9 Maggio 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IL COMPORTAMENTO DEL LAVORATORE PUNITO CON SANZIONE CONSERVATIVA PUÒ ESSERE VALUTATO DIVERSAMENTE DAL GIUDICE SOLO SE LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NON HA ESCLUSO LA SANZIONE ESPULSIVA PER I CASI DI MAGGIORE GRAVITÀ

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 9931 DEL 28 MARZO 2022

La Corte di Cassazione, sentenza n. 9931 del 28 marzo 2022, ha confermato il principio secondo il quale in materia di licenziamenti disciplinari, il comportamento del lavoratore configurabile come infrazione punita con sanzione conservativa, non può essere diversamente valutato dal giudice, tranne che nei casi in cui venga accertata la comune volontà dei contraenti di non escludere per i casi di maggiore gravità la possibilità della sanzione espulsiva.

Nel caso in esame, un lavoratore impugnava il licenziamento intimato per giusta causa, per avere lo stesso intrattenuto con una sua paziente un rapporto estraneo all’esclusivo rapporto medico – paziente, determinando a parere del datore di lavoro una lesione irrimediabile del vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro.

Il Tribunale in primo e la Corte d’Appello in secondo grado di giudizio confermavano la legittimità del licenziamento, ritenendo che la condotta posta in essere dal lavoratore avrebbe determinato la lesione della sfera personale e sessuale della paziente, comportando la violazione degli obblighi fondamentali posti dal codice deontologico. La gravità di tale comportamento non avrebbe consentito l’assimilabilità ad altre fattispecie, per le quali era prevista la sanzione conservativa secondo le disposizioni del CCNL applicato. Il lavoratore ricorreva in Cassazione.

Secondo i Giudici di Piazza Cavour è da ritenersi applicabile il consolidato principio secondo il quale in materia di licenziamenti disciplinari, nei casi in cui un comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia configurato dal contratto collettivo come infrazione disciplinare cui consegua una sanzione conservativa, il giudice non può discostarsi da tale previsione, a meno che non venga accertata la volontà delle parti contraenti di non escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva. Orbene, il comportamento posto in essere dal dipendente avrebbe comportato, a parere dei Giudici di legittimità, una grave violazione degli obblighi deontologici, che rappresenta una fattispecie ben diversa da quelle contenute nel CCNL, il quale prevedeva una sanzione conservativa per le infrazioni assimilabili alle sole molestie, ed avrebbe rappresentato al contrario fattispecie non compresa specificamente in altre previsioni disciplinari a carattere conservativo.

Per le ragioni esposte, la Suprema Corte, confermando il decisum dei Giudici di merito, rigetta il ricorso del lavoratore.

 

NULLO IL LICENZIAMENTO INTIMATO A SEGUITO DI RISTRUTTURAZIONE AZIENDALE: LA SOCIETA’ CONDANNATA ALLA REINTEGRA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 10517/2022 DEL 31 MARZO 2022

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 10517 del 31 marzo 2022, ha ribadito che in caso di trasferimento di aziende per le quali sia stato accertato lo stato di crisi o sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, nell’ipotesi di mancata cessazione dell’attività l’accordo sindacale possa prevedere deroghe all’art. 2112 c.c. concernenti le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti di lavoro all’azienda cessionaria.

Nel caso in trattazione, una lavoratrice agiva per veder dichiarata la nullità del licenziamento intervenuto durante il periodo protetto (entro l’anno dalle pubblicazioni di matrimonio), in quanto intervenuto a seguito di ristrutturazione aziendale e non di cessazione dell'attività aziendale. Sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello, in accoglimento della domanda, ritenevano nullo il licenziamento in quanto l'esame degli atti che avevano preceduto il licenziamento collettivo del personale dimostravano che non si era trattato di cessazione dell'attività aziendale (ipotesi di mancata operatività della protezione prevista dal D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 35, comma 5) bensì di mera ristrutturazione aziendale, e condannavano la società cessionaria a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro.

Avverso tale sentenza sia la società cedente che la cessionaria proponevano ricorso in Cassazione lamentando che la Corte territoriale avesse erroneamente escluso l'ipotesi di una cessazione dell'attività aziendale e dichiarato la nullità del licenziamento della dipendente, non tenendo conto di dati del tutto pacifici che confutavano tale prospettazione e fornendo una motivazione generica e per relationem, senza indicazione di un proprio autonomo convincimento; inoltre le ricorrenti ritenevano violata e falsamente applicata la L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 4-bis, nonché gli accordi collettivi intervenuti nell'ambito di una situazione di crisi aziendale.

