6 Febbraio 2023

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

IL DEPOSITO DI UN RICORSO CHE NON RISPONDA ALLE SPECIFICHE TECNICHE DEL GIUDIZIO TRIBUTARIO TELEMATICO E’ INESISTENTE ED IL GIUDIZIO INAMMISSIBILE

CORTE DI GIUSTIZIA TRIBUTARIA DI II GRADO PIEMONTE – SENTENZA n. 946 del 10/10/2022

Con Sentenza n. 946 della Corte di Giustizia Tributaria di II Grado del Piemonte si è ribadito che il deposito di un ricorso con modalità difformi dalle specifiche tecniche previste per il processo tributario, tale atto deve considerarsi inesistente e quindi il ricorso inammissibile.

L'art. 16 del D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, convertito in L. 17 dicembre 2018, n. 136, modificando l'art. 16 bis del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ha stabilito che, dal 1° luglio 2019, la notifica e il deposito degli atti processuali presso le segreterie delle Commissioni tributarie (leggasi Corti di Giustizia Tributaria) sono eseguiti esclusivamente in modalità telematica.

Tali specifiche tecniche prevedono che gli atti, ed in generale tutti i documenti costituenti il fascicolo del processo, debbano essere depositati mediante l'utilizzo di documenti informatici nativi, in formato pdf/A la o pdf/A lb, e debbano essere sottoscritti con firma digitale.

A tali specifiche non si era attenuto il contribuente che proponeva ricorso avverso l’emissione di un atto impositivo emesso dall’Agenzia delle Entrate in materia di imposta di registro, depositando il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado redatto in forma cartacea, sottoscritto manualmente, scannerizzato e notificato a mezzo PEC.

La CTP con sentenza depositata il 27 ottobre 2021 dichiarava inammissibile il ricorso perché redatto in forma di documento analogico notificato a mezzo PEC.

Nel ricorso d’appello il contribuente chiede la riforma della decisione di primo grado giacché, seppur irritualmente, il ricorso aveva raggiunto lo scopo, dal momento che “si era ritualmente incardinato il contraddittorio. La nullità processuale dell'atto redatto in forma analogica non era dettata da alcuna norma di legge primaria. Le modalità di redazione del ricorso erano stabilite soltanto da alcune norme regolamentari, con la conseguenza che non poteva dichiararsi la nullità, prevista soltanto in ipotesi tassative.”

Non dello stesso parere la Corte di Giustizia di II Grado, che ricorda invece che “L'art. 16, comma 3, del D.lgs. 546/92 stabilisce che "3. Le parti, i consulenti e gli organi tecnici indicati nell'articolo 7, comma 2, notificano e depositano gli atti processuali i documenti e i provvedimenti giurisdizionali esclusivamente con modalità telematiche, secondo le disposizioni contenute nel decreto del MEF 23 dicembre 2013, n. 163, e nei successivi decreti di attuazione.”

Va poi ricordato l'art. 10, comma 1, D.M. Finanze 04 agosto 2015 precisa che: "Il ricorso e ogni altro atto processuale in forma di documento informatico rispettano i seguenti requisiti: a) sono in formato PDF/A-1a o PDF/A-1b; b) sono privi di elementi attivi, tra cui macro e campi variabili; e) sono redatti tramite l'utilizzo di appositi strumenti software senza restrizioni per le operazioni di selezione e copia di parti; non è pertanto ammessa la copia per immagine su supporto informatico di documento analogico; d) sono sottoscritti con firma elettronica qualificata o firma digitale, pertanto il file ha la seguente denominazione: < nome file libero >.pdf.p7m"

Ne deriva che, come ha sostanzialmente affermato la Suprema Corte nell'ambito del processo penale (Cass.25 gennaio 2022, n. 2874/22), la violazione delle regole tecniche relative alla formazione del documento informatico comporta come conseguenza che per l'assenza della firma digitale l'atto non può essere qualificato come atto scritto e non può produrre gli effetti previsti dall'art. 2702 c.c.. e quindi comporta che l'atto non è riferibile al soggetto che l'ha apparentemente sottoscritto.
E nemmeno, nota la Corte, può ritenersi che nella specie l'atto abbia raggiunto lo scopo ai sensi della generale previsione dell'art.156 c.p.c. e che pertanto la nullità risulti sanata. Infatti la violazione delle norme sulla redazione dell'atto determina non la nullità dello stesso, ma l'inesistenza.

Conclude quindi la CGT II Grado per il rigetto del ricorso.

LA RIPARTIZIONE DELL’ONERE PROBATORIO PER RISARCIMENTO DANNO DA "SUPERLAVORO" RICADE SUL LAVORATORE, QUANTO AL NESSO EZIOLOGICO, E SUL DATORE, QUANTO ALLE MODALITA’ DI SVOLGIMENTO DELLA PRESTAZIONE.

