29 Maggio 2017

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE SE LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA PREVEDE UNA SANZIONE CONSERVATIVA QUALE CONSEGUENZA AD UNO SPECIFICO COMPORTAMENTO DEL DIPENDENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 11027 DEL 5 MAGGIO 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 11027 del 5 maggio 2017, ha statuito che il recesso datoriale per giusta causa è da ritenersi illegittimo se, a fronte di un determinato comportamento del prestatore, il contratto collettivo prevede “solo” l'applicazione di una sanzione di tipo conservativo.

Nel caso de quo, un dipendente, all'esito del procedimento disciplinare, veniva licenziato per giusta causa a seguito di una (presunta) insubordinazione.

Il prestatore adiva la Magistratura evidenziando che non vi era stata alcuna insubordinazione ma un “semplice” alterco con il datore di lavoro e che il contratto collettivo, applicato al rapporto di lavoro, prevedeva una sanzione di tipo conservativo per quella specifica tipologia di infrazione disciplinare.

L’azienda datrice di lavoro ricorreva in Cassazione stante i contrasti dei gradi di merito: pro-datore in I° grado, pro-lavoratore in Appello.

Orbene, gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum dei Giudici territoriali, hanno sottolineato che laddove la contrattazione collettiva di riferimento preveda una sanzione conservativa, a fronte di uno specifico comportamento negligente del prestatore, è illegittimo l'eventuale atto di recesso posto in essere dal datore di lavoro.

Pertanto, atteso che nel caso in disamina, il “fatto” contestato era stato ritenuto dai Giudici quale “semplice” alterco, e non insubordinazione, e che il c.c.n.l. per l'industria di carta e cartone, applicabile al rapporto lavorativo de quo, preveda l'applicazione di una sanzione di tipo conservativo, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno rigettato il ricorso confermando l'illegittimità del licenziamento disciplinare irrogato dall'azienda datrice di lavoro.

 

IL TERMINE PER LA COMUNICAZIONE EX ART. 4 COMMA 9, LEGGE 223/91 E’ ESSENZIALE ANCHE NEL CASO DI LICENZIAMENTO COLLETTIVO PER CESSAZIONE DELL’ATTIVITA’ AZIENDALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 11404 DEL 10 MAGGIO 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 11404 del 10 maggio 2017, ha statuito, in tema di licenziamento collettivo, che il termine previsto dall’art. 4, co. 9, legge n° 223/91, pari a sette giorni è un elemento di garanzia, essenziale anche nei casi di cessazione dell’attività aziendale.

Nel caso de quo, una società in liquidazione, all’esito di una procedura ex legge n° 223/91, per cessazione dell’attività aziendale, aveva ritardato di oltre due mesi la comunicazione di rito ex art. 4, co. 9 della legge citata, da effettuarsi entro sette giorni dalla comunicazione dei licenziamenti, con l’indicazione dei lavoratori licenziati, del nominativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell'età, del carico di famiglia, nonché con puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all'art. 5, co. 1. La comunicazione, in particolare, doveva essere effettuata per iscritto ai competenti uffici del lavoro e alle associazioni di categoria.

La Corte d’Appello di Napoli aveva dichiarato l’illegittimità dei licenziamenti intimati e condannato la società al risarcimento del danno pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società duolendosi dell’attribuita essenzialità del termine in presenza di chiusura dell’attività aziendale, con conseguente azzeramento dell’intero organico; all’uopo non vi era alcuna esigenza di comparazione tra i lavoratori e, dunque, il ritardo nell’invio della comunicazione non sarebbe giammai potuto risultare di pregiudizio.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha rimarcato che la scelta dell’imprenditore di cessare l’attività costituisce esercizio incensurabile della libertà di impresa, garantita dall’art. 41 Cost., con la conseguenza che la procedimentalizzazione dei licenziamenti collettivi che ne conseguono, ex artt. 4 e 24 della legge n° 223/91, ed in particolare, l’obbligo della comunicazione dei motivi della scelta, hanno la funzione di consentire il controllo sindacale sulla effettività della scelta medesima, allo scopo di evitare elusioni del dettato normativo concernenti i diritti dei lavoratori alla prosecuzione del rapporto nel caso in cui la cessazione dissimuli la cessione di azienda.

Pertanto, hanno concluso gli Ermellini, il requisito formale del termine per la comunicazione de qua, richiesto a pena di inefficacia del licenziamento medesimo, deve essere valutato in modo rigido, ineludubile ed analitico.

 

NULLO L’ACCERTAMENTO TRIBUTARIO CHE BASANDOSI ESCLUSIVAMENTE SUGLI STUDI DI SETTORE NON TENGA CONTO DELLA CONCORRENZA ESISTENTE NEL SETTORE D’ATTIVITA’.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 9932 DEL 19 APRILE 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 9932 del 19 aprile 2017, ha affermato che gli accertamenti basati sugli studi di settore devono riportare il periodo considerato e le imprese prese a confronto con quella del contribuente, in mancanza di tali prove, l’accertamento è nullo.

Nel caso in specie, l’Agenzia delle Entrate aveva effettuato un accertamento induttivo nei confronti di un’impresa individuale svolgente attività di ristorazione di cibi da asporto, ritenendo inattendibile il reddito dichiarato ed antieconomica l’attività svolta.

