10 Aprile 2017

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

 

Oggi parliamo di………….

 

IL “SILENZIO INGANNEVOLE” DEL DATORE DI LAVORO PUO' COSTITUIRE RAGGIRO SE POSTO IN ESSERE INSIEME AD ALTRI COMPORTAMENTI PREORDINATI A REALIZZARE UNA CONCILIAZIONE SINDACALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 8260 DEL 30 MARZO 2017.
 

La Corte di Cassazione, sentenza n° 8260 del 30 marzo 2017, ha statuito che i comportamenti del datore di lavoro, compreso il silenzio, possono costituire la fattispecie del raggiro se posti in essere, con intento doloso, nei confronti del dipendente. Sic rebus stantibus, il verbale di conciliazione sottoscritto, fra le parti, in sede sindacale, può essere invalidato.

Nel caso de quo, un quadro aziendale veniva inserito in una procedura di mobilità a seguito della (paventata) soppressione del suo posto di lavoro. Lo stesso sottoscriveva verbale di conciliazione in sede sindacale nel quale, fra l'altro, accettava il licenziamento e rinunciava a qualunque tipo di impugnativa. Successivamente il dipendente veniva a sapere che la sua posizione lavorativa non era stata soppressa e che il datore di lavoro aveva assunto un altro prestatore al suo posto.

Il subordinato adiva la Magistratura richiedendo (anche) l'annullamento del verbale sindacale ritenendo di essere stato oggetto di un raggiro, indotto con dolo, dal datore di lavoro.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, il dipendente licenziato ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nel ribaltare integralmente il deliberato di prime cure, hanno evidenziato che il comportamento del datore di lavoro che, nell'ambito di un “disegno” unitario mirato a realizzare un inganno nei confronti del dipendente, utilizzando anche il “silenzio” in riferimento a determinate scelte aziendali, è qualificabile come raggiro e può comportare l'invalidità (anche) di eventuali rinunce sottoscritte dal prestatore.

Pertanto, atteso che nel caso in disamina, il datore di lavoro aveva paventato al quadro aziendale una realtà totalmente diversa da quella effettiva, tacendo, fra l'altro, sulla già preventivata nuova assunzione da effettuare in sua sostituzione, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno accettato, in parte, il ricorso rinviando gli atti alla Corte territoriale al fine di accertare l'eventuale (e probabile) invalidità delle rinunce sottoscritte in sede sindacale.

                                                                                                                             

È LEGITTIMA LA DETRAZIONE DELL’IVA ANCHE SE L’OPERAZIONE È ANTI-ECONOMICA PER L’AZIENDA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N° 2875 DEL 3 FEBBRAIO 2017
 

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 2875 del 3 febbraio 2017, ha statuito che l’Amministrazione Finanziaria non può negare il diritto alla detrazione dell’IVA effettivamente pagata, ancorché frutto di un’operazione giudicata dalla stessa come antieconomica, in quanto l’IVA risponde in primis ai canoni del diritto unionale, che riconduce la detrazione alla sola esigibilità e inerenza dell’acquisto del bene o servizio, senza contemplare alcun riferimento diretto al valore economico dell’operazione.

Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva recuperato a tassazione l’IVA, in relazione a un’operazione di compravendita immobiliare giudicata antieconomica. Dal canto suo, la società ricorrente ribadiva, nei diversi gradi di giudizio, che la contestazione dell’antieconomicità dell’operazione non consentisse la negazione del diritto alla detrazione dell’IVA. Le doglianze della ricorrente sono state accolte in toto dai Giudici di Piazza Cavour, che con la sentenza de qua, hanno cassato la precedente sentenza dei Giudici Territoriali, condannando l’Amministrazione Finanziaria al pagamento delle spese di giudizio.

Gli Ermellini, richiamando i precetti del diritto comunitario, hanno ribadito che la sola antieconomicità dell’operazione non può essere considerato un motivo sufficiente a negare la detrazione dell’imposta, in quanto, tale detrazione può essere contestata esclusivamente nel caso in cui l’antieconomicità si riveli quale indizio di falsità della fattura ovvero, eventualmente, di non inerenza.

In nuce, per i Giudici del Palazzaccio, è dunque da considerarsi del tutto irrilevante il fatto che l’operazione economica sia effettuata a un prezzo superiore o inferiore al valore normale di mercato e, pertanto, la società ricorrente era pienamente legittimata alla detrazione dell’imposta per il costo sostenuto, essendo pacifica tra le parti la regolarità, ai fini fiscali, dei passaggi tra prestatore e committente.

 

NULLO L’ACCERTAMENTO TRIBUTARIO EMESSO ANTE TEMPUS SENZA INDICAZIONE DEI MOTIVI D’URGENZA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 5899 DELL’8 MARZO 2017
 

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 5899 dell’8 marzo 2017, ha (ri)affermato che salvo casi di particolare e motivata urgenza, l’ente impositore non può emanare l’avviso di accertamento prima del decorso di sessanta giorni dalla consegna di copia del verbale della prodromica verifica fiscale, e il contribuente potrà, ove lo ritenga, impugnarlo anche per il solo vizio della violazione del termine, senza entrare nel merito della mancanza di motivazione dell’atto circa l’urgenza.

Nel caso in specie, ad un contribuente venivano notificati alcuni avvisi di accertamento che, prontamente venivano impugnati dinanzi alla giustizia tributaria poiché emessi prima che fosse decorso il termine dilatorio di 60 giorni dal rilascio del PVC, previsto dall’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente. La C.T.P. respingeva il ricorso, che veniva invece accolto dalla C.T.R. che annullava gli avvisi di accertamento ritenendo che gli stessi fossero nulli per carenza di motivazione circa l’urgenza legittimante l’anticipazione dell’emissione dell’atto impositivo.

