24 Maggio 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI APRILE  2021

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Aprile 2021. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Aprile 2021 è pari a 1,526393e l’indice Istat è 103,70
 

L'ACCERTAMENTO DEI FATTI E LA COMPLESSITA' DELLA STRUTTURA ORGANIZZATIVA COSTITUISCONO VALIDE RAGIONI PER GIUSTIFICARE IL RITARDO DELL'AVVIO DEL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 9657 DEL 13 APRILE 2021.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 9657 del 13 aprile 2021, ha statuito, in tema di tempestività della contestazione disciplinare, che la ratio del principio di immediatezza è individuata nella connessione dell'onere di tempestività al principio di buona fede oggettiva.
Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Napoli aveva rigettato il reclamo proposto dal direttore di un ufficio postale avverso la sentenza di primo grado che lo aveva visto soccombere in ordine alla paventata richiesta di illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo soggettivo. La Corte aveva escluso la tardività della contestazione disciplinare del 9 febbraio 2015 rispetto alla commissione dei fatti avvenuti nel periodo gennaio 2013 – febbraio 2014 per la complessità degli accertamenti e la peculiarità degli addebiti. Nel merito, la Corte partenopea riteneva congruo il lasso temporale intercorso, in relazione alla articolata verifica compiuta dal datore in ordine alla commissione di reiterate (in numero di 128) operazioni sospette di prelievo su conti intestati ad un cliente, nonché per aver consentito prelievi di cospicuo importo senza la prescritta autorizzazione.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il lavoratore deducendo, tra gli altri motivi di doglianza, violazione e falsa applicazione della L. n°300 del 1970, art.7, in relazione al principio di immediatezza della contestazione disciplinare che, invero, si basava su fatti noti da tempo da parte dei superiori gerarchici, nonché, eccependo violazione del principio di proporzionalità, non ricorrendo i presupposti della sanzione espulsiva comminata come declinata dall'art. 54 del CCNL applicato.
Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso avallando l'operato della Corte di merito che aveva correttamente applicato il principio di immediatezza, la cui ratio è individuata nella connessione dell'onere di tempestività al principio di buona fede oggettiva e più specificamente al dovere di non vanificare la consolidata aspettativa, generata nel lavoratore, di rinuncia all'esercizio del potere disciplinare.
Tale principio, hanno continuato gli Ermellini, è declinato, in materia di licenziamento disciplinare e con specifico riferimento alla contestazione, in senso relativo, a motivo delle ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l'accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell'impresa, ferma la valutazione delle suddette circostanze riservata al Giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici.
Parimenti, hanno concluso gli Ermellini, in ordine al secondo motivo di doglianza, il giustificato motivo soggettivo, al pari della giusta causa di licenziamento, è nozione legale rispetto alla quale non sono vincolanti le previsioni dei contratti collettivi, che hanno valenza esemplificativa, con il solo limite all'irrogazione di un licenziamento per giusta causa quando costituisca più grave sanzione di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione.
 

