17 Gennaio 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….
Oggi parliamo di………….

 

L’OBBLIGO DI REPERIBILITÀ PERMANE IN CAPO AL LAVORATORE ANCHE DURANTE I PERIODI DI SOSPENSIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 36729 DEL 25 NOVEMBRE 2021
La Corte di Cassazione, sentenza n. 36729 del 25 novembre 2021, afferma che durante il periodo di sospensione del rapporto di lavoro permane in capo al lavoratore l’obbligo di reperibilità, restando immutato il vincolo di subordinazione esistente tra le parti.
Nel caso de quo un lavoratore ricorreva in Tribunale per impugnare giudizialmente il licenziamento disciplinare intimatogli dal datore di lavoro, in seguito all’accertata omissione di comunicazione della variazione dell’indirizzo di reperibilità durante il periodo di malattia. Mentre il Tribunale annullava il licenziamento e condannava la società datrice alla reintegrazione, la Corte d’Appello in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento, condannando però il datore di lavoro al pagamento di una mera indennità risarcitoria, invece che alla reintegra, ritenendo che l’omissione del lavoratore con riferimento alla variazione del proprio domicilio rappresentasse una violazione degli obblighi a lui imposti dal contratto collettivo, che aveva di fatto limitato il pieno esercizio del potere di controllo riconosciuto al datore di lavoro.
Il lavoratore ricorreva dunque in Cassazione. La Suprema Corte afferma che l’assenza per malattia rappresenta un’ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro, secondo la definizione fornita dal codice civile, tuttavia, la sospensione si riferisce unicamente alla prestazione lavorativa e non anche al rapporto di subordinazione, che resta sempre presente, anche al verificarsi dell’evento morboso. Questa circostanza comporta che durante la malattia restino in capo al datore di lavoro il potere direttivo ed il potere di controllo, in forza dei quali egli potrà procedere all’accertamento di circostanze volte a dimostrare l’insussistenza dello stato di malattia o la non idoneità dello stato di salute del lavoratore a determinare l’incapacità lavorativa. Se quindi durante il periodo di sospensione del rapporto il datore di lavoro può esercitare i poteri a lui riconosciuti, permane in capo a lavoratore l’obbligo di reperibilità, in quanto si tratterebbe di un’esplicazione del suo obbligo di cooperare nell’impresa. Tuttavia, laddove, tale obbligo venga specificamente, come nel caso in oggetto, previsto dal contratto collettivo ed in caso di sua violazione venga prevista una mera sanzione conservativa, sarà applicabile al lavoratore la tutela reintegratoria stabilita dall’art. 18 comma 4 della Legge n. 300/1970. Pertanto, per le ragioni esposte, i Giudici di Piazza Cavour cassano la sentenza, rinviando alla Corte d’Appello in diversa composizione.

 

L’OBBLIGO DI VERIFICA DELL’IDONEITÀ DELL’IMPRESA AFFIDATARIA AD OPERA DEL COMMITTENTE PUO’ DIRSI ADEMPIUTO SE SI PERFEZIONA CON L’ESIBIZIONE DEL DURC E NON SULLA BASE DI MERE DICHIARAZIONI

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 43604 DEL 26 NOVEMBRE 2021
La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 43604 del 26 novembre 2021, ha statuito che per assolvere agli obblighi di verifica previsti dal Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro, il committente non può fare semplice affidamento sulle dichiarazioni dell’impresa affidataria, ma è tenuto ad un controllo effettivo mediante visione diretta della documentazione che attesti la sussistenza dei requisiti di idoneità in relazione alle funzioni o ai lavori da assegnare.
Il caso di specie ha riguardato la domanda di appello, convertita poi in ricorso per cassazione, sollevata dall’amministratore della società committente di un’opera edile avverso la sentenza di colpevolezza del Tribunale di Ascoli Piceno per violazione dell’articolo 90, comma 9, lettera a) del D. Lgs. 81/2008. In particolare, l’imputato articolava la propria difesa dichiarandosi non colpevole perché inconsapevole del fatto (carenza di idoneità) in quanto ingannato dall’impresa affidataria dei lavori.
Il Giudice a quo aveva condannato l’amministratore alla pena di Euro 2.500 di ammenda all’esito dell’ispezione svolta dalla Direzione Provinciale del Lavoro di Ascoli Piceno presso il cantiere dove erano in corso lavori di costruzione in cui si riscontrava che l’impresa affidataria fosse una società di intermediazione finanziaria priva dei requisiti tecnici necessari ad operare nel cantiere e altresì sprovvista del Durc che attestasse il versamento dei contributi previdenziali in favore dei propri dipendenti.
La Suprema Corte, nel richiamare la costruzione dell’accaduto ad opera del Tribunale, ha dichiarato il ricorso dell’imputato inammissibile per manifesta infondatezza, data l’inadeguatezza delle motivazioni addotte a modificare la sentenza di primo grado. Infatti, indipendentemente dalle dichiarazioni fornite dall’impresa cui sono stati affidati i lavori, si configura sempre un illecito penale qualora l’amministratore/responsabile della società committente non si assicuri dell’idoneità tecnico-professionale facendosi esibire la documentazione di cui all’allegato XVII del D. Lgs. 81/2008.

