15 Maggio 2023

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

IL RIFIUTO DI ESEGUIRE IL LAVORO STRAORDINARIO

SENTENZA N. 10623 CASSAZIONE CIVILE SEZ. LAV. 20/04/2023

Le modalità di determinazione ed esecuzione del lavoro straordinario possono essere oggetto di contrattazione collettiva, sicché è piena facoltà del datore di lavoro ordinare l'esecuzione di lavoro straordinario, nei limiti previsti dalla contrattazione collettiva (fattispecie relativa al licenziamento comminato a un lavoratore che aveva, più volte, rifiutato di eseguire delle ore di lavoro straordinario, integrando così una condotta insubordinata e recidiva).

Così ha statuito la Cassazione nella sentenza in oggetto che ha avuto come punti focali l’art. 5 del D.Lgs 66/2003 e l’art. 7 del CCNL Industria metalmeccanica. La questione riguardava un lavoratore che si è sistematicamente rifiutato di effettuare il lavoro straordinario che l’azienda aveva chiesto ai suoi dipendenti a mezzo di un orario affisso nei locali aziendali.   La Suprema Corte, nel rigettare per inammissibilità tutti i motivi di merito, ha però chiarito che la richiesta di lavoro straordinario va fatta nei limiti del CCNL e che al datore di lavoro spetta provare il rifiuto del lavoratore e a quest’ultimo di essersi rifiutato per motivi legittimi. Nella fattispecie mentre la parte datoriale ha provato che il lavoro non è stato effettuato il lavoratore non ha provato le eccezioni alla base del rifiuto, nel caso il superamento della quota esente. La Cassazione ha, quindi, ravvisato scarso spirito collaborativo del lavoratore verso l’azienda e disinteresse per il suo buon andamento. Tali comportamenti, però, sono stati ritenuti integranti gli estremi del grave inadempimento e non della insubordinazione per cui il licenziamento è stato qualificato come motivato da giustificato soggettivo e non da giusta causa, come invece comminato dal datore di lavoro, con conseguente diritto all’indennità di preavviso.

RIENTRANO NELLA CATEGORIA DEI DPI GLI INDUMENTI DI LAVORO CHE ASSOLVANO ALLA FUNZIONE DI PROTEZIONE DEL LAVORATORE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 10128 DEL 17 APRILE 2023

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 10128 del 17 aprile 2023, statuisce che gli indumenti da lavoro rientrano nella categoria dei DPI, se non hanno mera funzione di uniforme aziendale, ma anche la finalità di tutelare la salute e la sicurezza del lavoratore.

Nel caso de quo, un lavoratore addetto alla raccolta, al trasporto ed allo smaltimento dei rifiuti urbani, ricorreva giudizialmente contro il datore di lavoro per ottenere il risarcimento dei danni da inadempimento all'obbligo di lavaggio e manutenzione degli indumenti di lavoro, quali dispositivi di protezione individuale. La Corte D’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda di risarcimento, escludendo che la classificazione delle attrezzature come DPI potesse dipendere da una scelta unilaterale del datore di lavoro effettuata attraverso il documento di valutazione dei rischi, giacché l’art. 40 del D. Lgs. n.  626/1994 escludeva che gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi potessero essere ricondotti alla definizione di DPI.

Avverso la sentenza, il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione. La Suprema Corte, ribaltando la sentenza di merito, afferma che la nozione legale DPI non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute, ma va estesa a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore. In particolare, il riferimento a qualsiasi attrezzatura o complemento o accessorio deve essere inteso nella sua più ampia latitudine, in ragione del bene tutelato, rappresentato dal diritto alla salute, costituzionalmente garantito quale diritto fondamentale. Nel caso in esame appare evidente che gli indumenti non assolvono unicamente alla funzione di uniforme aziendale, ma hanno lo specifico scopo di prevenire l’insorgenza di infezioni, e quindi di tutelare la salute del lavoratore. Da questa circostanza consegue l’obbligo a carico del datore di lavoro, non solo della continua fornitura degli indumenti, ma anche del mantenimento in stato di efficienza degli stessi, in quanto inquadrabili nella categoria dei DPI.

