2 Maggio 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

NULLO IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO SE LE MOTIVAZIONI UTLIZZATE SONO LE STESSE DEL LICENZIAMENTO COLLETTIVO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 7400 DEL 7 MARZO 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 7400 del 7 marzo 2022, afferma la nullità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo, se alla sua base sono poste le stesse motivazioni già utilizzate per l’avvio della procedura di licenziamento collettivo.

Nel caso in esame, un lavoratore adiva il Tribunale per impugnare il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, lamentando che lo stesso fosse fondato sulle stesse ragioni poste alla base del licenziamento collettivo e senza, tuttavia, che ne fossero stati rispettati gli adempimenti previsti dalla Legge n. 223/1991. Già il Tribunale in primo grado aveva dichiarato nullo il licenziamento, successivamente la Corte d’Appello, confermando la sentenza dei Giudici di prime cure, aveva affermato che l’esclusione del lavoratore dalla procedura di licenziamento collettivo rappresentava un limite all’esercizio del potere di recesso datoriale, il quale non poteva procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo in assenza di sopravvenute ragioni giustificatrici. Il datore di lavoro ricorreva quindi in Cassazione.

La Suprema Corte, riprendendo un precedente orientamento giurisprudenziale, afferma che non è consentito al datore di lavoro di ritornare sulle scelte compiute in merito al numero, alla collocazione aziendale ed ai profili professionali dei lavoratori da inserire all’interno di una procedura di licenziamento collettivo, ponendo in essere successivi atti di recesso individuali. Il caso contrario rappresenta, infatti, uno schema fraudolento ai sensi dell'art. 1344 c.c. a meno che il precedente licenziamento collettivo non sia risultato poi nullo o inefficace. Nel caso in oggetto, invece, i Giudici di merito avevano accertato la completa sovrapponibilità tra le ragioni della procedura collettiva e del licenziamento individuale.

Per le ragioni esposte, quindi, la Suprema Corte, confermando la sentenza della Corte d’Appello, rigetta il ricorso del datore di lavoro.

 

LEGITTIMA LA RISOLUZIONE DEL RAPPORTO PER INIDONEITA’ A SVOLGERE LA MANSIONE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 7670/2022 DEL 9 MARZO 2022

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 7670 del 9 marzo 2022, ha sancito la legittimità della risoluzione del rapporto di lavoro instaurato con un medico che operava in convenzione per il Servizio di emergenza territoriale (118) che era stato giudicato inidoneo per le difficoltà manifestate sia nelle operazioni di trasporto dei pazienti in ambulanza, che nei turni notturni.

Nel caso in trattazione, un medico addetto ai Servizi di emergenza territoriale proponeva domanda volta ad ottenere il riconoscimento dell'illegittimità della risoluzione del rapporto convenzionato e il risarcimento del danno per perdita delle retribuzioni, a seguito di un accertamento compiuto dalla Commissione medica di valutazione in merito alla sua capacità psico-fisica a svolgere l'attività convenzionata. Nello specifico, la Commissione medica di valutazione aveva dichiarato la non idoneità alle mansioni di “medico del Servizio di emergenza territoriale”, seppure con idoneità a svolgere mansioni differenti, e, poco dopo, l’Azienda sanitaria locale aveva provveduto a notificare la cessazione dell’incarico.

I giudici d'Appello, in parziale riforma della decisione assunta dal Tribunale di primo grado, rigettavano totalmente lia domanda proposta dal medico, ritenendo legittima la decisione presa dall'Azienda sanitaria, atteso che dal giudizio della Commissione era risultato chiaro che il medico non fosse idoneo a svolgere né le mansioni di addetto ai Servizi di emergenza territoriale previste nella convenzione, né le attività sui mezzi mobili di soccorso. La Corte assumeva, inoltre, che la decisione fosse in linea con una nota dell'amministrazione da cui si evinceva che il medico aveva manifestato difficoltà all'espletamento, non solo dei servizi di trasporto dei pazienti in ambulanza, ma anche dei turni notturni, creando evidenti difficoltà di organizzazione del servizio.

Avverso tale sentenza il medico ricorreva in Cassazione lamentando la violazione e falsa applicazione dell'Accordo Collettivo Nazionale 2005, art. 19, comma 1, lett. f) e art. 92, comma 11, in relazione al potere di valutazione della Commissione Medica, sostenendo che detta Commissione non potesse valutare l'idoneità generale a svolgere la professione e che, pertanto, il giudizio di inidoneità espresso non poteva che ritenersi riferito esclusivamente alle mansioni svolte specificatamente nel momento di sottoposizione a visita, con dichiarazione, invece, della sua idoneità rispetto alle altre mansioni. Il ricorrente sosteneva, infatti, che l'Azienda Sanitaria non avrebbe potuto risolvere il rapporto non sussistendo il presupposto previsto dall'ACN e che la stessa, considerata l’idoneità alle altre mansioni, avrebbe dovuto applicare l’art. 92, comma 11 del citato Accordo (obbligo di repechage).