Gli Ermellini respingevano il ricorso ritenendo che la Corte territoriale avesse motivato, in ordine alla esclusione della ricorrenza di una cessazione dell'attività aziendale, la decisione, seppur per relationem, avendo – la sentenza impugnata – trascritto la parte rilevante del provvedimento intervenuto sulla stessa vicenda e su questioni analoghe. La Suprema Corte, inoltre, condividendo il seguente principio di diritto: “in caso di trasferimento che riguardi aziende delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi della l. n. 675/1977, art. 2,comma 5, lett. c), ovvero per le quali sia stata disposta l'amministrazione straordinaria, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività, ai sensi del d.lgs. n. 270/1999, l'accordo sindacale di cui alla l. n. 428/1990, art. 47, comma 4-bis, inserito dal d.l. n. 135/2009, convertito in l. n. 166/2009, può prevedere deroghe all'art. 2112 c.c. concernenti le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti di lavoro al cessionarioconfermava la nullità del licenziamento e la reintegra della lavoratrice.

 

L’INADEMPIMENTO DEL VENDITORE NON PUÒ ESSERE CONSIDERATO UNA CAUSA DI FORZA MAGGIORE PER I BENEFICI DELLA PRIMA CASA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.10562 DEL 1° APRILE 2022

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.10562 del 1° aprile 2022, ha statuito che per mantenere l'agevolazione fiscale "prima casa" non può essere considerato sufficiente la stipulazione di un contratto preliminare di compravendita, ancorché con effetti meramente obbligatori, ma è necessaria la conclusione del contratto definitivo, traslativo del diritto di proprietà dell'immobile, entro il termine previsto dalla legge, in quanto l'inadempimento della controparte agli obblighi derivanti dal contratto preliminare non presenta i connotati di oggettività, inevitabilità ed imprevedibilità, tali da configurare una causa di forza maggiore.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno accolto in toto le doglianze dell'Agenzia delle Entrate avverso la decisione con cui la CTR aveva annullato l'avviso di liquidazione notificato ad un contribuente, teso alla revoca delle agevolazioni prima casa, avendo il contribuente alienato l'immobile prima dello scadere del termine di 5 anni dalla data di acquisto e comprato un altro immobile da adibire a propria abitazione principale, ma ben oltre il termine di un anno, previsto dalla normativa vigente, per causa non dipendente dalla propria volontà, essendo stata la promissaria venditrice a non aver tempestivamente adempiuto all'obbligo di consegna dell'immobile nella data fissata con contratto preliminare.

Con l’ordinanza de qua, gli Ermellini hanno ricordato che il sopravvenire di una causa di forza maggiore, che impedisce la decadenza dall'agevolazione prima casa, deve intendersi quale impedimento oggettivo caratterizzato dalla non imputabilità, inevitabilità ed imprevedibilità dell'evento, e che l’ipotesi di specie non aveva i connotati dell'oggettività, inevitabilità ed imprevedibilità e non poteva, quindi, essere configurata alla stregua di una causa di forza maggiore.

In nuce, per la S.C., la mancata conservazione dei benefici non era dipesa da fattori sovrastanti la sfera soggettiva del soggetto, ma era riconducibile a una precisa scelta del contribuente di ricorrere alla stipula del contratto preliminare accettando, quindi, il rischio che, per effetto degli inadempimenti della controparte, eventi per nulla imprevedibili e inaspettati, il passaggio di proprietà si protraesse oltre l'anno dalla precedente vendita.

 

IL MOBBING INTEGRA STALKING OCCUPAZIONALE LADDOVE SI REGISTRI IL MERO DOLO GENERICO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 12827 DEL 5 APRILE 2022

La Corte di Cassazione, sentenza n. 12827 del 5 aprile 2022, afferma che le condotte vessatorie del datore integrano il reato di stalking c.d. occupazionale, ex art. 612-bis c.p., ogniqualvolta creino nel lavoratore che le subisce uno stato di ansia ovvero di paura per la propria incolumità o ancora costringano lo stesso ad alterare le abitudini di vita.

Il caso affrontato ha riguardato il presidente di una società che veniva ritenuto responsabile del reato aggravato di atti persecutori per aver reiteratamente minacciato di licenziamento i dipendenti della stessa società e per averli più volte denigrati, anche attraverso il ripetuto recapito di ingiustificate e pretestuose contestazioni di addebito disciplinare.

A fondamento della decisione, la Corte d’Appello deduceva che l’imputato, sfruttando la posizione di supremazia nei confronti dei lavoratori, aveva ingenerato nei medesimi un duraturo e perdurante stato di ansia e di paura così da costringerli ad alterare le loro abitudini di vita.