PRESCRIZIONE DEI CREDITI RETRIBUTIVI NEL PUBBLICO IMPIEGO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 6051/2023 DEL 28 FEBBRAIO 2023

La Corte di Cassazione, con ordinanza interlocutoria n. 6051, depositata il 28 febbraio 2023, ha rinviato alle Sezioni Unite le seguenti questioni di massima di particolare importanza:

a) se la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dalla fine del rapporto di lavoro, a termine o a tempo indeterminato, o, in caso di successione di rapporti, dalla cessazione dell'ultimo, come accade nel lavoro privato;

b) se, nell'eventualità di abuso nella reiterazione di contratti a termine, seguita dalla stabilizzazione presso la stessa P.A. datrice di lavoro, la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dal momento di tale stabilizzazione;

c) se la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato, nell'ipotesi sub d), sia comunque preclusa, interrotta o sospesa ove la P.A. neghi il riconoscimento del servizio pregresso dei dipendenti.

Nel caso in esame un ricercatore chiedeva che fosse accertato il suo diritto all'inquadramento nella fascia stipendiale superiore a quella di assunzione che avrebbe maturato considerando, per intero, il periodo di lavoro a tempo determinato precedente la stabilizzazione disposta ex L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 519, con condanna dell'INAIL a ricostruire l'anzianità di servizio ed a corrispondere le conseguenti differenze retributive maturate e maturande.

Il Tribunale di primo grado accoglieva il ricorso rigettando l'eccezione di prescrizione sul presupposto che il relativo dies a quo non potesse che decorrere dal momento della stabilizzazione del rapporto di lavoro in quanto durante la pendenza dei rapporti di lavoro a termine il dipendente non ha la certezza della loro continuazione e si trova in una condizione di metus nei confronti del datore di lavoro, tipica dei rapporti senza stabilità. L’INAIL ricorreva in Appello lamentando la violazione degli artt. 2941, 2942 e 2948, n. 4, c.c. in quanto dalla documentazione prodotta emergeva che fra le parti erano intercorsi dei rapporti di lavoro a tempo determinato del tutto regolari, dotati di stabilità reale, con la conseguenza che la prescrizione del diritto menzionato sarebbe iniziata a decorrere da prima della regolarizzazione.

La Suprema Corte, adita dall’Istituto assicurativo a seguito del rigetto in Appello, con un excursus storico preliminarmente osservava che l'orientamento giurisprudenziale tradizionale, secondo cui la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori il cui rapporto sia assistito dalla c.d. stabilità reale (quale originariamente prevista) e dei lavoratori a tempo determinato nel pubblico impiego decorre in costanza di rapporto, si era formato principalmente negli anni ‘60 e ’70, ma l’evoluzione del contesto socioeconomico nel tempo ha influito sui presupposti di tali decisioni. Il presupposto per affermare la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto risiedeva nell’assunto che, nei contratti a termine, "la non rinnovazione del rapporto si configurava quale evento avente carattere di normalità", il che escluderebbe il metus. Oggi, al contrario, tale rinnovazione è la prassi, sia nell'impiego privato che nel pubblico, ne consegue che è impensabile escludere ormai, nei contratti a tempo determinato, l'esistenza di un metus del lavoratore sull'assunto che egli non ha aspettative in ordine alla conclusione di un contratto a tempo indeterminato. L’emanazione prima della Legge Fornero e poi del D.Lgs. n. 23 del 2015 ha di fatto inciso sul tema portando ormai ad escludere, per i lavoratori privati, il regime della stabilità reale, con l'effetto che il termine di prescrizione oggetto di causa torna a decorrere per loro dalla fine del rapporto, essendo venuta meno la tutela fornita dalla L. n. 300 del 1970, in termini di "stabilità reale" generalizzata. Non può sottovalutarsi, poi – continuava la Cassazione – che la semplice c.d. stabilità reale non costituisce valido strumento di difesa contro la pluralità di strumenti ritorsivi nella disponibilità del datore di lavoro e la situazione diventa ancora più complessa nei casi di rapporti a termine con la P.A., abusivamente reiterati nel tempo, che si traducano nell'instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato a seguito di una procedura di stabilizzazione, come nella controversia in trattazione.

La reiterazione dei contratti a termine con le modalità esposte, sia ove seguita dalla stabilizzazione, sia qualora superi le tempistiche di legge, non può, dunque, essere compatibile, in base ad una valutazione ex ante, con il decorso della prescrizione dei crediti retributivi in costanza di rapporto Ciò in quanto, osservava la Suprema Corte, in primo luogo, essa comporta “la nascita di un metus oggettivo del lavoratore in ordine all'esercizio di siffatti crediti, atteso che la detta reiterazione crea, un assoggettamento del dipendente dalla P.A., che ben potrebbe cessare di confermarlo (legittimamente) senza regolarizzarlo”. Inoltre “poiché, in questa maniera, è istituzionalizzata una condizione di strutturale inferiorità del medesimo lavoratore, che esegue la sua prestazione sperando di beneficiare di una procedura di stabilizzazione, rispetto al datore di lavoro, condizione che va ben oltre il metus ed è incompatibile con l'applicazione ai contratti de quibus delle comuni regole civilistiche, anche sulla prescrizione, basate sulla parità fra le parti negoziali”.

