22 Maggio 2017
Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….
Oggi parliamo di………….
COEFFICIENTE ISTAT MESE DI APRILE 2017
E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Aprile 2017. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Aprile 2017 è pari a 1,247757 e l’indice Istat è 101,30.
LA TEMPESTIVITA' DEL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE DEVE ESSERE VALUTATA IN RELAZIONE AL TEMPO NECESSARIO PER ACCERTARE CORRETTAMENTE IL “FATTO” CONTESTATO E LA SUA IMPUTABILITA' AL PRESTATORE.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 10688 DEL 3 MAGGIO 2017.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 10688 del 3 maggio 2017, ha (ri)statuito che il datore di lavoro che, prima di procedere ad una contestazione disciplinare, effettua indagini ispettive per meglio approfondire natura e responsabilità inerenti il “fatto contestato”, disponendo solo di una confessione di parte, suscettibile di revoca, non viola il principio di immediatezza sancito dallo Statuto dei lavoratori.
Nel caso de quo, un dipendente di Poste italiane Spa veniva licenziato, all'esito del procedimento disciplinare, per aver annullato tre deleghe di pagamento, nel periodo novembre/dicembre 2005, all'insaputa dei clienti interessati, utilizzando username e password di una collega di lavoro, ignara dell'accaduto. L'atto di recesso datoriale veniva comunicato solo nel mese di ottobre 2007, dopo che l'azienda aveva posto in essere apposite indagine ispettive, non ritenendo sufficiente la confessione del lavoratore fornita nel gennaio 2007.
Avverso l'atto di recesso datoriale, il subordinato ricorreva ai Magistrati sostenendo la tardività della procedura disciplinare esperita, atteso che Poste Italiane Spa aveva ricevuto la confessione ben 10 mesi prima dell'apertura della procedura ex art. 7 della L. n° 300/70.
Avverso il decisum di prime cure, il datore di lavoro ricorreva per Cassazione.
Orbene, gli Ermellini, nel ribaltare integralmente il deliberato dei gradi di merito, hanno evidenziato che non viola il principio di immediatezza, il datore di lavoro che, prima di procedere ad una contestazione disciplinare, disponga indagini ispettive per meglio approfondire natura e responsabilità passibili di sanzione ove a tal fine egli disponga, quali elementi conoscitivi, della sola confessione del lavoratore, essendo essa potenzialmente revocabile – ex art. 2732 cod. civ..
Pertanto, atteso che nel caso in disamina, il datore di lavoro aveva subito avviato la procedura disciplinare, appena avuto apposito riscontro fattuale alla confessione del dipendente, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno cassato la sentenza impugnata, rinviando gli atti alla Corte territoriale per un nuovo deliberato in subiecta materia.
COSTITUISCE REATO PENALE L’INSTALLAZIONE DI UN IMPIANTO DI VIDEOSORVEGLIANZA SENZA IL PREVENTIVO ACCORDO SINDACALE O IN DIFETTO DI AUTORIZZAZIONE AMMINISTRATIVA EQUIVALENTE.
CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 22148 DELL’8 MAGGIO 2017.
La Corte di Cassazione, III Sezione Penale -, sentenza n° 22148 dell’8 maggio 2017, ha (ri)confermato, in tema di utilizzo di impianti di videosorveglianza, che, in difetto del preventivo accordo sindacale, ovvero, della preventiva autorizzazione rilasciata dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro, l’arbitraria installazione costituisce reato penale ex artt. 4 e 38, legge 20 maggio 1970, n°300.
Nel caso de quo, l’amministratore di una società esercente attività di vendita al dettaglio di calzature, aveva installato, presso una unità locale, un impianto di video ripresa composto da 2 telecamere, collegate ad un dispositivo wi-fi e monitor, in grado di trasmettere le immagini di ripresa, senza accordo stipulato con le rappresentanze sindacali e senza l’autorizzazione dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro. Accertato l’illecito, il giudizio di merito si era concluso con la condanna, previa concessioni delle attenuanti generiche, alla pena di euro 600,00 di ammenda per il reato previsto dall’art. 4, legge n° 300/70.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’amministratrice della società duolendosi che, invero, delle 2 telecamere installate, una consentiva le riprese in una zona adibita a magazzino e l’altra, esclusivamente sulla zona ove era collocata la cassa. Inoltre, eccepiva la circostanza secondo la quale era stato in ogni caso riscontrato il preventivo consenso individuale dei lavoratori impegnati.
Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha preliminarmente rimarcato la sussistenza di continuità di tipo di illecito tra la previgente fattispecie, contemplata dagli art. 4 e 38, legge n° 300/1970 e artt. 114 e 171 del D.Lgs. n° 196/2003, e quella attuale rimodulata dall’art. 23, D.Lgs. n° 151/2015. In particolare, anche la nuova disposizione ribadisce la necessità che l’installazione di apparecchiature, da impiegare esclusivamente per esigenze organizzative e produttive nonché per la tutela del patrimonio aziendale, dalle quali possa derivare anche indirettamente la possibilità di controllo a distanza dei lavoratori, sia preceduta dalla codeterminazione tra parte datoriale e rappresentanze sindacali. In difetto, il datore di lavoro deve far precedere l’installazione da un provvedimento autorizzativo da parte dell’autorità amministrativa.
