27 Marzo 2023

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LA CASSAZIONE ILLUSTRA L’INAPPLICABILITÀ DELLE PENE ACCESSORIE A SEGUITO DI ESTINZIONE DEL REATO PER PRESCRIZIONE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 3238 DEL 25 GENNAIO 2023

La Corte di Cassazione, con la sentenza n.3238 del 25 gennaio 2023, ha statuito che gli effetti penali, con la conseguenza che non possono essere mantenute in nessun caso di proscioglimento dell'imputato, anche se pronunciato a seguito di estinzione del reato per prescrizione, e sono pertanto da considerare "inapplicabili", anche le pene accessorie e le confische, per equivalente e diretta, disposte a loro carico, come le pene principali, in ipotesi di dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta prescrizione.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno parzialmente accolto le doglianze di due imputati, nei cui confronti era stato dichiarato di non doversi procedere per intervenuta prescrizione dei reati tributari loro contestati ma, ciò nonostante, non erano state revocate le pene accessorie e le confische, per equivalente e diretta, disposte a loro carico.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno puntualizzato come tali confische siano astrattamente applicabili, anche nel caso in parola, e rammentato come la materia della confisca disposta in caso di reato prescritto sia oggi regolata dall'art. 578-bis c.p.p., che ne consente, di fatto, il mantenimento anche nelle ipotesi in cui venga dichiarata l'estinzione del reato per prescrizione o amnistia. Sulla portata di tale norma, tuttavia, le Sezioni Unite della Cassazione si sono da ultimo espresse, con pronuncia del 29 settembre 2022, statuendo che trattasi di disposizione di natura anche sostanziale, soggetta al divieto di retroattività in malam partem ex art. 25 della Costituzione.

Orbene, non è quindi applicabile all'ipotesi di confisca per equivalente (id: beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente al prezzo o al profitto del reato) trattandosi di confisca avente carattere afflittivo e, dunque, sostanzialmente sanzionatorio, ai fatti commessi o per i reati rientranti nella previsione dell'art. 322-ter c.p., anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 1, comma 4, lettera f), della Legge n. 3/2019.

Ex adverso, per la confisca diretta (id: beni che costituiscono il profitto o il prezzo dei citati reati tributari nei confronti dei soggetti che vengono condannati), priva di carattere sanzionatorio e, pertanto, non soggetta al divieto di retroattività, anche se, ai fini della relativa applicazione, il Giudice è sempre tenuto ad accertare la sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi del reato.

In nuce, per la S.C., nel caso specifico, tale accertamento non era stato compiuto nella vicenda in esame, posto che la confisca era stata confermata in appello mediante una sentenza "predibattimentale", con violazione del diritto dell'imputato al contraddittorio.

TRA I REDDITI DA RICOMPRENDERE AI FINI DELL’ACCESSO ALLA PENSIONE SOCIALE OCCORRE CONSIDERARE ANCHE I REDDITI DA LOCAZIONE IN REGIME DI CEDOLARE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N.5470 DEL 22 FEBBRAIO 2023

La Corte di Cassazione – sentenza n°5470 del 22 febbraio 2023 – ha confermato che i redditi da locazione cui si applica il regime della cedolare secca sono rilevanti ai fini del calcolo dei limiti di reddito per fruire della pensione sociale.

Nel caso in specie, la Corte d'Appello di Roma, in riforma di sentenza del tribunale della stessa sede, aveva rigettato la domanda di un assistito di conversione dell'assegno di invalidità in pensione sociale al compimento del sessantacinquesimo anno, per superamento dei limiti di reddito a causa dell'incidenza dei redditi da locazione (cui si applicava il regime della cedolare secca).

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il contribuente per avere la corte territoriale trascurato che i redditi da cedolare non sono imponibili ai fini IRPEF, cui la norma previdenziale rinvia.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso premettendo che il reddito da locazione è comunque reddito ad ogni effetto e ribadendo che la cedolare secca è soltanto una modalità di calcolo e di adempimento dell'obbligo tributario esistente, ovvero un meccanismo di tassazione alternativo.

