17 Maggio 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LA CADENZA MENSILE DELLA FATTURAZIONE A FAVORE DI UN COLLABORATORE ESCLUDE LA NATURA OCCASIONALE E INTEGRA IL PRESUPPOSTO IMPOSITIVO DELL'AUTONOMA ORGANIZZAZIONE AI FINI IRAP

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.3865 DEL 15 FEBBRAIO 2021.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 3865 del 15 febbraio 2021, ha (ri)confermato, in tema di presupposto per l'applicazione dell'Irap ai professionisti, che i compensi erogati con cadenza mensile a favore di collaboratori professionisti integrano il concetto di autonoma organizzazione.

Nel caso de quo, un contribuente, esercente la professione di avvocato, aveva impugnato il silenzio rifiuto formatosi avverso la domanda di rimborso dell'IRAP versata nel periodo di imposta dell'anno 2013, eccependo l'illegittimità del prelievo per assenza del presupposto dell'autonoma organizzazione.

La CTP di Napoli aveva accolto il ricorso e la CTR della Campania, ex adverso, aveva accolto l'appello dell'Ufficio. In particolare, il Giudice d'Appello aveva valorizzato il presupposto dell'autonoma organizzazione sulla circostanza che il contribuente si era avvalso di quattro avvocati quali collaboratori esterni, in ragione dell'entità del reddito realizzato; tale elemento configurava una attività professionale non riconducibile ad attività svolta da un solo professionista. Il Giudice d’Appello aveva altresì rilevato che la descrizione delle prestazioni svolte da alcuni collaboratori e la cadenza mensile della fatturazione di un'altra collaboratrice escludesse la natura occasionale delle relative prestazioni.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il contribuente deducendo la natura occasionale delle prestazioni rese dai collaboratori, titolari, tra l'altro, di propri studi professionali.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso evidenziando il principio, comunemente affermato, secondo cui al fine di valutare, in materia di IRAP, la sussistenza del presupposto impositivo dell'autonoma organizzazione, anche solo ove il contribuente si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui, tale da superare la soglia dell'impiego di un collaboratore che esplichi mansioni meramente esecutive di segreteria, come anche nel caso di attività svolta da praticanti la quale, pur assolvendo in astratto ad una preminente finalità formativa, non esime il Giudice dal verificare se, in concreto, tenendo anche conto dell'entità dei compensi corrisposti, costituisca un contributo alla produttività del contribuente, incrementandone il reddito ( Cfr. Cass., Sez. VI, 19 aprile 2018, n°9786; Cass., Sez. VI, 26 ottobre 2016, n°21679).

Nella specie, hanno concluso gli Ermellini, era stato accertato che almeno uno dei collaboratori del ricorrente svolgesse attività continuativa per conto del ricorrente, attività che, in quanto svolta da un professionista, non poteva costituire attività assimilabile ad attività esecutiva di segreteria.

 

IL CONTRIBUENTE PAGA LE SANZIONI FISCALI PER L’OMESSO VERSAMENTO DELLE IMPOSTE ANCHE QUANDO IL PROFESSIONISTA DELEGATO HA OTTEMPERATO IN MALAFEDE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 11958 DEL 6 MAGGIO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 11958 del 6 maggio 2021, ha statuito che il contribuente deve pagare le sanzioni fiscali per l'omesso versamento delle imposte ancorché il professionista delegato ha ottemperato in malafede, in quanto le sole ricevute false lo esonerano dalla responsabilità verso l'Erario.

Con l’ordinanza de qua, i Giudici di piazza Cavour hanno accolto le doglianze dell'Agenzia delle Entrate, con una, a dir poco, interessante motivazione, evidenziando che il contribuente non assolve agli obblighi tributari con il mero affidamento a un professionista del mandato a trasmettere in via telematica la dichiarazione alla competente Agenzia delle Entrate, essendo tenuto a vigilare affinché tale mandato sia puntualmente adempiuto, sicché la sua responsabilità è esclusa solo in caso di comportamento fraudolento del professionista, finalizzato a mascherare il proprio inadempimento.

Nel caso di specie, per gli Ermellini, il contribuente non ebbe mai a esercitare il dovuto e non inesigibile controllo sul professionista delegato, e la sua responsabilità per le sanzioni, sotto il profilo della colpa, non può escludersi,  non risultando sufficiente per mandarlo esente il dolo del delegato poiché ove egli ne avesse sorvegliato l'operato, quantomeno richiedendo copia delle ricevute di trasmissione delle dichiarazioni, adempimento certo non inesigibile in capo al contribuente anche del tutto sprovvisto di preparazione in materia tributaria, l'evento omissivo poteva scoprirsi e il contribuente poteva porvi rimedio.