L’Agenzia delle Entrate ricorreva alla Cassazione motivando il ricorso sulla circostanza che la C.T.R. aveva accolto un motivo di impugnazione che non era stato eccepito con il ricorso di primo grado. Infatti, in tale atto il contribuente aveva eccepito solo il mancato rispetto del termine dei 60 giorni, mentre la mancanza di motivazione circa l’urgenza era stata sollevata solo con memoria illustrativa in primo grado e successivamente con l’atto di appello.

All’uopo, si ricorda che l’art. 12, comma 7, della legge n. 212/2000 prescrive che “nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L'avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”.

Orbene, con la sentenza de qua, i Giudici del Palazzaccio hanno respinto in toto le doglianze dell’Amministrazione finanziaria, riaffermando e ricordando il principio di diritto statuito dalla Corte di Cassazione a sezioni unite con la sentenza n. 18184/2013, vale a dire che “che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento – termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni – determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, la illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’Ufficio”.

Infine, gli Ermellini hanno precisato che di fronte ad un avviso di accertamento emesso prima della scadenza del termine e privo della enunciazione dei motivi di urgenza che lo legittimano, il contribuente potrà anche limitarsi ad impugnare l’atto impositivo per il solo vizio della violazione del termine, indipendentemente dal difetto di motivazione circa l’urgenza. Sarà, poi, onere dell’Amministrazione finanziaria provare la sussistenza del requisito esonerativo del rispetto del termine, a nulla rilevando la circostanza che solo le memorie illustrative contenessero la doglianza circa la mancanza di motivazione relativa all’urgenza.

Da qui, il rigetto del ricorso del fisco, con annullamento definitivo degli atti impositivi e con condanna del ricorrente al pagamento in favore del resistente, delle spese processuali.

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO AVVENUTO IN BASE A QUANTO RIPORTATO DAL GIP NELL’ORDINANZA DI RINVIO A GIUDIZIO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 5284 DEL 1° MARZO 2017
 

La Corte di Cassazione, sentenza n° 5284 del 1° marzo 2017, ha statuito che è legittimo il licenziamento del dipendente pubblico se vengono utilizzate per relationem le motivazioni del procedimento penale aperto sui medesimi addebiti, (ri)confermando la giurisprudenza lavoristica in materia (Cass. sentenza del 28 settembre 2016, n. 19183).

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, annullando la decisione della Corte d'Appello di Roma che aveva avallato la reintegra di una dipendente del Ministero delle Politiche Agricole, licenziata con il semplice rimando al capo di imputazione formulato dal GIP per motivare il provvedimento cautelare a carico della donna, hanno accolto le censure datoriali, atteso che i Giudici Territoriali avevano deciso la controversia, applicando erroneamente i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di riparto dell’onere probatorio in materia di licenziamento disciplinare.

Infatti, la Pubblica Amministrazione è libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di “ritenere che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti elementi di contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente e il Giudice del Lavoro può fondare il suo convincimento sugli atti assunti nel corso delle indagini preliminari, anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento, ancorché il dipendente ha sempre la possibilità di contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale.

In nuce, per i Giudici del Palazzaccio, la conclusione del procedimento disciplinare non impedisce alla Pubblica Amministrazione di avvalersi, per dimostrare la sussistenza del fatto e la commissione da parte dell’incolpato, del giudicato penale di condanna che sopravvenga nel corso del giudizio di impugnazione della sanzione. Il legislatore ha predisposto un meccanismo di necessario raccordo fra le azioni, giacché la sentenza impugnata non può essere censurata nella parte in cui ha valutato, non solo gli atti delle indagini preliminari, evidentemente già noti al momento del licenziamento, ma anche l’esito del processo penale, per rilevare la responsabilità disciplinare della dipendente.

 

LE CONSEGUENZE DEL LICENZIAMENTO IN FORMA ORALE NECESSITANO LA VERIFICA DEL LIMITE DIMENSIONALE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 8604 DEL 3 APRILE 2017
 

La Corte di Cassazione, sentenza n° 8604 del 3 aprile 2017, chiarisce che fermo restando il limite dimensionale ai fini della tutela da riservare al licenziamento illegittimo, la Corte d'Appello non limita il proprio giudizio alle sole questioni oggetto del ricorso.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Napoli, in parziale riforma del Tribunale di Napoli, dichiarava ingiustificato il licenziamento in forma orale ed estendeva la c.d. Tutela reale al lavoratore con condanna della società datrice al pagamento di tutte le retribuzioni, tenendo conto dell'aliunde perceptum per una prestazione di 15 giorni avvenuta nel 2009. 

Nel caso de quo, gli Ermellini, in linea con i Giudici di merito, hanno chiarito che il giudizio di appello non può essere limitato alle sole questioni oggetto di specifici motivi di impugnazione, bensì si estende a vari punti della sentenza di primo grado connessi o implicitamente connessi a quelli censurati. Di conseguenza, il Giudice dell'appello può liberamente valutare questioni non direttamente a lui proposte o sviluppate che ritiene direttamente connesse con la propria decisione.  Quindi, l'operato della Corte d'Appello è stato corretto in quanto ai fini della decisione, si poneva in via preliminare la necessità di verificare il limite dimensionale azienda. Infine, non è stata ritenuta fondata l'ipotesi di risoluzione per mutuo consenso, risultando la prestazione lavorativa volta per soli 15 giorni e molto tempo dopo il licenziamento.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 10 Aprile 2017