30 Gennaio 2023

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….
Oggi parliamo di………….

 

IMPLICITA APPLICAZIONE DEL CCNL PER COMPORTAMENTO CONCLUDENTE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 33420/2022 DELL’11 NOVEMBRE 2022
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 33420 dell’11 novembre 2022, ha stabilito che, qualora il datore di lavoro abbia sempre ispirato i propri rapporti alle previsioni del contratto integrativo, pur avendo dato disdetta all’associazione sindacale, tale comportamento è da interpretare come implicito recepimento dello stesso attraverso un comportamento concludente.
Nel caso in commento, un lavoratore dipendente otteneva un decreto ingiuntivo col quale la società datrice veniva condannata al pagamento di alcune somme a titolo di premio di produzione previste dal contratto integrativo interaziendale del settore manifatturiero. La società datrice di lavoro, benchè avesse già comunicato a Confindustria la disdetta dall'associazione di rappresentanza delle imprese del settore, continuava a erogare ai lavoratori alcune voci retributive previste dal medesimo contratto, non riconoscendo esclusivamente le somme ivi previste a titolo di premio produzione. L’azienda impugnava il decreto in Appello e la Corte, in riforma della pronuncia del Tribunale di primo grado, dichiarava l'illegittima disapplicazione del contratto integrativo interaziendale della società nei confronti del lavoratore, con conseguente condanna al pagamento della parte variabile del premio di partecipazione.
Avverso tale pronuncia, la società ricorreva in Cassazione sostenendo che l'aver seguitato ad applicare alcune disposizioni sulla retribuzione previste dal contratto non legittimava il lavoratore ad avere aspettative sull'applicazione dell'intera previsione contrattuale e quindi anche sul premio. Ciò posto, la formale disdetta indirizzata a Confindustria sarebbe stata sufficiente a disapplicare il contratto integrativo sul presupposto che i contratti collettivi sono contratti di diritto comune. A sostegno della corretta disapplicazione, sottolineava una tacita accettazione dello stesso e il mancato richiamo nei contratti di assunzione.
La Corte di Cassazione non riteneva tuttavia fondate le doglianze, ravvedendo nel comportamento di entrambe le parti l'implicita volontà di ispirare il loro rapporto alla disciplina del contratto integrativo: il comportamento concreto del datore di lavoro ricorrente, pur in costanza di disdetta dall'associazione sindacale dei datori di lavoro (Confindustria), andava interpretato come implicito mantenimento della volontà di porlo alla base del rapporto col lavoratore, considerato anche che l'unico aspetto che il datore evitava di riconoscere era quello riguardante il premio di produzione.
Ravvedendo nel comportamento del datore di lavoro la sua volontà di dar seguito alle disposizioni del contratto integrativo interaziendale, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso della Società.


L’ARCO DI TEMPO DEI DODICI MESI PER L’INTERVENTO DEL FONDO DI GARANZIA INPS DECORRE DALLA DATA DEL TENTATIVO OBBLIGATORIO DI CONCILIAZIONE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 34031 DEL 18 NOVEMBRE 2022
Con sentenza n. 34031 del 18 novembre 2022, la Corte di Cassazione, statuisce che l’arco temporale di dodici mesi ritenuto rilevante ai fini dell’intervento del Fondo di Garanzia INPS deve computarsi a ritroso dal tentativo obbligatorio di conciliazione.
Nel caso in oggetto, un dipendente aveva convenuto in giudizio l'INPS, quale gestore del Fondo di Garanzia, per ottenere il versamento di differenze sul TFR e di altri crediti da lavoro ex art. 2 del D. Lgs. n. 80/1992, domanda che, in via amministrativa, l'ente di previdenza aveva accolto limitatamente al TFR, ritenendo che il restante credito non fosse coperto dalla garanzia del Fondo, non rientrando nei termini indicati dall'art. 2 comma 1 del D. Lgs. n. 80/1992, giacché il dies a quo a ritroso non era rappresentato dalla data in cui era stato promosso il tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c., considerata la sua natura precontenziosa e non giurisdizionale.
Sia un primo, che in secondo grado il ricorso veniva rigettato. Il lavoratore ricorreva quindi in Cassazione.
La Suprema Corte afferma che il termine dei dodici mesi nell'ambito dei quali la tutela deve essere garantita decorre dalla data dell'istanza di conciliazione che ha dato impulso al percorso di riscossione giudiziaria, trattandosi di condizione di procedibilità della domanda espressamente prevista dall'art. 412 bis c.p.c. Tale conclusione è stata già più volte richiamata dalla Corte, secondo la quale il legislatore ha ancorato l'intervento del Fondo alla circostanza, tra l’altro, del previo esperimento dell'esecuzione forzata per la realizzazione del credito. Il dies a quo da computare a ritroso non riguarda però la data in cui la insolvenza viene accertata, bensì la data in cui viene proposta la domanda e ciò allo scopo di evitare che la lunghezza del procedimento concorsuale o esecutivo individuale vadano a detrimento del lavoratore.
Orbene, la sentenza impugnata, non attenendosi ai principi esposti, viene cassata dai Giudici di legittimità che rinviano alla Corte d’Appello.