Ex adverso, se a fronte delle richieste di consegnare copia delle ricevute, il delegato avesse fraudolentemente fornito documentazione falsa, allora necessariamente si doveva concludere per l'inapplicabilità delle sanzioni difettando in tal caso anche l'elemento soggettivo della colpa sul cliente.

In nuce, per la S.C, in tema di sanzioni amministrative per violazioni tributarie, ai fini dell'esclusione di responsabilità per difetto dell'elemento soggettivo, grava sul contribuente ai sensi dell'art. 5 del D.lgs n. 472/1997 la prova dell'assenza assoluta di colpa, con conseguente esclusione della rilevabilità d'ufficio, occorrendo a tal fine la dimostrazione di versare in stato di ignoranza incolpevole, non superabile con l'uso dell'ordinaria diligenza.

 

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE SORPRESO A SVOLGERE ATTIVITÀ EXTRA LAVORATIVA SE COMPATIBILE CON IL SUO STATO DI MALATTIA

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 9647 DEL 13 APRILE 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n. 9647 del 13 aprile 2021, ha riconfermato l’illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore in malattia a causa di evento depressivo, il quale sia stato sorpreso a svolgere attività extra lavorative durante il periodo coperto da certificazione medica.

Nel caso in oggetto, un lavoratore adiva il Tribunale per impugnare il licenziamento per giusta causa comunicato dal datore di lavoro in seguito a contestazione disciplinare dalla quale era emerso lo svolgimento di attività ricreative durante il periodo di malattia, generata da un episodio depressivo. Tali attività ritenute incompatibili con lo stato morboso del lavoratore avevano indotto il datore di lavoro, dopo lo svolgimento della procedura disciplinare, ad applicare l’estrema sanzione.

Soccombente in entrambi i gradi di giudizio, il datore di lavoro ricorreva alla Suprema Corte.

La Corte di Cassazione, confermando il disposto dei Giudici di merito, ha affermato che, sulla scorta del concetto di malattia costituzionalmente identificato, l’evento impeditivo della prestazione lavorativa deve essere inteso non come assoluta impossibilità di svolgere una qualsivoglia attività, bensì come incapacità del lavoratore di svolgere le mansioni a lui affidate. Sarà onere di quest’ultimo in sede di contenzioso giudiziario dimostrare la compatibilità dello stato morboso con lo svolgimento di altre attività, mentre resta al Giudice la valutazione concreta circa l’eventuale inesistenza dell’evento morboso o dell’eventuale pregiudizio che le suddette attività potrebbero comportare per la normale guarigione. In particolare, le attività extra lavorative rappresentano una violazione dei doveri di correttezza e buona fede cui è tenuto il lavoratore sia quando l’attività in oggetto sia idonea a dimostrare l’inesistenza dello stato di malattia, sia quando l’attività svolta possa recare un pregiudizio o ritardare la guarigione dall’evento morboso.

Nel caso in oggetto, non era emersa una progettazione fraudolenta dell’evento di malattia da parte del lavoratore, né tantomeno i comportamenti da questi tenuti sono stati ritenuti ostacolo alla guarigione.

Pertanto, per le esposte ragioni la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del datore di lavoro.

 

IL CONTRATTO DI LAVORO NON PUO’ RITENERSI PERFEZIONATO CON L’INVIO DI UNA MAIL

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 10565 DEL 21 APRILE 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 10565 del 21 aprile 2021, ha statuito che il semplice invio di una mail, durante le trattative finalizzate all’assunzione, non costituisce comportamento concludente della società ai fini del perfezionamento del contratto

Nel caso in esame, un lavoratore adiva il Giudice del Lavoro per la declaratoria di esistenza di un contratto di lavoro subordinato, perfezionatosi – secondo la sua prospettazione – a seguito di un comportamento concludente da parte della società datrice, consistente nell’invio di una proposta di assunzione – trasmessa tramite una (semplice) email – alla quale, il lavoratore non aveva fatto seguire alcuna comunicazione.

Il Tribunale di Milano accoglieva la domanda del lavoratore e, per l’effetto, dichiarava il contratto perfezionato; successivamente, la Corte d’Appello aveva ribaltato la pronuncia ritenendo che la mail inviata dalla società costituisse una mera proposta di assunzione alla quale non aveva fatto seguito alcuna accettazione esplicita né tantomeno era stata posta in atto alcuna forma di manifestazione tacita della volontà negoziale.

