1 Maggio 2023

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LA MANCANZA DI AUTONOMIA DI GESTIONE ED ORGANIZZAZIONE RIVELA UN APPALTO NON GENUINO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 4828 DEL 16 FEBBRAIO 2023

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 4828 del 16 febbraio 2023, ha affermato che la mancanza di autonomia di gestione ed organizzazione nell’appalto conferma la non genuinità dello stesso e colloca il negozio tra quelli vietati dalla normativa in materia.

Nel caso esaminato, alcuni lavoratori adivano il Tribunale per vedere dichiarata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con il committente di un appalto, per interposizione fittizia di manodopera. Mentre in primo grado il ricorso veniva rigettato, la Corte d’Appello accoglieva lo stesso, ritenendo che il lavoro dei ricorrenti fosse stato svolto ad esclusivo beneficio del committente, il quale aveva fornito, nell’esecuzione dell’appalto, beni di rilevanza non marginale e dai quali non si poteva prescindere per il raggiungimento dello scopo dell’appalto. Inoltre, a sostegno della pretesa dei lavoratori era emerso che il compenso per le prestazioni eseguite era stato parametrato alle giornate di lavoro da loro svolte, azzerandosi così il rischio economico per l’appaltatore.

La Corte di Cassazione, afferma che la sentenza impugnata ha applicato correttamente i principi giurisprudenziali in materia, infatti, l’appalto di manodopera vietato dalla Legge n. 1369/1960, può essere accertato sia da elementi presuntivi, quali l’impiego di capitale e la proprietà delle attrezzature fornite, sia quando manchi al soggetto interposto una gestione, nella quale gravi sullo stesso il rischio di impresa, nonché l’autonomia organizzativa.

Con riferimento ai cosiddetti appalti endoaziendali, caratterizzati cioè dall’affidamento di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, il divieto ex art. 1 Legge n. 1369/1960 opera tutte le volte in cui l'appaltatore mette a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo al primo il solo compito di gestione amministrativa del personale impiegato, cioè pagamento delle retribuzioni dovute o pianificazione delle ferie, senza però una reale organizzazione della prestazione lavorativa resa e finalizzata ad un risultato produttivo autonomo rispetto all’attività del committente.

 

IN CASO DI ACCERTEMANTO ANALITICO CONSEGUENTE AD INDAGINI BANCARIE OCCORRE CONSIDERARE ANCHE L’INCIDENZA PERCENTUALE DEI COSTI CHE VANNO DETRATTI DAI PRELIEVI NON GIUSTIFICATI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 5586 DEL 23 FEBBRAIO 2023

La Corte di Cassazione – sentenza n°5586 del 23 febbraio 2022 – ha stabilito che anche nel caso di accertamento analitico e analitico-presuntivo, occorre considerare l’incidenza percentuale dei costi in relazione ai ricavi accertati.

Nel caso de quo, a seguito di verifica fiscale effettuata nei confronti di un contribuente, titolare di ditta individuale esercente l'attività di commercio all'ingrosso di calzature e accessori, e alla successiva emissione di processo verbale di constatazione, l'Agenzia delle entrate notificava due avvisi di accertamento con i quali veniva determinato un maggior reddito d'impresa imponibile sulla base dell'esame di movimentazioni bancarie relative a conti correnti riferibili al titolare della ditta individuale.

Contro gli atti impositivi il contribuente proponeva ricorso dinanzi alla CTP di Savona, che lo accoglieva parzialmente. La CTR della Liguria respingeva l'appello del contribuente confermando la decisione impugnata. Riteneva, in particolare, la CTR che il contribuente non aveva fornito elementi idonei a vincere la presunzione ex art. 32, DPR 600/73. Osservava, inoltre, che non assumeva rilievo la circostanza che il contribuente fosse titolare di impresa soggetta a contabilità semplificata e che non poteva essere riconosciuta una incidenza percentuale di costi presunti a fronte dei maggiori ricavi in mancanza di idonea documentazione.

Avverso la sentenza della CTR il contribuente ha proposto ricorso per cassazione duolendosi, tra gli altri motivi, dell’operato della CTR per non aver ritenuto che, in caso di accertamento basato su indagini bancarie, debbano essere riconosciuti i costi in deduzione dei maggiori ricavi accertati.