CASSAZIONE – ORDINANZA N. 34968 DEL 28 NOVEMBRE 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 34968 del 28 novembre 2022, ha statuito che, in ordine alla richiesta di risarcimento per danno da “superlavoro”, sebbene spetti al dipendente provarne l’esistenza attestando il nesso con la nocività dell’ambiente in violazione dell’art. 2087 c.c., sarà comunque onere del datore dimostrare che la prestazione si sia svolta con modalità normali, congrue e tollerabili per l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore al fine di liberarsi dalle istanze risarcitorie.

La controversia ha riguardato la richiesta di risarcimento del danno biologico di un dipendente della P.A. che deduceva di aver lavorato a ritmi insostenibili a causa della carenza di personale. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello, pur riconoscendo il diritto all’equo indennizzo previsto dall’art. 2, D.P.R. 461/2001, per infermità da causa di servizio, rigettavano la domanda risarcitoria stante l'assenza di prova delle violazioni che, secondo il ricorrente, dovevano essere imputabili al datore.

I Giudici di Piazza Cavour, nel ribaltare il decisum, rilevano preliminarmente che lo svolgimento di un’attività lavorativa, in sé legittima, prevede già un certo grado connaturato di usura, le cui conseguenze negative subite dal lavoratore sono coperte in via indennitaria dall’assicurazione pubblica qualora sia provato il mero ricorrere di una occasione di lavoro. Tuttavia, ove il lavoratore dimostrasse che l’attività de qua si sia svolta secondo modalità devianti da quelle ordinarie, eccedenti la tollerabilità e con ritmi insostenibili, si configurerebbe responsabilità datoriale per inadempimento all’obbligo di garantire l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, ossia per mancata attuazione di misure volte ad evitare un pregiudizio ulteriore indebito. Ne consegue, dunque, il principio di diritto secondo cui: in tema di azione di risarcimento per danni cagionati da un’attività lavorativa eccedente rispetto alla ragionevole tollerabilità, se, da una parte, il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente tutte le prove attestanti le modalità nocive di svolgimento della prestazione ed il nesso causale con il danno subito, dall’altra, spetta al datore dimostrare che -viceversa- l’attività si sia svolta con modalità normali, congrue e tollerabili.

IL DANNO BIOLOGICO TERMINALE NON SUSSISTE SE IL LAVORATORE PERDE LA VITA POCHE ORE DOPO L’INCIDENTE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 34987/2022 DEL 28 NOVEMBRE 2022

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 34987 del 28 novembre 2022, ha stabilito che il danno biologico terminale non sussiste qualora il lavoratore sopravviva per un breve lasso di tempo dopo un mortale incidente sul lavoro.

Nel caso in commento, la moglie e la figlia di un lavoratore deceduto a seguito di un mortale incidente sul lavoro, vedevano riconosciuto il loro diritto al risarcimento solo per la parte costituente il danno morale. Il lavoratore, schiacciato contro un muro da una macchina escavatrice in retromarcia mentre sistemava un'aiuola, perdeva la vita a poche ore dall'incidente e proprio su questo assunto la Corte territoriale, in riforma della sentenza del giudice di primo grado, non riconosceva la sussistenza di un danno biologico terminale, sostenendo che lo stesso debba ritenersi integrato solo nei casi in cui la vittima sopravviva per un lasso di tempo apprezzabile.

Avverso questa sentenza ricorrevano in Cassazione le eredi lamentando violazione e falsa applicazione dell’art.2043 c.c. per erronea esclusione del danno biologico e ritenendo violati i principi di integralità del risarcimento del danno alla persona. La Suprema Corte tuttavia riteneva valide le considerazioni alla base della sentenza impugnata e dichiarava infondato il motivo specifico di ricorso richiamando il precedente orientamento in materia. Secondo i giudici, infatti, il danno subito dalla vittima, nelle ipotesi in cui la morte sopravvenga dopo apprezzabile lasso di tempo dall'evento lesivo, è configurabile e trasmissibile agli eredi nella duplice componente di danno biologico “terminale”, ossia di danno biologico da invalidità temporanea assoluta, e di danno morale, consistente nella sofferenza patita dal danneggiato che lucidamente e coscientemente assista allo spegnersi della propria vita. Il danno biologico terminale è dunque configurabile e trasmissibile iure successionis laddove la vittima sopravviva per almeno ventiquattro ore (tale essendo la durata minima, per convenzione legale, a fini di apprezzabilità dell'invalidità temporanea) essendo, invece, irrilevante che rimanga cosciente (Cass. civ, 5 luglio 2019, n. 18056). Nel caso in questione, la Cassazione rigettava il ricorso ritenendo che la Corte d’Appello avesse correttamente applicato tale principio, essendo stato accertato che il lavoratore era sopravvissuto solo per poche ore dopo il tragico incidente.

