3 Aprile 2017
Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….
Oggi parliamo di………….
LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE DEL RESPONSABILE AZIENDALE CHE INDICA COME ELUDERE LE PROCEDURE PER LA TUTELA E SICUREZZA SUI LUOGHI DI LAVORO AI SUOI SOTTOPOSTI.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7338 DEL 22 MARZO 2017.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 7338 del 22 marzo 2017, ha statuito che è da ritenersi legittimo il licenziamento, intimato all'esito del procedimento disciplinare, del dipendente, avente il ruolo di responsabile aziendale che, oltre a non vigilare debitamente sul rispetto delle misure di sicurezza sul luogo di lavoro, indica agli altri prestatori come fare per eluderle.
Nel caso de quo, un responsabile aziendale illustrava, ad un gruppo di tre dipendenti, suoi sottoposti gerarchicamente, come eseguire la prestazione lavorativa eludendo i sistemi di sicurezza idonei a garantire la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro. Il datore, venuto a conoscenza dell'accaduto, notificava apposita contestazione disciplinare indicando data e luogo degli eventi contestati ma non il nome dei tre dipendenti “istruiti” alla violazione della normativa in materia di salute e sicurezza.
Il responsabile, licenziato al termine del predetto procedimento disciplinare, adiva la Magistratura contestando la genericità della contestazione disciplinare che non conteneva il nominativo dei tre dipendenti artefici della materiale violazione.
Soccombente in appello, dopo il pieno soddisfo di prime cure, il dipendente licenziato ricorreva in Cassazione.
Orbene, gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum della Corte territoriale, hanno evidenziato che la contestazione disciplinare è pienamente legittima e soddisfa perfettamente i criteri sanciti dall'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, anche se non contiene tutti i dettagli del “fatto” contestato ma riporta una descrizione dell'accaduto tale da consentirne la corretta e precisa ricostruzione, senza lasciare margini di incertezza, affinché il subordinato possa legittimamente e pienamente esercitare il proprio diritto alla difesa.
Pertanto, atteso che nel caso in disamina la contestazione conteneva data, ora e reparto produttivo, oggetto della “querelle”, e che i dipendenti, sottoposti gerarchicamente al responsabile licenziato, erano solo sei e, conseguentemente, la missiva, contenente l'addebito, riportava tutti gli elementi necessari per identificare, senza ombra di dubbio, i soggetti interessati e per la corretta ricostruzione della realtà fattuale, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno rigettato il ricorso, confermando la piena legittimità del licenziamento disciplinare, ritenendo pienamente rispettato il principio della analiticità e specificità della contestazione disciplinare.
AL FINE DI INDIVIDUARE IL REGIME SANZIONATORIO APPLICABILE OCCORRE FAR RIFERIMENTO AL MOMENTO DI PERFEZIONAMENTO DELLA FATTISPECIE DEL LICENZIAMENTO.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 4120 DEL 16 FEBBRAIO 2017.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 4120 del 16 febbraio 2017, ha stabilito, in tema di licenziamento disciplinare, che l’eventuale Regolamento aziendale, entrato in vigore nel lasso temporale tra la contestazione e la comminazione della sanzione espulsiva, è idoneo a far cadere l’addebito se per i fatti contestati sia stata stabilita una sanzione di tipo conservativo.
Nel caso de quo, la Corte d’Appello di Trieste, in parziale riforma della statuizione del Tribunale di Udine, dichiarava la illegittimità del licenziamento disciplinare comminato ad un lavoratore in relazione a sei contestazioni di mancanze per le quali il contratto collettivo applicabile prevedeva la sanzione espulsiva. Nel contempo, nel periodo intercorrente tra la contestazione dell’ultima mancanza e l’adozione del provvedimento espulsivo, l’azienda datrice aveva adottato un Regolamento aziendale che prevedeva, per gli stessi fatti addebitati, una sanzione di tipo conservativo e pertanto, i Giudici di prime cure avevano ritenuto illegittimo il licenziamento disciplinare.
Non dello stesso avviso il datore di lavoro che ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza eccependo la irretroattività del Regolamento aziendale, postumo rispetto alla data delle mancanze.
Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso confermando la fondatezza dei motivi per i quali il licenziamento è da considerarsi illegittimo. Sul punto, hanno argomentato gli Ermellini, appare incontroverso che il nuovo Regolamento aziendale era vigente all’epoca dell’irrogazione della sanzione disciplinare; pertanto, al fine di individuare il regime sanzionatorio applicabile occorre far riferimento esclusivamente al momento di perfezionamento della fattispecie di licenziamento che coincideva, dal punto di vista temporale, con la piena efficacia del nuovo Regolamento aziendale.
Invero, hanno concluso gli Ermellini, il licenziamento disciplinare, anche inteso come massima sanzione, non può essere equiparato ad una “pena”, essendo pur sempre di natura civile; talché non opera il principio di irretroattività, sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost. che prescrive che nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Ne discende che, alla fattispecie deve essere riconosciuta l’applicabilità della sanzione disciplinare vigente al tempo in cui è stato intimato il licenziamento, anche se la condotta sanzionabile è stata posta in essere in epoca anteriore.
IL CALCOLO DELL'INDENNITA' DI MATERNITA' PER LE LAVORATRICI ISCRITTE ALLA GESTIONE SEPARATA SI OTTIENE COMPUTANDO ANCHE I PERIODI DI COLLABORAZIONE SECONDO IL PRINCIPIO DI COMPETENZA.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7120 DEL 20 MARZO 2017.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 7120 del 20 marzo 2017, ha stabilito che il computo dell'indennità di maternità, per le lavoratrici iscritte alla sola Gestione separata Inps ex L. n°335/95, va operato non solo sui compensi percepiti (secondo il criterio di cassa) nel periodo di riferimento, ma anche su quelli dovuti nello stesso periodo (secondo il criterio di competenza) per l'attività di collaborazione coordinata e continuativa prestata.
Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Firenze rigettava l'appello proposto dall'Inps avverso la pronuncia del Tribunale della stessa città, che aveva accolto la domanda di una lavoratrice, iscritta alla Gestione separata, volta ad ottenere la rideterminazione dell'indennità di maternità corrispostale dall'Inps, comprendendo nella base di computo anche i compensi dovuti dal committente, ancorché non pagati nei 12 mesi precedenti l'evento.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'Inps evidenziando che, il D.M. 22 aprile 2002, comma 3 dell'art. 4 impone che ai fini del calcolo dell'indennità in questione occorre computare soltanto il reddito dei dodici mesi precedenti, come risultante dai versamenti contributivi già effettuati dal committente nello stesso periodo di tempo. Non si potrebbe pertanto, tener conto dei pagamenti dovuti, nè dei contributi versati in un periodo successivo ancorché riferiti ai compensi maturati nei dodici mesi precedenti l'inizio del periodo indennizzabile. Il che, ha sostenuto l'Istituto, sarebbe pure in armonia con il criterio di cassa che presiede alla regolazione del rapporto contributivo nella gestione speciale.
Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso non condividendo la tesi dell'Istituto.
Sul piano dell'interpretazione letterale, ha rimarcato la Suprema Corte, la locuzione presente nell'art. 3 del D.M. citato, relativa al "reddito dei 12 mesi precedenti risultante dai versamenti contributivi riferiti al lavoratore interessato, sulla base della dichiarazione del committente", consente di valorizzare la contribuzione comunque versata, in quanto appunto riferita al reddito maturato nei 12 mesi precedenti l'inizio del periodo protetto; e non impone nè di riferirsi soltanto ai contributi versati, nè di sterilizzare i contributi versati successivamente (in relazione ai medesimi compensi), attraverso un rigido criterio di cassa che non è imposto dalla normativa legale di rango superiore, e che anzi con la stessa confligge.
Il criterio di cassa, hanno concluso gli Ermellini, vale a regolare l'obbligazione contributiva, nel senso che, secondo quanto affermato dalle Sez. Unite, "nella gestione separata la contribuzione si commisura esclusivamente ai compensi percepiti". Ma, ciò non impone che il diritto alle singole prestazioni previdenziali debba seguirne necessariamente, in ogni suo aspetto determinante, lo stesso criterio.
IL CONTRIBUENTE DEVE ESSERE RISARCITO DEL DANNO NON PATRIMONIALE QUANDO L’AGENTE DELLA RISCOSSIONE NON AGISCE CON TEMPESTIVITÀ NEL CANCELLARE L’IPOTECA.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7437 DEL 23 MARZO 2017
La Corte di Cassazione, sentenza n° 7437 del 23 marzo 2017, ha statuito che il contribuente deve essere risarcito del danno non patrimoniale quando l’Agente della riscossione non agisce con tempestività nel cancellare l’ipoteca, dopo l’annullamento giudiziale delle cartelle esattoriali e la comunicazione di sgravio da parte dell’ente impositore.
