16 Gennaio 2023

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

L’ACCESA CONFLITTUALITÀ NEL LUOGO DI LAVORO NON GENERA DANNI RISARCIBILI IN CAPO AL DIPENDENTE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 29059 DEL 6 OTTOBRE 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 29059 del 6 ottobre 2022, ha statuito che il datore di lavoro non viola l'obbligo di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore ex art. 2087 c.c., nell’ipotesi in cui sussista un’accesa conflittualità tra colleghi.

Il caso esaminato ha riguardato la pretesa di risarcimento al datore per presunti danni da mobbing subito dalla lavoratrice che attestava essere stata oggetto di denigrazioni e sgradevoli affermazioni ad opera di colleghi e superiori gerarchici. La Corte d’Appello rigettava la domanda, sul presupposto che la ricorrente non era riuscita a provare l’intento lesivo dei comportamenti dannosi.

La Cassazione, nel confermare la pronuncia di merito, ha precisato che il datore potrebbe risultare inadempiente al precetto contenuto nell’art. 2087 c.c., nell’ipotesi in cui l’ambiente di lavoro si manifestasse di per sé nocivo per la connotazione indebitamente stressogena.

Secondo i Giudici di legittimità, tuttavia, tale circostanza non si integra laddove si delinei soltanto una situazione di forti divergenze sul luogo di lavoro, posto che le stesse spesso risultano una inevitabile conseguenza del rapporto interpersonale tra colleghi e superiori che è, di per sé, possibile fonte di tensioni.

Detta situazione, per la sentenza, può sfociare in una malattia risarcibile del lavoratore solo in presenza di una comprovabile esorbitanza rispetto ad una normale conflittualità interpersonale. Non rinvenendo quest’ultima circostanza nel caso di specie, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla lavoratrice.

LA TRASMISSIONE DEL CERTIFICATO MEDICO RETROATTIVO PER LA GIUSTIFICAZIONE DELL’ASSENZA INTEGRA GLI ESTREMI DELLA GIUSTIFICAZIONE TARDIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 33134 DEL 10 NOVEMBRE 2022.

La Corte di Cassazione – sentenza n°33134 del 10 novembre 2022 – ha statuito, in tema di invio tardivo della giustificazione delle assenze, l’illegittimità del licenziamento disciplinare nel caso di consegna tardiva del certificato medico, ancorché successiva alla contestazione disciplinare.

Nel caso in esame, la Corte di appello di Firenze aveva confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che, in accoglimento del ricorso proposto da un lavoratore, aveva accertato l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato perché – in violazione degli artt. 72 e 74 del Ccnl applicato (Tessile abbigliamento) – era rimasto assente dal servizio senza alcuna giustificazione omettendo di presentare documentazione a giustificazione dell'assenza. La Corte territoriale, aveva sottolineato in fatto che la giustificazione era stata inviata il 28 luglio, ovvero allorquando era già stata inviata rituale contestazione disciplinare per l’assenza, ma, invero, alla successiva data del recesso, (3 agosto), la certificazione medica era arrivata al datore di lavoro che, ciononostante, aveva proceduto al licenziamento.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il datore di lavoro evidenziando che il Ccnl applicato stabiliva la sanzione del licenziamento disciplinare in presenza di più di tre giorni continuativi di assenza ingiustificata, per cui la giustificazione dell’assenza andava rapportata al momento in cui essa avrebbe dovuto manifestarsi, ovvero a ridosso dei giorni di malattia e non già all’esito della lettera di contestazione.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso evidenziando che le norme collettive invocate non legittimano le critiche mosse dalla ricorrente. In particolare, hanno aggiunto gli Ermellini, le parti sociali (artt. 72 e 74 Ccnl Tessile abbigliamento) hanno inteso punire con il licenziamento le assenze ingiustificate, cioè quelle per le quali il lavoratore non abbia documentato le ragioni delle stesse, ovvero quelle per le quali le ragioni invocate non siano risultate confermate all'esito del controllo datoriale. Ex adverso, per le assenze di cui non sia stata tempestivamente comunicata la giustificazione, le norme collettive hanno previsto la sanzione conservativa della multa.  Sul punto, la trasmissione del certificato di malattia, ancorché avvenuta dopo un intervallo temporale superiore a tre giorni, ricade sempre nella fattispecie inadempiente di grado minore.