Orbene, la Suprema Corte – in relazione al motivo sopra citato –  ha accolto il ricorso confermando che secondo l'orientamento della Corte "In tema di imposte sui redditi, l'Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo "puro" ex art. 39, comma 2, DPR 600/73, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo (come in caso di indagini bancarie) è il contribuente ad avere l'onere di provare l'esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l'Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario". Tuttavia, tale opzione interpretativa – hanno continuato gli Ermellini – deve essere rivisitata alla luce della pronuncia della Corte costituzionale 31 gennaio 2023, n.10.

I Giudici delle leggi, infatti, con la pronuncia sopra citata, constatando che il presupposto dell'utilizzo del metodo analitico o "misto" è l'attendibilità complessiva della contabilità, hanno stabilito che il contribuente imprenditore possa sempre, anche in caso di accertamento analitico-induttivo, opporre la prova presuntiva contraria e in particolare possa eccepire la "incidenza percentuale” dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall'ammontare dei prelievi non giustificati.

 

DA UNA COMUNICAZIONE TARDIVA DI LICENZIAMENTO NON SCATTA SEMPRE LA REINTEGRA DEL LAVORATORE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 10802 DEL 21 APRILE 2023

La Corte di Cassazione, sentenza n° 10802 del 21 aprile 2023, ha affermato che la violazione del termine stabilito dal CCNL per l’adozione del provvedimento espulsivo a conclusione del procedimento disciplinare integra tutela indennitaria e non reintegratoria a favore del dipendente, qualora suddetto ritardo nella comunicazione del licenziamento non risulti -con accertamento riservato al giudice di merito- notevole e ingiustificato, tale da ledere, in senso non solo formale ma anche sostanziale, il principio di tempestività.

La controversia in esame ha riguardato l’impugnazione giudiziale del licenziamento irrogato alla dipendente che ne aveva ricevuto comunicazione tardiva, ovvero nei 10 giorni seguenti il termine previsto dal CCNL applicato al rapporto (30 successivi alle giustificazioni rese). All’accoglimento della domanda in primo grado, la società (Poste Italiane S.p.a.) era ricorsa alla Corte di Appello infruttuosamente, disponendo quest’ultima per la reintegra della lavoratrice ex art. 18, comma 4, L. 300/1970, come modificato dalla L. 92/2012.

La Corte di Cassazione, nel riformare il giudizio dei Giudici distrettuali, ha rilevato preliminarmente che, sul tema delle conseguenze sanzionatorie in ordine alla inosservanza del principio di tempestività, sussiste una distinzione tra la mera violazione dell’iter procedimentale nelle sue varie fasi (violazione di carattere formale) e quella che lede il principio generale in re ipsa perché caratterizzata da un ritardo notevole e non giustificato che mina esigenze più importanti quali, ad esempio, garantire al lavoratore una difesa effettiva e tutelare il legittimo affidamento, sottraendo il lavoratore ad un esercizio arbitrario del potere disciplinare.

Secondo i Giudici di legittimità, con un ritardo di lieve entità (10 giorni), si configura una violazione di natura solo formale/procedimentale e, pertanto, la tutela da applicare non sarà quella maggiore, che prevede la reintegra del lavoratore, bensì quella indennitaria.

 

DISCRIMINATORIO IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE DISABILE A CUI VENGA APPLICATO L’ORDINARIO PERIODO DI COMPORTO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 9095 DEL 31 MARZO 2023

La Corte di Cassazione, sentenza n. 9095 del 31 marzo 2023, afferma che l’applicazione del periodo di comporto, contrattualmente stabilito, al lavoratore disabile, rappresenta condotta discriminatoria da parte del datore di lavoro.

Nel caso esaminato, il lavoratore ricorreva in giudizio contro il licenziamento intimato dal datore di lavoro per superamento del periodo di comporto. Il Tribunale, in parziale accoglimento della domanda, dichiarava la nullità del licenziamento data la sua natura discriminatoria, dovuta alla condizione di disabilità del lavoratore, giacché doveva presumersi che le assenze per malattia fossero riconducili alla sua situazione di disabilità per l’assegnazione a mansioni incompatibili con il suo stato di salute, e condannava il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, nonché al risarcimento del danno, determinato nell’indennità mensile dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegrazione.

