23 Gennaio 2023

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE DI RIVALUTAZIONE T.F.R. DICEMBRE  2022

Il 17 Gennaio scorso l’ISTAT ha comunicato coefficiente ed indice per rivalutazione TFR Dicembre 2022 (id: licenziamenti dal 15 dicembre al 14 gennaio 2023) determinandoli in 9,974576% (1,09974576) e 118,2.

 

LA DETERMINAZIONE DEL COMPENSO DEGLI AMMINISTRATORI DI SRL IN DIFETTO DI PREVENTIVA DELIBERA PUO’ ESSERE SANATA IN SEDE DI APPROVAZIONE DEL BILANCIO DI ESERCIZIO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 24562 DEL 9 AGOSTO 2022.

La Corte di Cassazione – sentenza n°24562 del 9 agosto 2022 – ha confermato, in tema di deducibilità del compenso per l’Ufficio dell’Amministratore, che in difetto di specifica e preventiva delibera, l’omissione può essere sanata in sede di approvazione del relativo bilancio di esercizio, laddove sia richiamata espressamente l’approvazione della specifica “voce”.

Nel caso de quo, la CTR della Campania aveva parzialmente accolto il ricorso proposto da una srl in ragione di plurime riprese, concernenti operazioni fittizie, operazioni soggettivamente e oggettivamente inesistenti, costi ritenuti indeducibili tra i quali quelli concernenti il compenso dell'amministratore in difetto di preventiva delibera sull’ammontare degli emolumenti.

Avverso la sentenza della CTR l'Agenzia delle entrate proponeva ricorso per cassazione, la società contribuente resisteva con controricorso, proponendo ricorso incidentale al quale conseguiva controricorso da parte dell’A.d.E..

In particolare, la società contribuente aveva obiettato, con particolare motivo di ricorso, il giudicato della CTR per avere “erroneamente” escluso la deducibilità del compenso dell'amministratore della società contribuente, in presenza di delibera di approvazione del bilancio da parte dell'assemblea totalitaria della società che aveva specificamente statuito sul compenso dell'amministratore.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato lo specifico motivo di ricorso evidenziando che la giurisprudenza della Corte ha sempre ritenuto che, qualora il compenso dell'amministratore non sia stabilito nello statuto, è necessaria una esplicita delibera assembleare per la sua determinazione, delibera che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio (Cfr. Cass. S.U. n°21933/2008 – Cass. n°28668/2018), attesa:

(a) la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall'essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche, nell'interesse pubblico al regolare svolgimento dell'attività economica, oltre che dalla previsione come delitto della percezione di compensi non previamente deliberati dall'assemblea (articolo 2630 c.c., comma 2, abrogato del Decreto Legislativo n. 61 del 2002, articolo 1);

(b) la distinta previsione delle delibere di approvazione del bilancio e di quella di determinazione dei compensi (articolo 2364 c.c., nn. 1 e 3);

(c) la mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione del bilancio;

(d) il diretto contrasto delle delibere tacite ed implicite con le regole di formazione della volontà della società.

Conseguentemente, hanno continuato gli Ermellini, l'approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall'articolo 2389 c.c., salvo che un'assemblea convocata solo per l'approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori.

Nel caso di specie, la CTR – diversamente da quanto sostenuto dalla società contribuente – aveva accertato che la delibera assembleare di approvazione del bilancio non aveva specificamente discusso del compenso dell'amministratore, ma aveva semplicemente approvato un bilancio che conteneva anche la relativa voce.

 

LA RESTITUZIONE DELLA NASPI È ILLEGITTIMA SE LA REINTEGRAZIONE NON E’ ADEMPIUTA DAL DATORE DI LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 30553 DEL 18 OTTOBRE 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 30553 del 18 ottobre 2022, ha statuito che è illegittimo il recupero della Naspi ad opera dell’Istituto previdenziale erogata a seguito della mancata reintegrazione del lavoratore disposta dal giudice per licenziamento illegittimo.

Nella fattispecie in esame l’INPS aveva trattenuto delle somme precedentemente erogate a titolo di indennità di disoccupazione direttamente dalla pensione di un ex lavoratore che, pur avendo ottenuto in giudizio la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, non era mai stato reintegrato nel posto di lavoro per mera volontà del datore soccombente. La Corte territoriale, ritenendo compatibile la Naspi con l’ordine di reintegra non eseguito -in virtù della sussistenza del presupposto dell’involontarietà del lavoratore alla disoccupazione- dichiarava l’illegittimità delle trattenute operate dall’INPS.