 

NESSUN RISARCIMENTO PER IL LAVORATORE VITTIMA DI UNA CADUTA PRIMA DI ENTRARE IN SERVIZIO A CAUSA DEL SUO COMPORTAMENTO IMPRUDENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 37738/21 DEL 1° DICEMBRE 2021
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 37738, depositata il 1° dicembre, ha sancito che nessun risarcimento spetta al lavoratore vittima di infortunio sul lavoro se questi ha adottato una condotta “imprevedibile” interrompendo il nesso causale tra l’attività lavorativa e l’incidente.
Nel caso preso in esame, infatti, un lavoratore agiva nei confronti dell’azienda ospedaliera datrice di lavoro per l’ottenimento di un risarcimento economico per il danno biologico subito a seguito di un infortunio sul lavoro. Recatosi a lavoro, il medico parcheggiava la propria autovettura nel piazzale antistante l’edificio presso il quale prestava servizio e cadeva inciampando sui cordoli di un marciapiede disconnesso ed incompleto. La Corte di Appello, confermando quanto sostenuto dai Giudici di prime cure, respingeva la domanda escludendo ogni responsabilità del datore di lavoro, atteso che l’incidente si era verificato a seguito di un “comportamento colposo” del lavoratore che aveva parcheggiato in un’area non adibita a parcheggio. Secondo i Giudici, inoltre, il lavoratore non aveva specificato per quale motivo l’azienda datrice dovesse ritenersi responsabile della manutenzione dei cordoli del marciapiede sul quale era caduto, posto che questo si trovava al di fuori della struttura sanitaria presso la quale il dipendente lavorava.
Avverso tale decisione il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione sostenendo che l’incidente era avvenuto nell’area pertinenziale dell’ospedale, pertanto era evidente la responsabilità dell’Azienda sanitaria in quanto “la responsabilità del datore di lavoro si estende anche al di fuori del posto di lavoro assegnato al dipendente, comprendendo anche le zone adiacenti nelle quali gli addetti possono comunque recarsi e muoversi”. La Suprema Corte, invece, riteneva condivisibile il ragionamento operato dai Giudici di Appello poiché vero è che a carico del datore di lavoro sono posti obblighi di protezione ma il lavoratore, parcheggiando in un’area non adibita a parcheggio, aveva adottato una “condotta imprevedibile”, interrompendo così il nesso di causalità tra l’attività lavorativa e l’incidente. In conclusione, secondo gli Ermellini nessun risarcimento era dovuto essendo da escludersi qualsiasi responsabilità dell’Azienda sanitaria anche perché il lavoratore non aveva provato l’esistenza di alcuna autorità dell’azienda datrice sul marciapiede sul quale era caduto.

 

L’INTERDITTIVA PUÒ SCATTARE ANCHE A CARICO DELLA SRL CON UN SOLO SOCIO.