La funzione cui assolve il sistema assistenziale, hanno continuato gli Ermellini, di sostegno a fronte di una situazione di bisogno, impone, ove non sia previsto diversamente, di fare riferimento al reddito di cui l'assistibile abbia effettiva disponibilità. Invero, la legge 8 agosto 1995, n°335, art. 3, comma 6, con riguardo ai limiti di reddito previsti per l'assegno sociale, ha previsto che "Alla formazione del reddito concorrono i redditi, al netto dell'imposizione fiscale e contributiva, di qualsiasi natura, ivi compresi quelli esenti da imposte e quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva, nonché gli assegni alimentari corrisposti a norma del codice civile".

Da ultimo, hanno concluso gli Ermellini, ai sensi dell’art.3, D.lgs. 23/2011, per il riconoscimento della spettanza o per la determinazione di deduzioni, detrazioni o benefici di qualsiasi titolo, anche di natura non tributaria, ai fini del possesso di requisiti reddituali, si tiene comunque conto anche del reddito assoggettato alla cedolare secca.

Il predetto reddito rileva anche ai fini dell'indicatore della situazione economica equivalente (I.S.E.E.) di cui al D.lgs n°109/1998.

Può dunque affermarsi che i redditi da locazione cui si applica il regime della cedolare secca sono rilevanti ai fini del calcolo dei limiti di reddito per fruire della pensione sociale di conversione dell'assegno di invalidità al compimento del sessantacinquesimo anno di età, in quanto la cedolare secca è soltanto una modalità alternativa di calcolo ed adempimento dell'obbligo tributario esistente in relazione al reddito prodotto.

IN CASO DI INDEBITA RETRIBUZIONE IL DATORE RECUPERA LE SOMME NETTE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 1963 DEL 23 GENNAIO 2023

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 1963 del 23 gennaio 2023, ha ribadito che, in caso di indebito retributivo, il datore ha diritto a ripetere quanto il lavoratore ha effettivamente percepito in eccesso ma non può pretendere la restituzione di importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente.

La decisione in argomento ha riguardato il rigetto della domanda di pensione di un lavoratore per carenza del presupposto contributivo, data la revoca della certificazione di attestazione dell’esposizione all’amianto utile all’ottenimento del beneficio pensionistico. Il lavoratore era stato infatti condannato dalla Corte d’Appello a restituire i ratei della relativa pensione, al netto di imposta, mentre l’Istituto previdenziale ne richiedeva la restituzione al lordo degli oneri fiscali.

La Cassazione, nel confermare il giudizio di merito, ha colto l’occasione per ribadire un principio già noto per la disciplina del rapporto di lavoro subordinato e applicabile, per analogia, ai rapporti tra il lavoratore e l’ente previdenziale.

Il datore versa al dipendente la retribuzione al netto delle ritenute fiscali e, quando corrisponde per errore una retribuzione maggiore del dovuto, opera delle trattenute erronee per eccesso. Secondo i Giudici di legittimità, ne consegue che, in tale evenienza, il datore, salvi i rapporti col fisco, può ripetere l'indebito nei confronti del lavoratore nei limiti di quanto effettivamente percepito da quest'ultimo e deve essere esclusa la possibilità di ripetere importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente, atteso che il rimborso fiscale nei confronti dell’amministrazione finanziaria spetta in via principale a colui che ha eseguito il versamento, così come dispone l’art. 38 del D.P.R. 602 del 1973.

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO PER IL DIPENDENTE CHE ADDEBITI ALLA SOCIETA’ DATRICE SPESE DI CARBURANTE NON RIFERIBILI ALL’ATTIVITA’ LAVORATIVA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 7467/2023 DEL 15 MARZO 2023

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 7467, depositata il 15 marzo 2023, ha sancito la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato alla dipendente che aveva addebitato alla società datrice spese di carburante per l’uso dell’auto aziendale non riferibili allo svolgimento dell’attività lavorativa.

Nel caso in trattazione, la Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva la richiesta di una lavoratrice dipendente volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatole per avere addebitato alla società spese di carburante per l'uso dell'auto aziendale non riferibili allo svolgimento dell'attività lavorativa.