 

L’AMMINISTRATORE DI DIRITTO NON È AUTOMATICAMENTE RESPONSABILE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 43969 DEL 18 NOVEMBRE 2022
La Corte di Cassazione, con la sentenza n.43969 del 18/11/2022, ha statuito che in merito alle condotte illecite poste in essere dai gestori di fatto, l'amministratore di diritto della società non può essere ritenuto responsabile solo perché ha assunto la carica, in quanto non sussiste, infatti, un obbligo generalizzato che imponga di vigilare sulla regolare osservanza di qualsiasi norma penale da parte dei soggetti comunque coinvolti nelle attività sociali.
Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno confermato l'annullamento della misura cautelare degli arresti domiciliari, per come disposta dal GIP, nei confronti dell'amministratore di diritto di una società, indagato dei reati di associazione a delinquere, riciclaggio e reimpiego di denaro.
Gli Ermellini, con la sentenza de qua, hanno aderito in toto alle conclusioni cui era giunto il Tribunale della Libertà, secondo cui l'avere ricoperto, l'indagato, la carica di amministratore di diritto, quale mero prestanome delle società utilizzate per la consumazione di una serie di condotte di riciclaggio e reimpiego di denaro, non poteva, di per sé, integrare la gravità indiziaria dei delitti contestati,  non essendoci alcuna prova della condivisione delle finalità elusive né della consapevolezza, al momento dell'accettazione della carica fittizia, della strumentalizzazione di quella società alla realizzazione di attività di riciclaggio ed autoriciclaggio, per come poste in essere da parte degli amministratori di fatto della compagine.
In nuce, per la S.C., le condotte come quelle nella specie contestate costituiscono un quid pluris rispetto alle semplici attività di evasione fiscale, richiedendo la prova che, attraverso le attività di quella società, siano state effettuate operazioni mirate a sostituire il profitto illecito dei reati commessi, e di conseguenza, la responsabilità a titolo di concorso sotto il profilo soggettivo può essere affermata solo in presenza di indici rivelatori del concorso morale, vale a dire della consapevolezza da parte dell'amministratore di diritto che la società verrà utilizzata anche per il compimento di azioni di quel particolare tipo, non essendo sufficiente una generica conoscenza della destinazione della struttura ad attività di elusione fiscale.

 