In particolare, partendo dal dato di tale antieconomicità, l’Agenzia aveva ritenuto, utilizzando le risultanze degli studi di settore, che le percentuali di ricarico indicate dall’impresa individuale dovessero essere aumentate del 200%, determinando, in tal modo, un maggiore reddito, su cui veniva recuperata una maggiore imposta.

Il contribuente impugnava prontamente l’atto impositivo dinanzi alla giustizia tributaria, ottenendo ragione delle sue tesi dai Giudici di merito che, in grado di appello, ritenevano ingiustificata ed anche non provata adeguatamente la percentuale di ricarico del 200%, stabilendo come congrua la diversa percentuale del 100%.

L’Agenzia proponeva ricorso per Cassazione, denunciando omessa motivazione in quanto la CTR aveva deciso l’infondatezza della percentuale di ricarico stimata senza tenere conto degli elementi offerti dall’Agenzia stessa, e senza motivare dunque sulla loro irrilevanza, stabilendo apoditticamente che la percentuale doveva essere della metà.

Orbene, gli Ermellini, con la sentenza de qua, hanno respinto il ricorso delle Entrate, confermando la decisione dei Giudici di merito, i quali avevano ritenuto eccessiva la stima delle Entrate, data la presenza di un numero elevato di concorrenti nella zona considerata e non sufficientemente motivata la decisione del fisco, in quanto nell’accertamento non venivano precisate le imprese assunte a confronto con quella del contribuente.

Pertanto, hanno precisato i Giudici delle Leggi, la C.T.R. non si è sottratta all’onere della motivazione, in quanto non ha mancato di indicare gli elementi che le hanno consentito di disattendere la valutazione operata dal fisco in ordine ai ricarichi attribuiti al contribuente. La Commissione aveva più semplicemente sostenuto l’insufficienza della prova fornita, perché lo stesso studio di settore non indicava il periodo considerato e le imprese prese a confronto.

Per le considerazioni di cui sopra ne è derivato il rigetto del ricorso del fisco, con condanna al pagamento delle spese del giudizio.

 

ACCERTAMENTO NULLO IN PRESENZA DI RICAVI DICHIARATI LEGGERMENTE INFERIORI RISPETTO A QUELLI ATTESI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 10271 DEL 26 APRILE 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 10271 del 26 aprile 2017, ha statuito che è nullo l’accertamento nel caso in cui i ricavi dichiarati dal contribuente sono solo di qualche punto inferiore rispetto a quelli attesi dagli standard dell’Agenzia delle Entrate. Ai fini della validità dell’atto impositivo è oltremodo necessaria una grave incongruenza.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, ribaltando completamente il verdetto di merito, hanno accolto in toto le doglianze di una società di persone umbra che aveva dichiarato dei ricavi in misura superiore ai limiti minimi ammissibili, ma lievemente inferiore rispetto ai ricavi puntuali attesi dagli studi di settore. Pertanto, l’Amministrazione Finanziaria, pur in presenza di un’incongruenza non grave, aveva chiesto le maggiori imposte con le relative sanzioni, derivanti dallo specifico modello settoriale.

Per gli Ermellini, ex adverso, la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri ovvero degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standard in sé considerati, che sono  meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività ma, nasce esclusivamente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente con il contribuente, pena la nullità dell’accertamento.

Tuttavia, il risultato del contraddittorio de quo non condiziona in nessun modo, l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il Giudice Tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso specifico, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici.

 

LA DISPONIBILITA' ALL'ASSUNZIONE NON SI TRADUCE IN UNA PROPOSTA IDONEA A PERFEZIONARE IL CONTRATTO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 11908 DEL 12 MAGGIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 11908 del 12 maggio 2017, ha statuito che la particolarità del rapporto di lavoro subordinato impone che la comunicazione di interesse all'assunzione non si traduce in un’automatica assunzione, dovendosi necessariamente valutare tutti i fatti e circostanze della fattispecie.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Firenze, in riforma della sentenza resa dal Tribunale di Livorno,  accoglieva l'appello del Banco di Sardegna, accertando nei fatti che la Banca aveva solo comunicato l'interesse alla conclusione del contratto di lavoro, non potendosi definire proposta completa. I fatti in commento attengono alla vicenda di un ex dipendente di Banca Toscana che aveva taciuto i veri motivi della cessazione del rapporto di lavoro, non per dimissioni volontarie, bensì per gravissimi illeciti disciplinari con causa penale pendente. Circostanze che hanno convinto la nuova banca a non formalizzare il contratto.

Nel caso de quo, gli Ermellini, nel confermare il ragionamento logico giuridico dei Giudici dell'Appello, hanno osservato che la banca proponente aveva usato chiare locuzioni nella lettera, quali: “eventuale assunzione” e “eventualmente“ la data in cui il lavoratore sarebbe stato libero da impegni di lavoro. Dunque, una chiara situazione in cui emergono solo passaggi parziali dell'azienda in fase pre-assuntiva, che si sarebbero completati con la valutazione della documentazione chiesta al lavoratore.

In conclusione, il tenore della lettera è chiaramente una manifestazione di disponibilità propedeutico ai passaggi successivi e non certo vincolante contrattualmente. Inoltre, la particolarità del contratto di lavoro consente ai contraenti di considerare ogni elemento utile ad escludere l'equivocità della manifestazione dei consensi nella quale il contratto di lavoro trova la sua fonte genetica.

Ad maiora
IL PRESIDENTE

EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!
 

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 29 Maggio 2017