Nella presente controversia, la singolarità da valorizzare era rappresentata dalla condotta della P.A. la quale, pur essendo a conoscenza della pregressa attività come ricercatore a tempo determinato del suo dipendente, poi assunto in seguito ad una procedura di stabilizzazione a tempo indeterminato, aveva omesso il riconoscimento della relativa anzianità di servizio, così azzerando completamente l'anzianità relativa al servizio prestato. L'affermazione della decorrenza in costanza di rapporto della prescrizione, quindi, agevolerebbe oltremodo un soggetto, come la P.A., che, invece di riconoscere il servizio pregresso in base ad una normativa, anche unionale, che era tenuta ad applicare, aveva consapevolmente negato i diritti del suo dipendente, rendendone più difficile l'esercizio.

Sarebbe pertanto preferibile un'interpretazione della normativa vigente che individuasse il momento a partire dal quale i diritti de quibus sono divenuti esercitabili in quello della regolarizzazione, in risposta alla mancanza di correttezza del datore di lavoro. Affermare, quindi, che la Pubblica amministrazione, in circostanze come quelle in esame, può beneficiare della  decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto, rischierebbe di consentire un vero e proprio abuso del diritto, che si tradurrebbe in una violazione non solo degli artt. 9 e 37 della Costituzione  e dei principi di correttezza e buona fede che la Pubblica Amministrazione deve rispettare nel suo ruolo di datore di lavoro, ma anche della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e, soprattutto, del diritto UE in materia di contratti di lavoro a termine e delle relative sentenze della CGUE.

Per questi motivi la Corte disponeva la trasmissione del procedimento alle Sezioni Unite.

IL LICENZIAMENTO PER ELEVATA MORBILITA’ DEL LAVOROATORE E’ LEGITTIMO SONO IN CASO DI SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 11174 DEL 27 APRILE 2023

La Corte di Cassazione, sentenza n° 11174 del 27 aprile 2023, ha ribadito che il licenziamento connesso all’elevata morbilità del lavoratore è legittimo esclusivamente nel caso in cui si superi il periodo di comporto, indipendentemente dal fatto che la prestazione resa in maniera intermittente, per effetto delle assenze, risulti scarsamente utile e poco proficua.

La decisone in argomento ha riguardato l’impugnazione giudiziale del licenziamento intimato alla lavoratrice per g.m.o., ovvero per scarso rendimento. Secondo l’azienda, l’elevato numero di assenze in combinazione con le modalità in cui si articolavano -di conseguenza- i tempi di lavoro e non lavoro incidevano oggettivamente e apprezzabilmente sulla prestazione rendendola inutilizzabile. In primo grado, il Tribunale accertava l’illegittimità del licenziamento condannando la società al pagamento di una indennità risarcitoria, mentre la Corte di Appello –in parziale riforma della sentenza- aveva disposto, oltre al risarcimento, anche la reintegra nel posto di lavoro. La società datrice ricorreva in Cassazione lamentando l’erronea configurazione della condotta da parte dei Giudici, ascrivibile non a violazione dell’art. 2110 c.c. (licenziamento illegittimo per mancato rispetto dei termini del periodo di comporto) quanto alla fattispecie delineata dall’art. 3 della Legge 604/1966 (licenziamento per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali).

I Giudici di piazza Cavour hanno rilevato, preliminarmente, che il licenziamento per scarso rendimento è riconducibile ad una ipotesi di giustificato motivo soggettivo che si legittima qualora il grave inadempimento contrattuale sia imputabile al lavoratore, mentre il licenziamento connesso all’elevata morbilità è qualificabile come un particolare tipo di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, donde la malattia del prestatore rappresenta sì causa ostativa al lavoro ma oggettivamente non derivante da sua volontà. La ratio alla base dell’istituzione di un periodo di comporto è quella di fissare il limite massimo di tollerabilità dell’assenza per morbilità, in modo da bilanciare, da una parte, l’interesse del datore a perseguire proficuamente gli obiettivi aziendali nel pieno dispiegamento della propria libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) mantenendo alle proprie dipendenze solo chi produce e, dall’altro, il diritto del prestatore alla salute (art. 32 Cost.) in combinazione con il diritto al lavoro (art. 4 cost.) da conservare per un periodo di tempo ragionevole, servente al lavoratore cagionevole di curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento.