Secondo i Giudici di Piazza Cavour, il lavoratore destinatario del trattamento di disoccupazione, a fronte di un licenziamento dichiarato giudizialmente illegittimo, è tenuto a restituire l’indennità percepita solamente nel caso in cui il rapporto di lavoro si ricostituisca. Tuttavia, nel caso in cui, a seguito di licenziamento dichiarato nullo, non sia stato possibile reintegrare il lavoratore, per ragioni imputabili all’azienda, il lavoratore è tenuto a restituire le indennità di disoccupazione, non essendo venuto meno lo status di disoccupazione involontaria per mancanza di lavoro.

 

ANCHE LA SANZIONE FISSA PUÒ ESSERE RIDOTTA SE PALESEMENTE SPROPORZIONATA

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 33097 DEL 9 NOVEMBRE 2022

La Corte di Cassazione, con la sentenza n.33097 del 9 novembre 2022, ha statuito che la riduzione della sanzione per manifesta sproporzione rispetto all'entità del tributo si applica per tutte le sanzioni, anche a quelle che la legge stabilisce in misura proporzionale o fissa.

Il caso di specie, è relativo al ricorso di una società contribuente che lamentava la manifesta sproporzione della sanzione amministrativa tributaria ad essa irrogata. In particolare, la ricorrente aveva dedotto la nullità della sentenza emessa in secondo grado, per non avere, la CTR, proceduto a valutare le circostanze che rendevano oggettiva la sproporzione, limitandosi ad affermare che si trattava di una sanzione applicabile in un ammontare fisso e proporzionale al tributo, in misura predeterminata dal legislatore, senza spazio alcuno per valutazioni soggettive e apprezzamenti discrezionali e ciò diversamente dall'ipotesi in cui la determinazione della sanzione era fissata tra un minimo e un massimo graduabile sulla base di parametri oggettivi e soggettivi relativi all'illecito commesso.

Con la sentenza de qua, i Giudici di piazza Cavour hanno sancito che, in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, la disposizione contenuta nel comma quarto dell'art. 7 del Dlgs. n. 472/1997, che consente la riduzione della sanzione fino alla metà del minimo, quando concorrono eccezionali circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l'entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione stessa, si applica, in mancanza di specifiche eccezioni, ad ogni genere di sanzioni.

In nuce, per la S.C., la disposizione contenuta nel suddetto art.7 del Dlgs n.472/1997, si applica anche alle sanzioni che la legge stabilisce in misura proporzionale o fissa, dovendosi in tal caso considerare che il minimo ed il massimo si identificano in detta misura fissa o proporzionale.


RISARCIMENTO DEL DANNO NON PATRIMONIALE SUBITO A CAUSA DI CONDOTTE DI STRAINING

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 33639/2022 DEL 15 NOVEMBRE 2022

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 33639 del 15 novembre 2022, ha sancito che sono risarcibili i danni non patrimoniali subiti dal lavoratore a causa delle condotte di straining del datore di lavoro, descritte come una forma attenuata di mobbing, nella quale pur in assenza di continuità delle azioni vessatorie, venga determinata, con efficienza causale, una situazione di stress lavorativo causa di gravi disturbi psico-somatici o anche psico-fisici o psichici.

Nel caso in trattazione, un lavoratore proponeva domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno materiale, nonché biologico, esistenziale e morale asseritamente subito per la condotta mobbizzante della società datrice di lavoro. Il Tribunale rigettava la richiesta di risarcimento ma riconosceva l'effettivo demansionamento subito per essere stato effettivamente “sottoutilizzato” e lasciato inoperoso.

La Corte di Appello, confermando la sentenza di primo grado, escludeva in fatto l'esistenza, allegata dall'attore, di una macchinazione dolosa finalizzata all'emarginazione del lavoratore nel proprio ambiente di lavoro e avvalorava il demansionamento del lavoratore, lasciato in larga parte inoperoso, con la conseguente responsabilità contrattuale del datore di lavoro e l'obbligo a risarcire il danno.

Il lavoratore adiva la Corte di legittimità che accoglieva il suo ricorso limitatamente al mancato risarcimento di tutti danni non patrimoniali subiti a seguito del demansionamento e della conseguente malattia psico-somatica per la quale aveva agito in giudizio. Secondo gli Ermellini, infatti, i giudici di merito avevano erroneamente escluso la risarcibilità di tali voci di danno per la pregiudiziale copertura prestata dall'INAIL. La sentenza veniva cassata per aver erroneamente affermato che la liquidazione dell'indennizzo a carico dell'INAIL era condicio iuris per la proposizione della domanda risarcitoria nei confronti del datore di lavoro. La pronuncia risultava inoltre erronea laddove, pur avendo ritenuto sussistente l'illecito datoriale rappresentato dal demansionamento, aveva omesso l'accertamento e la liquidazione dei danni non patrimoniali. Difatti, pur avendo escluso la sussistenza di una macchinazione dolosa finalizzata all'emarginazione del lavoratore nel proprio ambiente di lavoro, restava la responsabilità del datore di lavoro per i danni subiti dal lavoratore a causa di un inadempimento degli obblighi datoriali, anche a titolo di mera colpa. Il mobbing è infatti caratterizzato dal soggettivo intento persecutorio che avvince la pluralità delle condotte pregiudizievoli attuate nei confronti della vittima, a prescindere dalla legittimità o illegittimità dei singoli atti. Inoltre “anche laddove non si riscontri il carattere della continuità e della pluralità delle azioni vessatorie o le stesse siano comunque limitate nel numero può comunque giustificarsi la pretesa risarcitoria ex art. 2087 c.c. nel caso in cui si accerti che le condotte datoriali inadempienti risultino comunque produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore”. Si tratta in questo caso di straining, una forma attenuata di mobbing, nella quale non si riscontra la continuità delle azioni vessatorie, in quanto la condotta nociva può realizzarsi anche con una unica azione isolata o, comunque, con più azioni prive di continuità che determinino, con efficienza causale, una situazione di stress lavorativo causa di gravi disturbi psico-somatici o anche psico-fisici o psichici.