LE FATTURE PER OPERAZIONI INESISTENTI SONO ANCHE QUELLE CHE SI CONNETTONO AL COMPIMENTO DI UN NEGOZIO GIURIDICO APPARENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZ. PENALE – SENTENZA N.45114 DEL 28 NOVEMBRE 2022.
La Corte di Cassazione – Sez. Penale – sentenza n°45114 del 28 novembre 2022 – ha ribadito che, le operazioni giuridicamente inesistenti, ovvero tese a mascherare una diversa tipologia contrattuale, comportano l’indeducibilità del costo con conseguente responsabilità penale per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti ex art. art. 2, D.Lgs. n°74/2000.
Nel caso de quo, la Corte di appello di Brescia in parziale riforma della sentenza pronunciata dal tribunale della stessa città, aveva confermato la condanna di penale responsabilità ex art. art. 2, D.Lgs. n°74/2000 a carico dell’amministratore di una srl. In particolare, le fatture considerate inesistenti erano relative alla deduzione di costi in bilancio derivanti da un contratto di appalto che in realtà mascherava una illecita somministrazione di personale.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il contribuente eccependo che i documenti fiscali in questione erano solo "soggettivamente" inesistenti, in quanto comunque relativi alla fornitura di manodopera.
Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso e ribadito che le fatture per operazioni inesistenti sono anche "quelle che si connettono, ad esempio, al compimento di un negozio giuridico apparente diverso da quello realmente intercorso tra le parti (inesistenza giuridica per simulazione relativa)”.
Ciò posto, hanno argomentato gli Ermellini, va rilevato che le fatture emesse con riferimento ad un appalto di servizi, il quale costituisce lo "schermo" per occultare una somministrazione irregolare di manodopera, in violazione dei divieti di cui al D.Lgs. n°276/2003 (ora sostituito dal D.Lgs. 81/2015), da un lato, sono qualificabili come fatture connesse al compimento di un negozio giuridico apparente diverso da quello realmente intercorso tra le parti, e, per altro verso, attengono ad una operazione implicante significative conseguenze di rilievo fiscale. All’uopo, non vi è dubbio che il ricorso alla figura dell'appalto di servizi al fine di occultare una somministrazione irregolare di manodopera dia luogo ad una simulazione relativa diretta a nascondere la stipulazione di un contratto affetto da nullità.
La nullità del contratto di somministrazione irregolare di manodopera, hanno concluso gli Ermellini, determina la mancanza di certezza, nonché di determinatezza o determinabilità, dei costi dal medesimo derivanti, e, quindi, ne preclude il riconoscimento ai fini della determinazione delle imposte sui redditi.

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO PER RIDUZIONE DELL’ATTIVITA’

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 35225/2022 DEL 30 NOVEMBRE 2022
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 35225 del 30 NOVEMBRE 2022, ha ritenuto legittimo il licenziamento del pizzaiolo se il proprietario del locale, in difficoltà, vuole ridurre l’attività per ottenere un calo dei costi ed un conseguente aumento dei profitti. Non contestabile, nella sostanza, la decisione imprenditoriale concretizzatasi nella soppressione del posto di pizzaiolo con ripartizione di quelle mansioni tra gli altri dipendenti e i componenti della società proprietaria della pizzeria.
Nel caso in trattazione, un lavoratore inquadrato come pizzaiolo impugnava il licenziamento motivato dalla “soppressione del posto di lavoro con ripartizione delle relative mansioni tra gli altri dipendenti ed i soci al fine di conseguire un calo dei costi ed un miglioramento dei profitti”. I Giudici, sia in primo grado che in appello, confermavano il licenziamento affermando che le ragioni della scelta presa dal proprietario del locale erano chiare e che, in quanto all’esistenza di posizioni alternative in cui collocare il lavoratore in adempimento dell’obbligo di repechage, effettivamente la posizione lavorativa del pizzaiolo era unica e nessuno era stato assunto per essere adibito a quelle mansioni mentre le altre mansioni, di preparazione del caffè al banco del bar e di carico e scarico dei rifornimenti, erano del tutto accessorie e svolte in maniera saltuaria, e perciò non decisive ai fini della verifica dell’adempimento datoriale all’obbligo di repechage.
Anche i Giudici di Cassazione ritenevano legittimo il licenziamento ravvisando il giustificato motivo oggettivo di licenziamento nell’andamento economico negativo dell’azienda che aveva comportato la soppressione del posto di lavoro a seguito di una diversa redistribuzione delle mansioni tra il personale in servizio. La Corte Suprema, infatti, affermava che “in linea teorica è vero che, soppressa la posizione lavorativa e redistribuite le mansioni svolte, se residuano altre mansioni pure assegnate al dipendente in passato, queste possono costituire il contesto in cui ricollocare il lavoratore” ma nella vicenda in esame, si era accertato che la posizione lavorativa del pizzaiolo era stata soppressa e le relative mansioni erano state redistribuite tra i soci. Tale accertamento era stato effettuato tenendo specificatamente conto della circostanza che l’attività produttiva era gestita in ambito familiare ed era stato appurato che le altre mansioni assegnate al lavoratore erano assolutamente residuali e affidategli solo in maniera saltuaria e occasionale. I giudici, infine, osservavano che non vi erano state nuove assunzioni successivamente al licenziamento del pizzaiolo e ciò avvalorava la tesi portata avanti dal titolare del locale, e cioè che il licenziamento andava inquadrato nell’ottica di una riduzione dell’attività per ottenere il calo dei costi e per conseguire un miglioramento dei profitti.
Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
    Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 30 Gennaio 2023