La Corte Suprema, condividendo la decisione emessa in secondo grado, sanciva che “la inidoneità del medico a svolgere l'attività convenzionata legittimava la cessazione del rapporto” decisa dall'Azienda sanitaria. Secondo gli Ermellini, infatti, risultava determinante il giudizio di inidoneità espresso dalla Commissione medica di valutazione, sia perché esso faceva riferimento a “tutti i servizi dell'emergenza territoriale” sia perché avallata anche da altri elementi probatori prodotti in giudizio dall'Azienda sanitaria, come la nota dell'amministrazione da cui si evinceva l'insofferenza del medico anche ai turni notturni.

Per la Corte, in conclusione, la risoluzione del rapporto era legittima in quanto il medico era titolare di convenzione solo per il Servizio di emergenza sanitaria e per tale incarico era stato dichiarato inidoneo dalla Commissione medica di valutazione.

 

GLI ACCERTAMENTI BANCARI SUI CONTI DEL DIPENDENTE SONO LEGITTIMI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.10187 DEL 30 MARZO 2022

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.10187 del 30/03/2022, ha statuito che la presunzione legale di disponibilità di maggiore reddito, desumibile dalle risultanze dei conti correnti bancari, opera anche nei confronti dei lavoratori dipendenti.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno accolto le doglianze con cui l'Agenzia delle Entrate aveva impugnato una decisione assunta dalla CTR in riferimento ad un avviso di accertamento, emesso a carico di un contribuente, per la contestazione di maggiori redditi ai fini IRPEF, emersi a seguito di verifica delle movimentazioni dei conti correnti intestati al medesimo soggetto. I Giudici Territoriali avevano accolto l'opposizione del dipendente, avendo ritenuto che, nei confronti dei lavoratori subordinati, non operasse la presunzione legale di cui all'art. 32 del DPR n. 600/1973.

Ex adverso, con l’ordinanza de qua, gli Ermellini hanno evidenziato che gli importi riscossi nell'ambito di rapporti bancari, in mancanza di annotazioni nelle scritture contabili, sono considerati compensi posti a base delle rettifiche operate ai sensi degli artt. 38-41 dello stesso decreto, ove il contribuente non dimostri che ne ha tenuto conto nella dichiarazione dei redditi ovvero che tali somme rimangano escluse dalla formazione dell'imponibile.

In nuce, per la S.C.,  in tema di onere della prova e di verifica giudiziale in materia di accertamenti bancari a carico di lavoratori dipendenti, il consolidato orientamento secondo cui la presunzione di cui all'art. 32, c.1, n. 2 del DPR n. 600/1973, dettata in materia di imposte sui redditi, omologa a quella stabilita dall'art. 51, c. 2, n. 2, DPR n. 633/1972 in materia di Iva, consente di riferire a redditi imponibili, conseguiti nell'attività economica svolta dal contribuente, tutti i movimenti bancari rilevati dal conto, qualificando gli "accrediti" come ricavi, pertanto, la presunzione legale ex art. 32 non è riferibile ai soli titolari di reddito d'impresa o di reddito di lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti.

 

I COSTI DI SPONSORIZZAZIONE SONO DEDUCIBILI DAL REDDITO DI IMPRESA SE INERENTI ALL'ATTIVITA' ANCHE IN VIA INDIRETTA, POTENZIALE O IN PROIEZIONE FUTURA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 11324 DEL 7 APRILE 2022.

La Corte di Cassazione – sentenza n°11324 del 7 aprile 2022 – ha ribadito, in tema di inerenza e prova di antieconomicità, che le spese di sponsorizzazione si considerano inerenti anche nel caso i cui realizzino una forma di pubblicità indiretta e consistono nella promozione del marchio.

Nel caso de quo,  l'Agenzia delle entrate aveva notificato ad una società contribuente un avviso di accertamento con il quale aveva disconosciuto la deducibilità di costi e, ai fini Iva, la non detraibilità, in relazione ad operazioni soggettivamente inesistenti e, inoltre, la non inerenza di costi di pubblicità sostenuti; la società aveva proposto ricorso dinanzi alla CTP di Roma che lo aveva accolto limitatamente alla ripresa relativa alle operazioni soggettivamente inesistenti, mentre aveva ritenuta legittima la ripresa relativamente ai costi di pubblicità. Avverso la pronuncia del giudice di primo grado l'AdE aveva proposto appello e la società appello incidentale. La CTR del Lazio aveva rigettato l'appello principale dell'AdE ed accolto quello incidentale della società, in particolare, ritenendo che la società aveva fornito la prova dell'inerenza dei costi di pubblicità dedotti.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'AdE, duolendosi circa la decisione della CTP, in ordine alla qualificazione di inerenza delle spese di sponsorizzazione della contribuente. In particolare, trattavasi di spese relative all'utilizzo da parte di un terzo, pilota di kart impegnato in gare sportive a livello internazionale, del semplice logo della società, senza alcun concreto riferimento ai prodotti fabbricati, sicché le stesse spese, ad avviso dell'AdE, non avevano alcuna correlazione o finalità di miglioramento dell'immagine dell'impresa; inoltre, la contribuente non aveva dato alcuna dimostrazione di quale fosse stato l'effettivo ritorno in termini di potenziamento del fatturato conseguente alla sponsorizzazione.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ribadendo che  il  contratto di sponsorizzazione, fattispecie non specificamente disciplinata dalla legge, ricomprende tutte quelle ipotesi nelle quali un soggetto (detto "sponsorizzato") si obbliga, dietro corrispettivo, a consentire ad altri l'uso della propria immagine pubblica e del proprio nome, per promuovere un marchio o un prodotto specificamente marchiato, o anche a tenere determinati comportamenti di testimonianza in favore del marchio o del prodotto oggetto della veicolazione commerciale. Da tali caratteristiche del rapporto, si evince, pertanto, che la sponsorizzazione,  si traduce per lo sponsor, in una forma di pubblicità indiretta, consistente nella promozione del marchio o del prodotto che si intende lanciare sul mercato. Sotto tale profilo, deve ritenersi sussistente l'inerenza, ai fini fiscali, dei costi della sponsorizzazione all'attività di impresa, qualora lo sponsor sia lo stesso titolare del marchio o il produttore del bene da promuovere.