In conclusione, la Suprema Corte cassava la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'Appello di Palermo per accertare se la condotta del datore di lavoro, anche solo colposa, abbia causato danni di contenuto non patrimoniale al lavoratore, procedendo in tal caso alla relativa liquidazione.
 

IL MANCATO VERSAMENTO DELLE RITENUTE COSTITUISCE REATO SOLO SE LE RITENUTE SONO STATE CERTIFICATE

CORTE DI CASSAZIONE PENALE – SENTENZA 43238 del 15/11/2022

In tema di ritenute effettuate dai sostituti d’imposta, il mancato versamento delle somme trattenute per un importo superiore ad € 150.000,00 costituisce reato se è dimostrato l’avvenuto rilascio delle certificazioni fiscali, non essendo provato dal solo esame della dichiarazione dei sostituti d’imposta (modello 770).

A questa conclusione è pervenuta la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, nell’esaminare il ricorso di un imputato che era stato dichiarato colpevole di omesso versamento di ritenute per un importo superiore ad € 150.000,00 risultanti dalla dichiarazione delle ritenute operate dai sostituti d’imposta, e quindi integrando la fattispecie di cui all’art.10/bis del D.Lgs. 74/2000 in materia di reati tributari.

Nota la Suprema Corte che, con la Sentenza n.175 del 2022, la Corte Costituzionale aveva ravvisato l’incostituzionalità delle modifiche introdotte al suddetto art.10/bis dal D.Lgs. 158/2015 (che aveva tra l’altro modificato la soglia di punibilità, portandola da € 50.000,00 ad € 150.000,00), nella parte in cui considerava gli importi delle ritenute “dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti “, giacché già con la sentenza delle Sezioni Unite n. 24782 del 2018, con riferimento alla normativa previgente alla modifica intervenuta nell'anno 2015, era stata “esclusa la idoneità del solo modello 770 (di dichiarazione delle erogazioni effettuate e delle ritenute operate), a provare l'elemento, da considerare presupposto del reato, del rilascio delle certificazioni”.

La declaratoria di incostituzionalità era tra l’altro stata causata dall’eccesso di delega che aveva portato, nella stesura del D.Lgs.158/2015, ad introdurre nei fatti una nuova ipotesi di reato, diversa da quella contenuta nella legge delega, nella parte in cui ha inserito le parole "dovute sulla base della stessa dichiarazione o" nel testo dell'art. 10 bis del decreto legislativo 10 marzo 2000 n. 74, sia dello stesso art. 10 bis del D.lgs. n. 74 del 2000, limitatamente alle parole "dovute sulla base della stessa dichiarazione o".

Nel premettere che la delega consentiva sì la configurazione di fattispecie penali, ma con riferimento a condotte tipiche di particolare gravità, la Consulta ha ribadito che la condotta di chi non versa le ritenute indicate nella relativa dichiarazione come sostituto d'imposta, al momento della delega, non costituiva reato, ma illecito amministrativo tributario, mentre solo in passato, ovvero fino alla riforma del 2000, è stata punita come reato contravvenzionale, dovendosi in tal senso escludere che si sia in presenza di «comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all'utilizzo di documentazione falsa», come indicato nella legge delega (art. 8, comma 1, della legge n. 23 del 2014).

Dalle considerazioni svolte dalla Corte Costituzionale si può quindi ricavare che “l'integrazione della fattispecie penale ex art. 10 bis richiede che il mancato versamento da parte del sostituto, per un importo superiore alla soglia di punibilità, riguardi le ritenute certificate, mentre il mancato versamento delle ritenute risultanti dalla dichiarazione, ma di cui non c'è prova del rilascio delle relative certificazioni ai sostituiti, costituisce illecito amministrativo tributario.”

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

Condividi:

Modificato: 23 Gennaio 2023