IN OCCASIONE DI LICENZIAMENTI INDIVIDUALI O COLLETTIVI L‘IMPRENDITORE NON PUO’ SUPERARE I LIMITI IMPOSTI DALLA PERCENTUALE DI PERSONALE APPARTENENTE ALLE CATEGORIE PROTETTE ORIGINARIAMENTE ASSUNTO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.35035 DEL 28 NOVEMBRE 2022.

La Corte di Cassazione – sentenza n°35035 del 28 novembre 2022 – ha (ri)confermato che il recesso di cui alla Legge n°223/1991, art. 4, comma 9, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo, esercitato nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente, sono annullabili qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista all'articolo 3, Legge 68/1999.

Il caso in specie trae origine dal licenziamento collettivo avviato da una compagnia aerea, alla conclusione del quale era stata licenziata anche una lavoratrice disabile; in particolare, il Tribunale di Civitavecchia e, successivamente in sede di appello, la Corte di Appello di Roma avevano dichiarato illegittimo il licenziamento intimato e condannato la società convenuta a reintegrare la lavoratrice ed a corrisponderle una indennità pari dodici mensilità.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società evidenziando che alla procedura adottata di licenziamento collettivo era conseguita la sospensione degli obblighi occupazionali, consentendo l’esonero dall'obbligo di assumere lavoratori invalidi – al fine di conseguire la quota di riserva – e l’autorizzazione altresì a non mantenere la quota obbligatoria precedente.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso e ribadito che la ratio dell’art. 10, comma 4 della Legge n°68/1999, nel quadro delle azioni di "promozione dell'inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro" è quella di evitare che, in occasione di licenziamenti individuali o collettivi motivati da ragioni economiche, l'imprenditore possa superare i limiti imposti alla presenza percentuale nella sua azienda di personale appartenente alle categorie protette, originariamente assunti in conformità ad un obbligo di legge. Il divieto, hanno continuato gli Ermellini, è in parte compensato dalla sospensione degli obblighi di assunzione per le aziende che usufruiscano dei benefici di integrazione salariale ovvero per la durata delle procedure di mobilità; sicche' in caso di crisi l'impresa è esonerata dall'assumere nuovi invalidi, ma non può coinvolgere quelli già assunti in recessi connessi a ragioni di riduzione del personale, ove ciò venga ad incidere sulle quote di riserva.

Pertanto, la sospensione degli obblighi di assunzione consente all'azienda di non assumere lavoratori per mantenere o per reintegrare la quota obbligatoria prevista dalla legge e, quindi, di trovarsi legittimamente al di sotto della quota di riserva, senza però per questo legittimarla ad effettuare licenziamenti nell'ambito dei lavoratori disabili.

SONO SEQUESTRABILI I CREDITI D'IMPOSTA ACQUISITI DAL CESSIONARIO PER IL SUPERBONUS

CORTE DI CASSAZIONE – III SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 45588 DEL 1° DICEMBRE 2022

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 45588 del 1° dicembre 2022, ha annullato, con rinvio, la decisione con cui il Tribunale del Riesame aveva disposto il dissequestro di crediti d'imposta che, nell'ambito di un'indagine per truffa sul superbonus 110 %, erano stati precedentemente assoggettati a sequestro preventivo finalizzato alla confisca.

Il caso di specie, è relativo al fatto-reato addebitato agli indagati, di avere creato fittizi crediti d'imposta, avvalendosi delle agevolazioni fiscali e di aver poi monetizzato detti crediti attraverso la loro cessione ad una terza società. La cessione del credito inesistente, in tale contesto, non era idonea ad escludere, di per sé, l'assoggettabilità del medesimo credito a sequestro, ergo il credito d'imposta acquisito dal cessionario è dunque sequestrabile atteso che il cedente-beneficiario non aveva diritto al Superbonus.

I Giudici di piazza Cavour, con la sentenza de qua, hanno evidenziato che nel caso in cui il credito d'imposta è ottenuto fraudolentemente, è sicuramente applicabile il c.2 dell'art. 10-quater del Dlgs. n. 74/2000 in tema di indebita compensazione, e pertanto, il cessionario che provveda a compensarlo, nonostante la consapevolezza dell'inesistenza del credito, si espone alla conseguente responsabilità penale.

In nuce, per la S.C., alla luce di tali considerazioni, è altresì indubbio che la posizione del cessionario che lucra un vantaggio consistente dall'operazione di cessione sia quella di un soggetto difficilmente qualificabile, agli effetti del sequestro e della successiva confisca, come persona estranea al reato, e quindi, solo la prova della buona fede e dell'ordinaria diligenza impediscono il sequestro preventivo in capo al medesimo.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 6 Febbraio 2023