Sul paventato preventivo consenso individuale, infine, gli Ermellini hanno evidenziato che il consenso, in qualsiasi forma prestato dai lavoratori non vale a scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato i predetti impianti in violazione delle prescrizioni dettate dalla normativa incriminatrice.
All’uopo, hanno concluso, la diseguaglianza di fatto e l’indiscutibile maggiore forza economico – sociale dell’imprenditore, rispetto a quella del lavoratore, dà conto della ragione per la quale la procedura codeterminativa sia da ritenersi inderogabile, potendo alternativamente essere sostituita dall’autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro, nel solo caso di mancato accordo con le RSA, ma non invece dal consenso dei singoli lavoratori, poiché, basterebbe al datore di lavoro far firmare a costoro, all’atto dell’assunzione, una dichiarazione con cui accettano l’introduzione di tecnologie finalizzate al controllo, per il solo timore della mancata assunzione.
LA PRESENZA DI UNA SEGRETARIA IN OUTSOURCING IMPLICA LA SUSSISTENZA DI UN’AUTONOMA ORGANIZZAZIONE PERTANTO IL PROFESSIONISTA PAGA L'IRAP.
CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 9477 DEL 12 APRILE 2017
La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 9477 del 12 aprile 2017, intervenendo in tema di IRAP, ha affermato che il professionista che si sia avvalso, nell’esercizio della propria attività, di collaboratori esterni presuppone la esistenza di una autonoma struttura organizzativa assoggettabile all’IRAP.
IL FATTO
Un ingegnere riceveva una cartella di pagamento per IRAP, emessa ai sensi dell’art. 36 bis del D.P.R. n. 600/73.
Il professionista avverso la cartella di pagamento proponeva immediatamente ricorso innanzi alla C.T.P.. I Giudici di prime cure accoglievano le doglianze del contribuente annullando le cartelle. La decisione veniva confermata anche dai Giudici di appello che sulla scorta della documentazione prodotta, ritenevano che non ricorressero i presupposti per applicare l’IRAP causa la mancanza dell’impiego di lavoro dipendente.
Da qui il ricorso per Cassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate.
Orbene, gli Ermellini, con la sentenza de qua, hanno accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate cassando la sentenza impugnata con rinvio ed invito al riesame in base ai seguenti due principi di diritto:
- in tema d'Irap, in base all'art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997, presupposto dell'imposta è “la sussistenza di un'autonoma struttura organizzativa "esterna" che ricorre allorché il professionista impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l'"id quod plerumque accidit", il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui, non essendo sufficiente l'assenza di limitazioni e controlli da parte di altri soggetti" (Cass. n. 22468 del 04/11/2015).
- quanto al fattore-indice (rilevante nel caso di specie) costituito dal lavoro altrui, si deve ritenere che “anche il ricorso al lavoro di terzi per la fornitura di tutti i necessari servizi (dalla telefonia al segretariato) in forma rilevante e non occasionale, ma continuativa, integra il presupposto dell'esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata, non rilevando che, la struttura posta a sostegno e potenziamento dell'attività professionale del contribuente sia fornita da personale dipendente o da un terzo in base ad un contratto di fornitura” (Cfr. ex plurimis Cass. n.101/2010, Cass. n. 2099/2015 e Cass. n. 8962/2013).
I Giudici di Piazza Cavour hanno infine precisato che “l’auto-organizzazione” del professionista è un elemento essenziale per la sottoposizione alla imposta, ma non è sufficiente, essendo altresì necessario un elemento organizzativo esterno, basato sull’esistenza di beni strumentali, sul ricorso a lavoro altrui e sull’apporto di capitale, anche in via tra loro alternativa. In particolare, “la circostanza che il contribuente non si sia avvalso di lavoratori dipendenti, ma di collaborazioni autonome esterne di per sé non esclude la ricorrenza di una sua autonoma struttura organizzativa assoggettabile ad IRAP, dovendosi invece valutare la qualità e quantità di tali collaborazioni.”
PER LA CASSAZIONE LA NON AGIBILITÀ DEI LOCALI NON È DI OSTACOLO ALLA VALIDA COSTITUZIONE DEL RAPPORTO LOCATIZIO
CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE CIVILE – SENTENZA N. 9558 DEL 13 APRILE 2017
La Corte di Cassazione – III Sezione Civile -, sentenza n° 9558 del 13 aprile 2017, ha statuito che l’assenza del certificato di agibilità di un immobile commerciale, se a conoscenza del conduttore, non ha alcun effetto sulla validità del contratto di locazione. L’inadempimento del locatore si ha solo quando la mancanza di titoli autorizzativi dipenda da carenze intrinseche ovvero da caratteristiche proprie del bene locato, tali da impedire tout court il rilascio degli atti amministrativi necessari per l’esercizio dell’attività.