La ratio va ravvisata nel punire le violazioni formali con sanzioni conservative e che il licenziamento si applica al caso in cui il datore di lavoro contesti l'esistenza effettiva di una giustificazione dell'assenza indipendentemente dalla sua tempestività. In sostanza, in caso di invio tardivo della giustificazione dell'assenza, il datore di lavoro potrà sempre intimare il licenziamento ove contesti, e poi provi in giudizio l'insussistenza di una legittima causa di sospensione dell'obbligo di rendere la prestazione ovvero l'inidoneità della documentazione tardivamente inviata a dimostrare la effettività della causa di sospensione.

Nel caso in specie, hanno confermato gli Ermellini, al momento del recesso la giustificazione era pervenuta al datore di lavoro ed il contenuto della certificazione non era stato contestato quanto alla sua idoneità a giustificare l'assenza.

LA TESTIMONIANZA DEL PROFESSIONISTA PUÒ ESSERE AMMESSA IN CASO DI OMESSA DICHIARAZIONE

CORTE DI CASSAZIONE – III SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 42614 DEL 10 NOVEMBRE 2022

La Corte di cassazione, con la sentenza n.42614 del 10/11/2022, ha statuito che è ammissibile la prova per testi per difendersi dall'accusa penale dell’Agenzia delle Entrate per omessa dichiarazione.

Il caso di specie è relativo alla condanna pronunciata dai Giudici di Merito nei confronti del legale rappresentante di una società unipersonale in ordine al reato di cui all'art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000, in quanto risultava imputato per avere, al fine di evadere le imposte, omesso di presentare la dichiarazione dei redditi, evadendo il pagamento dell'IRES per un importo superiore alla soglia di punibilità. Il contribuente si era rivolto alla Suprema Corte deducendo, tra i motivi, una violazione di legge per mancata ammissione, a testimone, del consulente della società, il quale, a suo dire, avrebbe ben potuto riferire in ordine all'ammontare dei costi deducibili e, in particolare, alla retribuzione mensile corrisposta al medesimo ricorrente, tali da abbattere la soglia di punibilità.

Con la sentenza de qua, i Giudici di piazza Cavour, hanno giudicato favorevolmente le predette doglianze del contribuente, ritenendo erronea l'affermazione contenuta nella decisione impugnata circa la non decisività della prova testimoniale richiesta in ordine al pagamento degli emolumenti all'amministratore, sull'assunto che la prova dell'effettiva erogazione può essere solo di natura documentale.

In nuce, per la S.C., la Corte Territoriale ha utilizzato principi privatistici e tributari che pongono limitazioni della prova per testi, ma nessuna limitazione di tal genere, tuttavia, è prevista dalla legge processuale penale, e nella specie, l'assunzione della testimonianza del consulente sarebbe stata di decisiva rilevanza, essendo idonea ad infirmare la validità logica dell'impianto giustificativo a sostegno del decisum, potendo incidere sulla determinazione dell'imposta evasa e sul superamento delle soglie di legge.

I CRITERI DI SCELTA ALL’INTERNO DI UNA PROCEDURA DI LICENZIAMENTO COLLETTIVO DEVONO ESSERE OGGETTIVI E VERIFICABILI

CORTE DI CASSAZIONE- SENTENZA N. 33623 DEL 15 NOVEMBRE 2022

La Corte di Cassazione, sentenza n. 33623 del 15 novembre 2022, statuisce che i criteri di scelta dei lavoratori da includere in una procedura di licenziamento collettivo devono essere oggettivi e verificabili.

Nel caso in esame, il lavoratore ricorreva giudizialmente per impugnare il licenziamento, intimato nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo.

La Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento, condannando il datore di lavoro sia alla reintegrazione del lavoratore, sia al pagamento del risarcimento del danno in misura pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in quanto aveva ritenuto che il licenziamento fosse stato posto in essere sulla base di una valutazione discrezionale del dipendente da parte del datore di lavoro, che aveva associato un punteggio a ciascun lavoratore sulla base di una serie di criteri, tra cui quello delle esigenze tecnico produttive ed organizzative. Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione.

