una istanza (volontaria e) comune dei soggetti parti di un contratto di lavoro o di appalto, le quali in concreto chiedono agli organi di certificazione preposti, la verifica della conformità del tipo di contratto di lavoro o di appalto che in concreto intendono instaurare (ovvero hanno già instaurato).
A dire il vero, in materia di appalti in ambienti sospetti di inquinamento o confinanti, la cui materia è regolata dal D.P.R. 177/2011, la certificazione dei contratti di lavoro, fra cui rientra anche quello di appalto, è obbligatoria.
Pertanto, a tale fattispecie, la Commissione di certificazione ricorderà alle parti che l’attività in suddetti ambienti potrà essere svolta unicamente da imprese o lavoratori autonomi qualificati in ragione dei requisiti previsti dall’art. 2 comma 1 del citato D.P.R.
L’iter procedurale si conclude con un atto amministrativo, l’atto di certificazione (o un provvedimento di rigetto della certificazione) che conferisce una efficacia rinforzata alla qualificazione contrattuale stabilita dalle parti: al provvedimento di certificazione viene attribuito piena forza legale per fini civili, amministrativi, previdenziali o fiscali, in relazione ai quali si chiede la certificazione.
Qualora, sia organi ispettivi che il lavoratore, voglia impugnare il contratto certificato dovrà, ex art. 80 comma 4 del d.lgs. 276/2003, preventivamente rivolgersi alla Commissione di certificazione che effettuerà un tentativo di conciliazione. Soltanto all’esito ed in caso negativo sarà possibile rivolgersi all’Autorità giurisdizionale competente.
In particolare, va adito il TAR in tutti i casi in cui si riscontri la violazione delle norme di legge che disciplinano il procedimento o uno sviamento dell’esercizio del potere certificatorio; diversamente, laddove si ravvisi un errore attinente alla qualificazione giuridica del contratto oppure una difformità tra il programma negoziale e quello che è stato effettivamente realizzato, la giurisdizione è riservata al Giudice ordinario atteso che tali vizi, hanno ad oggetto il corretto inquadramento del rapporto di lavoro rispetto alla qualificazione data.
Gli effetti dell’accertamento dell’organo preposto alla certificazione del contratto di lavoro permangono, anche verso i terzi, fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili
La decisione giurisdizionale di accoglimento del ricorso avrà effetto sin dal momento della conclusione del contratto solo nel caso in cui sia stato rilevato un errore nella sua qualificazione giuridica; mentre, in caso di difformità del programma negoziale, la decisione spiegherà effetti dal momento in cui tale difformità abbia avuto inizio secondo quanto accertato in giudizio.
Il Giudice del Lavoro va individuato secondo i criteri di cui all’art. 413 c.p.c.. In caso di certificazione di contratto di appalto, appare
possibile ricorrere al criterio del luogo ove si trova una dipendenza dell’azienda presso cui si svolge il rapporto di lavoro, intendendosi per tale anche il singolo cantiere (cfr. Cass. sez. lavoro. n. 11320/2014).

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Modificato: 14 Giugno 2023