Avverso la sentenza veniva proposto ricorso dal presidente della società, in ragione del fatto che il clima ostile sopravvenuto, avallato tra l'altro dallo stesso consiglio di amministrazione, era da ascrivere alla riluttanza dei dipendenti nell'osservare le nuove direttive finalizzate al miglioramento della produttività.

La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso proposto, rileva, preliminarmente, che integra il delitto di atti persecutori la condotta di mobbing del datore che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell'esprimere ostilità verso il dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell'ambiente di lavoro. A tal fine, per la sentenza, detti atteggiamenti – che ben possono essere rappresentati dall'abuso del potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi – devono determinare un ostacolo alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall'art. 612-bis c.p.

Secondo i Giudici di legittimità, per l’integrazione del reato è sufficiente il dolo generico, ossia è richiesta la mera volontà di attuare reiterate condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero ad ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto oppure a costringere la persona offesa ad alterare le proprie abitudini di vita.

Si conclude poi, che le esigenze imprenditoriali di efficienza ed efficacia seppur legittime, non giustificano in alcun modo la violazione della dignità del lavoratore che, prima di tutto, è persona. Neppure la condivisione da parte del consiglio di amministrazione di determinate pratiche può sollevare l'imputato da qualsivoglia tipo di responsabilità, semmai estendendo il centro di imputazione ai membri dello stesso.

 

LA CONTABILITA’ E’ INATTENDIBILE SE MANCANO I LIBRI OBBLIGATORI – IL REGIME DEL MARGINE, COME DISCIPLINA SPECIALE, VA SEMPRE INDICATO IN FATTURA

CORTE DI CASSAZIONE –ORDINANZA 12330 del 14/04/2022

L’obbligatorietà di tenuta dei libri obbligatori statuita dall’art.2214 del c.c. è condizione sufficiente a ritenere la contabilità di un’impresa inattendibile, e quindi giustifica il ricorso al metodo induttivo per la ricostruzione dei redditi.

La Corte di Cassazione torna con questo enunciato a ribadire l’obbligatorietà della tenuta dei libri contemplati nel codice civile, in mancanza di uno dei quali la contabilità può ritenersi nel complesso inattendibile.

La questione nasce da un accertamento induttivo nei confronti di un contribuente esercente attività di rivendita di autovetture usate, basato sul mancato rinvenimento, e sulla mancata successiva produzione, del libro inventari, da cui poter ricavare l’importo delle rimanenze finali. La mancanza di tale documento, nel corso del dibattimento di primo e secondo grado, si asseriva sostituito dal registro di carico e scarico (dei beni usati), dal quale individuare le autovetture ancora in giacenza al termine dell’esercizio, con accanto annotato il valore.

In effetti sia i giudici della Commissione Tributaria Provinciale, sia successivamente i giudici della Commissione Tributaria Regionale, avevano avallato il comportamento dell’azienda, negando “che le violazioni riscontrate dagli accertatori fossero così gravi, ripetute e numerose da rendere inattendibile la contabilità della ditta e da giustificare la ricostruzione induttiva della base imponibile”.

Di parere contrario è invece la Suprema Corte, secondo cui, come da consolidata giurisprudenza, l’intera contabilità in siffatti casi è da ritenersi inattendibile “allorché vi sia omessa o irregolare tenuta delle scritture ausiliarie di magazzino, non potendosi in tal caso procedere alla corretta analisi del contenuto dell’inventario e dunque alla ricostruzione analitica dei ricavi di esercizio.” Ulteriore anomalia riscontrata dai verificatori era poi la mancata annotazione, nei documenti attivi emessi dall’impresa,  dell’indicazione che le operazioni di vendita fossero soggette al Regime del Margine, particolare metodo di determinazione del ricavo dalla vendita di beni usati o di oggetti d’arte (analitico o globale), consistente nel calcolo del ricavo e della relativa IVA sulla differenza tra costo d’acquisto e prezzo di vendita al netto delle spese sostenute per eventuali riparazioni.

In fatti, fanno notare gli Ermellini, “«In tema d’Iva, il regime del margine di utile di cui all’art. 36 del d.l. n. 41 del 1995, conv. con modif. nella l. n. 85 del 1995, rappresentando un regime speciale, derogatorio dell’ordinaria disciplina fiscale degli acquisti intracomunitari, impone che il contribuente provi la sussistenza dei relativi presupposti di fatto, per cui l’indicazione sulla fattura del cedente della dicitura regime del margine oggetti d’arte (oppure da collezione o di antiquariato o beni d’occasione) non può ritenersi un mero elemento formale, impedendo la sua omissione la prova del requisito d’ordine soggettivo.»”

Conclude quindi la Corte di Cassazione per il rinvio della decisione alla CTR in diversa composizione.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
     Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 9 Maggio 2022