Con la sentenza de qua, gli Ermellini, confermando il decisum dei gradi di merito, hanno rigettato le doglianze di una società sfrattata da un locale per morosità e condannata al pagamento di tutti i canoni d’affitto non saldati, la quale però, contestava alla locatrice la stipula stessa del contratto di locazione ad uso commerciale, in quanto l’immobile risultava privo del canonico certificato di agibilità. Pertanto, alla luce di tali difformità, per la società conduttrice, il contratto di locazione doveva quindi considerarsi nullo per impossibilità dell’oggetto o della causa dello stesso.
I Giudici di Piazza Cavour, nel respingere in toto le eccezioni sollevate dalla società conduttrice, hanno evidenziato che le particolari condizioni dell’immobile erano state analiticamente indicate nel contratto di locazione ed accettate dalla conduttrice, che aveva approvato per iscritto separatamente ogni relativa clausola e, pertanto, il contratto di locazione deve essere considerato valido e conforme a quanto disposto dall’art. 1341, c. 2, C.C., e nessuna responsabilità contrattuale può gravare sul locatore nel caso risulti impossibile utilizzare l’immobile locato secondo la destinazione d’uso pattuita nel contratto.
In nuce, per la S.C. se il conduttore viene messo a conoscenza dello stato fatiscente dell’immobile e dell’assenza di autorizzazioni amministrative all’utilizzo e, nonostante ciò, decide ugualmente di stipulare un contratto di locazione, assume su di sé il rischio del mancato rilascio delle certificazioni da parte dell’Amministrazione competente. Di conseguenza, anche qualora l’Ente preposto non dovesse rilasciare il certificato di agibilità, tale circostanza non può avere alcuna influenza sulla vicenda contrattuale né può ritenersi sussistente alcuna responsabilità in capo al locatore.
LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE DERIVANTE DALL’ATTIVITA’ DI CONTROLLO OCCULTO, FINALIZZATO ALLA SALVAGUARDIA DEL PATRIMONIO AZIENDALE.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 10636 DEL 2 MAGGIO 2017
La Corte di Cassazione, sentenza n° 10636 del 2 maggio 2017, ha statuito che il licenziamento disciplinare, in conseguenza alla sottrazione di prodotti aziendali, è ammissibile anche in presenza di un controllo difensivo “occulto”.
Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Perugia, in riforma del Tribunale di Terni, accoglieva il reclamo proposto dalla Cooperativa in primo grado circa l'illegittimità del licenziamento.
Nei fatti, i Giudici di merito avevano rilevato che un dipendente dell'ipermercato in ben nove occasioni, tra il 18 ed il 24 ottobre 2016, aveva sottratto ed utilizzato per uso personale dei dolciumi dal magazzino, luogo aziendale le cui attività di movimentazione erano affidate a ditte esterne. Le registrazioni delle immagini erano state affidate ad una società investigativa configurandosi l'ipotesi di controllo difensivo occulto, legittimamente attuato “non avendo i controlli ad oggetto l'attività lavorativa più propriamente detta ed il suo esatto adempimento.”
Nel caso de quo, gli Ermellini, nel confermare il ragionamento logico giuridico dei Giudici dell'Appello, ritenendolo particolarmente puntuale nei riscontri oggettivi, hanno ricordato che la specificità della contestazione, prevista dall'art. 7 della Legge n. 300/1970, non è riconducibile ai rigidi canoni imposti dal processo penale e né si ispira ad una regola astratta e precostituita, bensì è sufficiente che sia rispettato il principio di correttezza e buona fede teso unicamente a tutelare il diritto di difesa. Ammettendo, dunque, che una contestazione possa non essere analitica purché contenente l'esposizione di dati e degli aspetti essenziali del fatto materiale, tale da consentire l'esercizio del diritto alla difesa da parte del lavoratore. Riguardo poi ai controlli difensivi, non è previsto alcun obbligo di specifica autorizzazione quando i controlli hanno lo scopo di difendersi da condotte illecite che possano mettere a rischio il patrimonio aziendale. Pertanto, i controlli difensivi occulti, sono ammissibili anche quando sono posti in essere da soggetti terzi, purché diretti all'accertamento di comportamenti illeciti diversi dall'inadempimento della prestazione lavorativa dal punto di vista qualitativo e quantitativo. Circostanza quest'ultima pienamente rispettata, in quanto, le telecamere erano state installate in locali non destinati alla prestazione lavorativa dei dipendenti della cooperativa.
Ad maiora
IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO
(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!
Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.
Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro
Modificato: 22 Maggio 2017