La Suprema Corte, confermando la pronuncia della Corte distrettuale, ha affermato che la Legge n. 223/1991 stabilisce, all’art. 5 comma 1, l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità in relazione alle esigenze tecnico – produttive ed organizzative del complesso aziendale, ma nel rispetto dei criteri previsti dal CCNL stipulato con i sindacati di cui all'art. 4, comma 2, oppure, in assenza di questo, nel rispetto dei criteri dei carichi di famiglia, dell’anzianità e delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative. La stessa legge impone, inoltre, l’obbligo per il datore di lavoro di comunicare per iscritto la puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta indicati.

Dal dettato normativo si evince, dunque, che i criteri di scelta devono essere non solo oggettivi, per eliminare il rischio di valutazioni discrezionali da parte del datore di lavoro, ma anche verificabili, attraverso la formazione di una graduatoria rigida e controllabile. Valutazione necessaria ai fini della trasparenza della procedura di licenziamento, che non sarebbe effettuabile qualora fossero presenti margini di discrezionalità da parte del datore di lavoro nella scelta dei lavoratori oggetto della procedura.

LA SOTTOSCRIZIONE DI UN ACCERTAMENTO CON ADESIONE PRECLUDE LA SUA IMPUGNATIVA ANCHE IN CASO DI MANCATO PERFEZIONAMENTO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA 34576 del 23/11/2022

In tema di accertamento, l’accettazione della definizione con adesione ai sensi del D.Lgs. 218 del 1997, rende l’atto accertativo immodificabile e ne preclude l’impugnazione anche in caso di mancato perfezionamento (id. versamento delle imposte dovute).

Il caso in esame riguarda una serie di atti accertativi emessi nei confronti di un contribuente che deteneva attività all’estero senza tuttavia dichiararle al fisco italiano mediante la compilazione del quadro “RW” della dichiarazione dei redditi persone fisiche.

Accertata la violazione, l’Ufficio emetteva distinti atti di contestazione, che venivano poi definiti mediante la sottoscrizione della procedura di accertamento in contraddittorio denominata “Accertamento con adesione”, mediante la quale – in estrema sintesi – il contribuente, trovando un accordo con l’Amministrazione Finanziaria, accetta parzialmente o totalmente la contestazione erariale, ed ottiene una riduzione delle sanzioni pari ad 1/3 della sanzione minima.

Il contribuente, dichiarando, in sede di adesione, di poter far fronte al debito erariale solo all’avvenuto sblocco di somme depositate su un conto corrente sottoposto a sequestro penale, non provvedeva successivamente al pagamento, e, sulla base dell’art.9 del D.Lgs 218/1997, riteneva l’accordo non perfezionato, proponendo quindi ricorso innanzi la Commissione Tributaria Provinciale (ora Corte di Giustizia Tributaria Provinciale), che per l’effetto accoglieva la doglianza, disattesa poi in sede di appello dalla Commissione Tributaria Regionale (ora Corte di Giustizia Tributaria Regionale).

La Corte di Cassazione, investita della questione, risolve la questione a favore dell’Erario, giacché, come più volte espresso, distingue gli effetti della conclusione dell’accertamento con adesione da quelli del suo perfezionamento.

Infatti la conclusione dell’accordo ha l’effetto di cristallizzare la pretesa erariale, mentre il pagamento delle imposte e delle sanzioni oggetto di adesione produce solo l’effetto di perdita di efficacia dell’atto impositivo.

Nota infatti la Corte “che la reviviscenza dell'efficacia dell'originario avviso di accertamento, nel caso – che ricorre nella specie – di mancato adempimento dell'accordo, costituisce previsione posta a garanzia del fisco (cfr. Cass. 15980/2020 e Cass. n. 2161/2019), non anche del contribuente, essendo esclusa la possibilità, dopo la conclusione dell'accordo, di ripensamenti, stante la sua immodificabilità. Il successivo inadempimento giustifica piuttosto l'adozione, da parte dell'ente impositore, dei normali mezzi di coercizione, e non determina certo il travolgimento dell'accordo (in tal senso Cass. 30/04/2009, n. 10086; Cass. 2161/2019 e Cass. n.15980/2020)”.

In definitiva l’accertamento definito mediante la procedura di cui al D.Lgs. 218/1997 comporta l’immodificabilità dell’accordo raggiunto, ed il mancato perfezionamento ex art.9 non incide sulla validità dell’atto, restando preclusa al contribuente la possibilità di una successiva impugnazione dell’atto originario.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 16 Gennaio 2023