In siffatta ipotesi, hanno continuato gli Ermellini, la pubblicizzazione del marchio si traduce in un potenziale vantaggio economico diretto per l'impresa sponsorizzante, potendone derivare, in conseguenza, un incremento della propria attività commerciale.

In tale prospettiva, hanno concluso gli Ermellini,  va quindi precisato il superamento della nozione  fiscale di inerenza in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta) o congruità della spesa,  affermando che il principio dell'inerenza esprime la riferibilità dei costi sostenuti per l'attività d'impresa, anche in via indiretta, potenziale o in proiezione futura, escludendo i costi che si collocano in una sfera ad essa estranea. Da ciò consegue che l'inerenza deve essere apprezzata attraverso un giudizio qualitativo, scevro dai riferimenti ai concetti di utilità o vantaggio, afferenti ad un giudizio quantitativo.

 

PER LE SOCIETA’ ESTERE VA INDIVIDUATA LA SEDE EFFETTIVA

CORTE DI CASSAZIONE –ORDINANZA 11710 DEL 11/04/2022

La Corte di Cassazione ritorna, con l’ordinanza in parola, su un tema che ha vastissime implicazioni nel panorama delle società costituite all’estero, ribadendo che nell’analisi delle presunzioni che attivano gli enti accertatori, chiamati a verificare la residenza effettiva di una società nominalmente estera, vanno attentamente valutati tutti gli indizi dei quali l’Amministrazione Finanziaria venga a conoscenza.

La prassi di costituire società all’estero, indipendentemente – non era oggetto del contendere nel caso in esame – da effettivi vantaggi fiscali derivanti dalla residenza in Paesi esteri, ha nel corso del tempo rivestito sempre maggior peso, e conseguentemente ha sempre maggiormente attirato l’attenzione dell’Amministrazione Finanziaria nell’evitare comportamenti elusivi da parte di operatori italiani: nel procedimento di cui trattiamo, una società residente in Cina operava nel campo della fabbricazione di apparecchiature elettriche sotto il controllo di una società italiana, i cui amministratori sedevano contemporaneamente nel Consiglio di Amministrazione della controllata cinese, così come appurato nel corso della redazione di un P.V.C.

I rilievi dell’Amministrazione Finanziaria, che considerava quindi, stante il rapporto di controllo della gestione ad opera di soggetti residenti nel territorio italiano, anche la società cinese come sottoposta alla potestà impositiva italiana, furono però disattesi dai giudici della Commissione Tributaria Provinciale adita, e tale decisione fu confermata dal riesame della Commissione Tributaria Regionale.

La Corte di Cassazione, ricevuto ricorso dall’Agenzia delle Entrate, ha ritenuto fondamentale quindi stabilire quali elementi presuntivi possano effettivamente trovare applicazione per la definizione di società estera.

Partendo dall’assunto dell’art. 73, terzo comma, t.u.i.r., il primo periodo del quale dispone che « Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale nel territorio dello Stato.», la Corte di Cassazione pone in rilievo le circostanze poste a base delle richiesta erariale, e ritiene che la CTP prima e la CTR poi non avessero adeguatamente valutato il fatto che, sebbene nominalmente la società oggetto di verifica avesse sede legale ed operativa nella Repubblica Popolare Cinese, la maggior parte dei componenti del Consiglio di Amministrazione fossero cittadini italiani, residenti in Italia e che le decisioni venissero prese, in relazione alle strategie aziendali, ai canoni di produzione ed alle politiche commerciali, direttamente dall’Italia, sebbene sia stato assunto dalla società ricorrente che uno degli amministratori fosse di nazionalità cinese.

Tali circostanze non erano state adeguatamente considerate dai giudici di primo e secondo grado, che nelle loro motivazioni avevano asserito di aver tralasciato tali indizi, ponendo l’accento esclusivamente sulla sede legale della società e sul luogo di svolgimento dell’attività.

Conclude quindi, accogliendo le richieste dell’Agenzia delle Entrate, per il rinvio della discussione alla CTR competente in diversa composizione, per un nuovo esame della questione.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
     Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 2 Maggio 2022