La Corte D’Appello rigettava il ricorso presentato dal datore di lavoro, che quindi ricorreva in Cassazione.

La Suprema Corte, confermando il decisum del Giudici di merito, afferma che la tutela contro la discriminazione sulla base della disabilità si fonda, tra l’altro, sulla direttiva 2000/78/CE e sulla Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE, che in particolar modo riconosce il diritto dei disabili di beneficiare di misure volte a garantire l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità. Ciò premesso, appare legittima la scelta operata dalle parti sociali di fissare un limite massimo ai giorni di assenza per malattia. Tuttavia, questa pur legittima finalità rappresenta una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla disabilità, poiché non terrebbe in considerazione il rischio di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità stessa. Questa circostanza trasformerebbe un criterio apparentemente neutro in una prassi discriminatoria nei confronti del lavoratore in posizione di particolare svantaggio. L’interesse protetto in questo caso, quello dell’inserimento professionale e sociale del lavoratore, in bilanciamento con le politiche occupazionali del datore di lavoro, rende necessaria l’applicazione del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare la parità di trattamento tra lavoratori.

 

MERCI PRESSO TERZI: LA PROVA NON PUO’ ESSERE DESUNTA SOLO DA FATTI CONCLUDENTI

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA 6325 del 02/03/2023

Nell’ambito delle ispezioni, la prova della detenzione presso terzi di merci non può essere assolta esclusivamente mediante l’esibizione dei relativi documenti di trasporto o le fatture, ma deve essere dimostrata con mezzi concludenti.

Lo ribadisce la Corte di Cassazione nell’esaminare la questione inerente un accertamento nel corso del quale era emerso che parte dei materiali acquistati da un’impresa non era stato rinvenuto nei locali della ditta stessa: tale circostanza aveva fatto sì che gli accertatori presumessero una cessione degli stessi beni, ed avevano quindi proceduto all’emissione di un avviso di accertamento, recuperando gli imponibili e l’IVA relativi a tali presunte cessioni. Si difendeva l’impresa sostenendo che tali beni fossero sempre stati nella propria disponibilità, seppur fatti consegnare direttamente presso ditte terze.

I giudici di primo grado, nell’esaminare il ricorso dell’impresa contribuente, lo avevano rigettato, mentre i giudici di appello, considerando che “circa la pretesa basata sulla presunzione di cessione di cui all’art. 53, d.P.R. n. 633/1972, la società aveva dimostrato l’ordinario utilizzo dei magazzini di proprietà di altra società per lo stoccaggio delle merci, avendo prodotto fatture e DDT nei quali risultava indicato che i suddetti magazzini erano stati adibiti a luogo di consegna delle merci” avevano ritenuto soddisfatta la prova che i beni fossero ancora nella disponibilità dell’impresa.

Di diverso avviso è invece la Corte di Cassazione che, esaminando gli atti a base del ricorso presentato dall’Amministrazione Finanziaria, ritiene applicabili le previsioni di cui all’art.1 del DPR 441/1997 in materia di presunzione di cessioni, per la quale si presumono ceduti tutti i beni non rinvenuti nei locali o nelle sedi e succursali denunciate presso il Registro delle Imprese, a meno che non vengano effettuate le (preventive) comunicazioni di cui all’art.35 del DPR 633/1972 (modello di apertura/variazione IVA con indicazione della sede/succursale/deposito), oppure le registrazioni di cui all’art.39 del DPR 633/1972, ovvero la tenuta regolamentare di un apposito registro di magazzino.

In tal senso non può essere ritenuta sufficiente l’esibizione di fatture e documenti di trasporto in cui sia indicato un diverso luogo di spedizione delle merci senza l’assolvimento degli obblighi su descritti.

Nel caso specifico infatti, osserva la Corte, “sotto tale profilo, non correttamente il giudice del gravame ha ritenuto idonee le fatture e i DDT nei quali veniva indicato quale luogo di consegna delle merci il deposito alternativo della società, in quanto, ai fini dell’assolvimento della prova contraria, la società avrebbe dovuto documentare e provare la suddetta annotazione”.

Ad maiora

Il Presidente
Fabio Triunfo

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
    Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 1 Maggio 2023