Il Tribunale, in fase sommaria, aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento per tardività della contestazione disciplinare sul rilievo che la società datoriale, pur ricevendo mensilmente i giustificativi delle spese di carburante, avesse omesso di svolgere tempestivi controlli, così pregiudicando il diritto di difesa della dipendente. La Corte territoriale, invece, aveva ritenuto che l'immediatezza della contestazione dovesse valutarsi avendo riguardo non al verificarsi dei fatti contestati bensì al momento in cui il datore di lavoro ne aveva avuto conoscenza e che la lavoratrice, nel fornire giustificazioni scritte, non aveva lamentato alcun pregiudizio al diritto di difesa connesso al tempo trascorso dai fatti addebitati. Secondo i giudici di appello, l'utilizzo fraudolento del denaro aziendale per scopi privati costituiva grave inadempimento atto a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario, così da integrare una giusta causa di recesso.

Avverso questa sentenza la dipendente proponeva ricorso per cassazione lamentando violazione e falsa applicazione della L. 300/70, art. 7, comma 2 e, in particolare, del principio di immediatezza e tempestività della contestazione disciplinare. La Corte, seguendo un principio già consolidato, ricordava che il datore di lavoro ha il potere, ma non l'obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti e di contestare loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché “la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell'infrazione ove avesse controllato assiduamente l'operato del dipendente, ma con riguardo all'epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza” (Cass. n. 10069/2016; Cass. n. 28974/2017; Cass. n. 21546/2007). Secondo gli Ermellini, inoltre, la Corte d'Appello si era attenuta ai canoni giurisprudenziali attraverso i quali sono state definite le nozioni legali di giusta causa e di proporzionalità della misura espulsiva ed aveva motivatamente valutato la gravità della condotta e la specifica idoneità della stessa a far venir meno l'affidamento nel corretto futuro adempimento degli obblighi contrattuali.

REGIME PROBATORIO ATTENUATO PER IL LAVORATORE CHE DEVE DIMOSTARRE LA CONDOTTA DISCIMINATORIA DEL DATORE DI LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 3361 DEL 3 FEBBRAIO 2023

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 3361 del 3 febbraio 2023, afferma che, l’onere probatorio del comportamento discriminatorio tenuto dal datore di lavoro si sostanzia nella dimostrazione che il trattamento svantaggioso sia riconducibile alla presenza di un fattore di rischio tipizzato dalla legge.

Nel caso in oggetto, una lavoratrice adiva il Tribunale chiedendo l’accertamento e la repressione della condotta del datore di lavoro, ritenuto discriminatorio, con riferimento alla disdetta del contratto di apprendistato professionalizzante intimato alla lavoratrice, a fronte di circa duecento apprendisti assunti a tempo indeterminato, e fondato presumibilmente sulle due gravidanze portate a termine dalla ricorrente durante il rapporto di apprendistato.

Se in primo grado il ricorso veniva accolto, con condanna del datore di lavoro alla reintegrazione della dipendente, la Corte d’Appello respingeva l’originaria domanda, ritenendo gli elementi addotti dalla lavoratrice privi della precisione e della concordanza necessarie a provare la discriminatorietà della condotta tenuta dal datore di lavoro.

La lavoratrice propone ricorso presso la Suprema Corte, la quale afferma che, secondo quanto disposto dall’art. 40 del D. Lgs n. 198/2006, quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da  dati  di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla  progressione  in  carriera ed ai licenziamenti, idonei  a  fondare,  in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza  di  atti o comportamenti  discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della  prova sull'insussistenza della discriminazione.

Il dettato legislativo prevede, quindi, un'attenuazione del regime probatorio ordinario in favore della parte ricorrente, che deve provare l’ingiustificata differenza di trattamento o la posizione di particolare svantaggio, dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge, restando onere della controparte dimostrare le circostanze inequivoche che per precisione, gravità e concordanza di significato possano escludere la natura discriminatoria del comportamento posto in essere. Sul lavoratore resta, pertanto, solo l’onere di dimostrare di essere portatore di un fattore di discriminazione e di aver subito un trattamento svantaggioso riconducibile a tale fattore, attraverso una connessione, che va ricostruita in via presuntiva, anche sulla base di elementi di carattere statistico.

Ad maiora

Il Presidente
Fabio Triunfo

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 27 Marzo 2023