Gli Ermellini, poi, nel confermare un orientamento giurisprudenziale radicato e stratificato nel tempo, hanno sottolineato che, ogniqualvolta sussista un collegamento tra il licenziamento e le assenze per malattia del lavoratore, le regole dettate dall’art. 2110 c.c. prevalgono, in quanto speciali, sulla disciplina dei licenziamenti individuali e che il licenziamento irrogato prima del superamento del periodo massimo di comporto è nullo per violazione di norma imperativa.

IL DELITTO DI DICHIARAZIONE INFEDELE SI CONFIGURA ANCHE SE SONO STATI OMESSI I DATI NUMERICI NELLE DICHIARAZIONI FISCALI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZ. 3^ – PENALE – SENTENZA N. 18532 DEL 4 MAGGIO 2023

La Corte di Cassazione – sez. penale – sentenza n°18532 del 4 maggio 2023 – ha statuito, in relazione al superamento delle soglie ex art. 4, D.Lgs. 10 marzo 2000, n°74, che nelle ipotesi di mancata compilazione dei quadri delle dichiarazioni fiscali occorre comunque verificare il superamento della soglia rappresentata dal rapporto superiore al 10% tra imponibile non dichiarato e totale degli elementi attivi riportati in dichiarazione.

Nel caso in esame, il Tribunale di Brescia, all'esito di rito abbreviato, assolveva un contribuente, per fatto insussistente, dal reato di cui al D.Lgs. n°74 del 2000, articolo 4. In particolare, il contribuente nel proprio modello unico aveva omesso l'indicazione dei dati relativi all'Iva, compilando la dichiarazione solo in relazione ai quadri NS, RG e VA; ulteriori controlli, eseguiti tramite spesometro avevano poi consentito di accertare che l'impresa aveva avuto rapporti commerciali con altri soggetti, sicché era stato appurato che la ditta aveva emesso fatture per complessivi 1.036.711 euro, con Iva pari a 217.593 Euro. Tanto chiarito, il primo Giudice aveva statuito il superamento della soglia di rilevanza penale del fatto ex art. 4 del D.Lgs. citato, nella versione ante modifiche ad opera della Legge n°157/2019. Ad avviso del Tribunale, tuttavia, difettava nella vicenda in esame la prova del superamento della seconda soglia di rilevanza penale del fatto, ossia che gli elementi attivi omessi superassero del 10% il totale degli elementi attivi indicati nella dichiarazione, o che comunque fossero superiori a tre milioni di euro, ciò in quanto "non si rinviene copia della dichiarazione dei redditi fatta o accenno agli importi indicati dal contribuente".

A conclusioni differenti è invece pervenuta la Corte di Appello, con sentenza di condanna del contribuente alla pena di anni 2 di reclusione. Nell'accogliere l'impugnazione del Procuratore generale, infatti, i giudici di secondo grado, avevano statuito che nel caso di specie doveva ritenersi integrata anche la seconda soglia di punibilità, risultando provata la mancata compilazione della dichiarazione nelle sue parti essenziali: dunque, mancando nella dichiarazione – pur formalmente inoltrata – l'indicazione di elementi attivi, doveva ritenersi certamente superata anche la soglia di punibilità ex D.Lgs. n°74 del 2000, articolo 4 lettera b.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il contribuente

Orbene, la Suprema Corte  ha respinto il ricorso confermando che l’art.4 in questione, nella formulazione attuale,  sanziona la condotta di chi, fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente: a) l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a Euro centomila; b) l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a Euro due milioni.

All’uopo, hanno concluso gli Ermellini,  la mancata compilazione delle voci della dichiarazione riguardanti elementi essenziali ai fini della determinazione complessiva del reddito e dei conseguenti importi dovuti a titolo di imposte non può essere qualificata come una condotta neutra, contribuendo al contrario a delineare la infedeltà della dichiarazione fiscale, essendo di fatto assimilabile a una dichiarazione negativa l'omessa compilazione delle singole voci concernenti il valore del reddito imponibile e dell'Iva.

Ad maiora

Il Presidente
Fabio Triunfo

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Gennaro Salzano, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino

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Modificato: 1 Agosto 2023