CORTE DI CASSAZIONE – VI SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 45100 DEL 6 DICEMBRE 2021
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 45100 del 6 dicembre 2021, ha statuito che l'interdittiva ex Dlgs n.231/01 può scattare anche a carico della società a responsabilità limitata con un unico socio, in quanto la società personale, risulta distinta dalla mera impresa individuale avendo una propria soggettività e un patrimonio autonomo. Pertanto, la responsabilità dell'ente può configurarsi quando è impossibile distinguere l'interesse del primo da quello della persona fisica che lo amministra, un fattore che pesa pure più delle dimensioni e della struttura organizzativa dell'azienda.
Il caso di specie riguarda l’accoglimento delle doglianze del Pubblico Ministero nei confronti di un’ordinanza dei Giudici Territoriali con cui era stato annullato il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione a carico di tre SRL, imposto perché il titolare era sospettato di aver corrotto un assessore comunale, con la presunzione che le società in parola erano delle mere imprese individuali e, quindi, non soggette alle disposizioni di cui al Dlgs n. 231/01.
Ex adverso, per i Giudici di piazza Cavour, anche la società con un unico socio, che pure sottende un interesse patrimoniale prettamente individuale, costituisce sul piano giuridico un ente autonomo dalla persona fisica, al contrario delle imprese individuali, che invece, possono avere anche un'organizzazione complessa ma non sono enti, e risultano per ciò solo escluse dalla responsabilità amministrativa, configurata senz'altro quando la società unipersonale è partecipata da una compagine di capitali oppure ha un patrimonio e un'organizzazione tali da rendere evidente l'esistenza di un centro d'imputazione d'interessi giuridici autonomo da quello del socio.
Con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno evidenziato che, se da una parte bisogna evitare la violazione del ne bis in idem che si avrebbe imputando alla persona fisica un cumulo di sanzioni punitive per lo stesso fatto, dall'altra bisogna evitare che il soggetto sfugga alla responsabilità patrimoniale illimitata costituendo una SRL unipersonale ed evitando nel contempo le sanzioni del Dlgs n. 231/01 come impresa individuale.
In nuce, per la S.C., è imprescindibile una verifica complessa, anzitutto su criteri più funzionali che quantitativi, soffermandosi sui rapporti tra società e socio, stabilendo se è possibile separare l'interesse della prima da quello del secondo.

 

LA VALUTAZIONE RELATIVA ALL’APPLICABILITÀ DEL CCNL DEVE TENERE CONTO DEI CRITERI INTERPRETATIVI IN SENSO STRETTO E DI QUELLI INTERPRETATIVI – INTEGRATIVI

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 39412 DEL 10 DICEMBRE 2021
Con ordinanza n. 39412 del 10 dicembre 2021, la Corte di Cassazione ha statuito che nella valutazione del CCNL applicabile al rapporto di lavoro, debbano essere applicati i criteri strettamente interpretativi ed in subordine, quando attraverso questi non si pervenga ad una soluzione inequivocabile, i criteri interpretativi – integrativi.
Nel caso de quo un lavoratore adiva il Tribunale per impugnare il licenziamento intimatogli dal datore di lavoro per giusta causa, perché considerato irrituale. Il lavoratore lamentava, infatti, la circostanza che non fosse stato rispettato il termine di 10 giorni per l’intimazione del provvedimento disciplinare espulsivo e richiedeva, pertanto, la reintegra nel posto di lavoro e la condanna al pagamento delle retribuzioni maturate. Sia in primo, che in secondo grado di giudizio, la domanda veniva rigettata, giacché, a parere dei giudici di merito il licenziamento era da considerarsi non irrituale, poiché doveva ritenersi applicabile il CCNL Terziario, il quale prevedeva un termine di 15 giorni per la comunicazione del provvedimento disciplinare.
Il lavoratore ricorreva dunque in Cassazione. La Suprema Corte, afferma che l’interpretazione degli atti negoziali implica l’applicazione di canoni legali di ermeneutica contrattuale, i quali sono governati da un principio di gerarchia, secondo cui i canoni interpretativi in senso stretto (primo tra tutti quello fondato sul significato letterale delle parole) prevalgono su quelli interpretativi – integrativi, qualora l’applicazione dei primi risulti già sufficiente a rendere chiara l’intenzione delle parti contraenti.
Nel caso in oggetto, la lettera di assunzione conteneva un espresso rinvio al contratto di lavoro per i dipendenti delle aziende commerciali, giudicato però equivoco, giacché mancavano la denominazione dello stesso e la data di stipula, necessari ad indentificare in maniera inequivocabile quale fosse il CCNL applicato. Risulta allora perfettamente coerente la valutazione complessiva delle clausole operata dai giudici di merito, che nel tentativo di ricostruire la volontà di entrambe le parti, anche alla luce del comportamento tenuto durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, hanno ritenuto applicabile il CCNL Terziario.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

Condividi:

Modificato: 17 Gennaio 2022