La Corte meneghina, inoltre, riteneva che neanche l’aver avviato, presso il Consolato, le pratiche per l’ottenimento del visto per motivi di lavoro potesse ritenersi un comportamento concludente, tanto più che detta autorizzazione non era mai stata rilasciata. Il rilascio del visto doveva ritenersi semmai una condizione necessaria ai fini del perfezionamento del contratto.

Il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione con due motivi di doglianza; con il primo, lamentava violazione e falsa applicazione degli artt. 1321 e 1326 c.c. per aver la Corte territoriale escluso che il contratto si fosse perfezionato con l’accettazione della proposta di assunzione. Con il secondo motivo, denunciava violazione e falsa applicazione degli artt. 1358 e 1359 c.c. ritenendo che la condizione sospensiva dovesse ritenersi avverata poiché era stata la società stessa ad intervenire affinché il visto non venisse rilasciato.

La Suprema Corte ha ritenuto, invece, corretta la valutazione effettuata dalla Corte d’Appello che, sulla base della documentazione e delle dichiarazioni testimoniali acquisite, aveva escluso che il contratto si fosse perfezionato, mancando sia un’accettazione esplicita sia un comportamento concludente. Né i Giudici hanno ritenuto censurabile il comportamento della società la quale era intervenuta per frenare il rilascio del visto non al fine di impedire il verificarsi dell’evento indicato come condizione sospensiva (l’ottenimento del visto), ma “come libera determinazione assunta nel corso delle trattative ancora pendenti”, conseguente al venir meno dell’ipotesi di opportunità di assunzione iniziale.

 

IL LAVORATORE AUTONOMO ISCRITTO ALLA GESTIONE SEPARATA IN REGIME DI MONOCOMMITTENZA, NON GODE DELL’AUTOMATICITA’ DELLE PRESTAZIONI IN CASO DI MANCATO VERSAMENTO DELLA CONTRIBUZIONE DA PARTE DEL COMMITTENTE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA 11430 DEL 30.04.2021.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 11430 del 30 aprile 2021, ha statuito che non vige l’automaticità della prestazione previdenziale nei confronti del lavoratore autonomo iscritto alla Gestione Separata, a nulla valendo la circostanza che sia il committente tenuto ad effettuare il versamento dei contributi all’Ente previdenziale.

La vicenda giudiziaria nasce ad impulso di una collaboratrice in regime di monocommittenza, che si è vista rigettata dall’INPS la richiesta di pagamento dell’Indennità di Fine Rapporto ex art.19 D.L. 185/2008 astrattamente spettantele, giacché non risultavano effettuati i versamenti previdenziali da parte del committente.

La ricorrente, nella sua esposizione, riteneva applicabile l’automaticità della prestazione, pur in assenza dei versamenti previdenziali, giacché sosteneva essere integrata la previsione di cui all’art.2116 comma 1 c.c., in considerazione del fatto che la stessa non risultava essere responsabile dell’inadempimento del versamento da parte della committente, atteso che aveva effettivamente subito la ritenuta di un terzo dei contributi dovuti.

I Giudici di merito, partendo da questa considerazione, si erano espressi in suo favore, ritenendo irragionevole addossarle le conseguenze di un comportamento effettivamente non a lei imputabile.

La Corte di Cassazione, adita dall’INPS, ha, invece, precisato che il rapporto tra lavoratore autonomo e committente è altra cosa rispetto al rapporto di lavoro dipendente nei cui confronti può ritenersi valida l’applicazione dell’art.2116 comma 1 c.c., in cui è statuito che è l’imprenditore, e non il prestatore di lavoro dipendente, l’unico responsabile del versamento del contributo, ciò anche in considerazione che l’unico legittimato a richiedere la restituzione dei contributi eventualmente versati in eccedenza è il datore.

Sulla base di tali considerazioni, mancando un esplicito riferimento al principio dell’automaticità delle prestazioni nella L. 335/95, gli Ermellini hanno accolto il ricorso dell’Inps.

Con l’occasione, i Giudici nomofilattici hanno precisato che, ex adverso, il collaboratore parasubordinato può esperire l’azione risarcitoria, per il mancato pagamento dei contributi, anche mediante la procedura di cui all’art.13 Legge 1338/1962.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Luigi Carbonelli, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 17 Maggio 2021