Nel caso in specie, un contribuente aveva citato in giudizio Equitalia e l’Ente impositore per sentirli condannare, in solido, al risarcimento del danno patrimoniale e non, per l’emissione di ruoli e cartelle esattoriali poi annullati dal Giudice, che avevano poi portato come conseguenza un’iscrizione d’ipoteca e la segnalazione di insoluti. La domanda del contribuente veniva parzialmente accolta, nel senso che i Giudici di merito (Giudice di Pace e Tribunale) riconoscevano solo il danno non patrimoniale liquidato in via equitativa in 1.000 euro.
Si ricorda che, per legge, il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale è condizionato alla lesione di un interesse tutelato dalla Costituzione (o conseguente a un reato). Questo significa che, per ottenere tale forma di indennizzo (in aggiunta ai danni economici subiti) è necessario dimostrare una lesione particolarmente grave. Orbene, nel caso in esame, il contribuente ai fini della prova del danno non patrimoniale aveva prodotto in giudizio la documentazione medica attestante la prostrazione psicologica e il senso di pericolo e d’impotenza causati dalla pretesa impositiva ingiusta.
L’Agente della riscossione non accettava il giudicato di merito e ricorreva in Cassazione.
Gli Ermellini, con la sentenza de qua, hanno ritenuto la sentenza impugnata adeguatamente motivata e corretta dal punto di vista giuridico.
In particolare, i Giudici di Piazza Cavour, hanno respinto il motivo di ricorso con cui Equitalia aveva tenuto a precisare che il contribuente che ottiene una sentenza a sé favorevole, per evitare atti esecutivi dell’Agente della riscossione, deve attivarsi per chiedere all’ente impositore lo sgravio della cartella esattoriale.
I Supremi Giudici, con riguardo a questa puntualizzazione, hanno osservato che, nel caso di specie, la responsabilità che è stata identificata in capo all’esattore “non deriva dalla mancanza di sgravio, bensì dalla omessa cancellazione dell’ipoteca e dalla segnalazione di insoluti”.
IL LICENZIAMENTO PER AGGRAVAMENTO DI UN DISABILE E’AMMESSO SOLO IN CASO DI TOTALE PERDITA DELLA CAPACITA’ LAVORATIVA.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7524 DEL 23 MARZO 2017
La Corte di Cassazione, sentenza n° 7524 del 23 marzo 2017, ha statuito che il licenziamento per aggravamento di un disabile è ammesso solo in caso di totale perdita della capacità lavorativa.
Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Cagliari, in riforma del Tribunale di Cagliari, dichiarava ingiustificato il licenziamento comminato ad un lavoratore disabile, con conseguente diritto alla reintegrazione ed al pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento, oltre ai contributi previdenziali.
La Corte territoriale riteneva illegittimo il licenziamento perché l'aggravamento dello stato di salute, che rendeva impossibile ogni utilizzo del lavoratore in azienda, non giustificava il recesso. Difatti, la sopravvenuta inidoneità fisica, tale da integrare un'impossibilità oggettiva a rendere la prestazione, riguarda la generalità dei lavoratori e non i lavoratori avviati per il tramite del collocamento obbligatorio.
Nel caso de quo, gli Ermellini hanno inteso rammentare che il licenziamento di un disabile, avviato tramite il collocamento obbligatorio, può ritenersi legittimo solo nel caso di totale perdita della capacità lavorativa o in situazioni di pericolo per la salute o incolumità degli altri lavoratori o degli impianti. L'accertamento è demandato all'apposita commissione medica prevista dalla Legge 104/1992, alla quale spetta anche la verifica sull'impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'azienda.
Inoltre è emerso che, in conseguenza al giudizio della Commissione, l'azienda non ha contestato il giudizio, che non risultava una inidoneità del lavoratore e che non c'erano situazioni di pericolo o rischio.
Infine, la valutazione sull'idoneità emessa dalle Commissioni Mediche, a cui il datore di lavoro deve attenersi, ha carattere di specialità e quindi non sussiste alcuna antinomia fra l'art. 10, comma 3, Legge 68/1999 e l'art. 2087 del c.c.
Ad maiora
IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO
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Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!
Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.
Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro
Modificato: 3 Aprile 2017