LEGITTIMO L’ACCERTAMENTO DEL FISCO IN PRESENZA DI FATTURE GENERICHE E DI IMPORTO BASSO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 13085 DEL 14 MAGGIO 2021
La Corte di Cassazione -Sezione Tributaria-, ordinanza n° 13085 del 14 maggio 2021, ha statuito che è legittimo l'accertamento fiscale a carico del professionista che emette fatture in maniera generica e di importo troppo basso; pertanto, l’Agenzia delle Entrate può ritenere rilevanti le medie di settore e l'irragionevolezza dei ricavi rispetto ai costi.
Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour hanno respinto il ricorso di un professionista del settore sanitario che aveva emesso fatture più basse di circa il 19% rispetto alle medie di zona, con indicazioni nei documenti contabili molto generiche. Infatti, l’Agenzia delle Entrate aveva determinato il reddito dello stesso sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti consistenti nella bassa redditività dell'attività professionale rispetto alla media zonale, prestazioni effettuate indicate con estrema genericità nei documenti fiscali, alta incidenza del personale, rispetto alla media.
Inoltre, la sezione tributaria degli Ermellini ha evidenziato che il ricorso all'accertamento analitico-induttivo è legittimo quando, pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, la contabilità dell'impresa possa considerarsi complessivamente inattendibile, perché configgente con i criteri di ragionevolezza, sotto il profilo dell'antieconomicità del comportamento del contribuente.
Con l’ordinanza de qua, è stato ritenuto, pertanto, pienamente legittimo l’accertamento che considerava irragionevole sia la percentuale di ricarico applicata dal professionista che l'alta incidenza del costo del personale, tutte presunzioni che sia valutate singolarmente, che nella loro interazione, erano in grado di dimostrare l'inattendibilità delle scritture contabili obbligatorie.
In nuce, per la S.C., nel caso specifico è consentito all'Amministrazione Finanziaria dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e accertare, anche in via presuntiva, determinando il reddito dell'impresa, con conseguente spostamento dell'onere della prova sul contribuente.
 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA DEL DIPENDENTE CHE FA SHOPPING CON IL DENARO DEL DATORE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 12641 DEL 12 MAGGIO 2021
La Corte di Cassazione, sentenza n° 12641 del 12 maggio 2021, ha dichiarato legittimo il licenziamento di un dipendente che aveva effettuato una serie di acquisti di elettrodomestici spendendo il nome dell’Università datrice di lavoro ed addebitandone ad essa il costo. La Corte ha ritenuto, inoltre, ininfluente l’avvenuto risarcimento del danno.
I Giudici di merito, sia in primo grado che in Appello, ritenevano fondata e corretta la sanzione espulsiva riconoscendo evidente la gravità delle azioni compiute dal lavoratore. Quest’ultimo aveva costruito la sua difesa sostenendo che all’epoca dei fatti si trovava in uno stato psicologico di grave turbamento, “tale da incidere sulla capacità di intendere e di volere” determinato dall’essere stato protagonista del naufragio della nave Costa Concordia, a bordo della quale viaggiava.
I Giudici, in particolare quelli di secondo grado, avevano evidenziato che, disposta la consulenza tecnica di ufficio, si era addivenuti alla conclusione che il lavoratore fosse in grado di comprendere il disvalore sociale della sua condotta e di autodeterminarsi nella scelta fra il compiere o meno l’azione; la circostanza tale per cui gli acquisti effettuati con i soldi dell’Università erano stati posti in essere secondo una progettualità meditata e congegnata, inoltre, faceva ritenere che non fosse affetto dalla patologia da shopping compulsivo. I Giudici, pertanto, ritenevano la sua condotta tanto grave da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, sebbene avesse provveduto a risarcire l’Ateneo del danno.
Avverso tale sentenza il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione sostenendo che la patologia da cui era affetto e che era stata riscontrata anche dal CTU, ossia “un disturbo misto ansioso depressivo reattivo ad evento traumatico” non comportava necessariamente l’incapacità assoluta di intendere e di volere bensì un impedimento alla formazione di una volontà cosciente; del resto, sosteneva, solo una patologia poteva spiegare il comportamento di un funzionario che, dopo oltre venti anni di servizio in cui non gli era mai stato mosso alcun rilievo, improvvisamente acquistava un numero considerevole di elettrodomestici (sette televisori, quattro notebook, un congelatore, un frigorifero ed altro) di cui non aveva necessità. Il ricorrente, inoltre, evidenziava che non si era tenuto conto della condotta irreprensibile tenuta nel corso del rapporto di lavoro né dell’avvenuto risarcimento del danno e che, pertanto, la sanzione espulsiva risultava esagerata.
Anche per i Giudici della Suprema Corte risultava determinante la perizia tecnica secondo la quale la patologia da cui il lavoratore era affetto non comportava una diminuzione delle facoltà intellettive tale da far venir meno la capacità di comprendere la gravità degli atti posti in essere. La Corte riteneva corretta anche la valutazione dei Giudici territoriali in merito alla gravità dell’addebito, tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario ed idonea a neutralizzare del tutto sia l’assenza di precedenti disciplinari sia l’avvenuto risarcimento del danno.
In conclusione, la Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato per giusta causa avendo il lavoratore posto in essere una condotta di gravità tale da ledere il rapporto fiduciario, a nulla valendo la mancanza di richiami disciplinari in passato e l’avvenuto risarcimento del danno.
 

LA MANCATA CORRESPONSIONE DELL’INDENNITÀ SOSTITUTIVA DEL PREAVVISO NON ESONERA IL DATORE DI LAVORO DALL’OBBLIGO CONTRIBUTIVO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 12932 DEL 13 MAGGIO 2021
La Corte di Cassazione, sentenza n° 12932 del 13 maggio 2021, ha affermato che la rinuncia all’indennità sostitutiva del preavviso da parte del lavoratore non esclude l’obbligo di versamento dei contributi calcolati su tale somma.
Nel caso de quo, il datore di lavoro agiva in giudizio per chiedere di dichiarare non dovuti i contributi richiesti dall’INPS e calcolati sull’indennità di mancato preavviso, cui alcuni dirigenti in forza presso la società avevano rinunciato a seguito di transazione con la quale avevano concordato la cessazione dal servizio.
La Corte d’Appello rigettava il ricorso, in quanto aveva ritenuto l’indennità di mancato preavviso già acquisita all’interno del patrimonio dei dipendenti, giacché i rapporti di lavoro si erano precedentemente conclusi con il licenziamento dei dirigenti e che la transazione con la quale veniva concordata la risoluzione consensuale del rapporto era intervenuta successivamente, quando il licenziamento aveva già prodotto i suoi effetti.
Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione.
La Suprema Corte, confermando la sentenza della Corte distrettuale, ha affermato, sulla base di precedenti orientamenti giurisprudenziali, che la contribuzione dovuta è calcolata considerando imponibile non la retribuzione di fatto percepita dal lavoratore, ma quella spettante per legge o da contratto collettivo ed individuale.
La disposizione normativa della Legge n. 153/1969 art. 12, infatti, deve essere interpretata, laddove afferma che risulta essere base imponibile tutto quanto percepito dal lavoratore, nel senso di considerare compresi in questa definizione tutti gli emolumenti spettanti in quanto diritto del lavoratore.
Da questa premessa è apparso chiaro ai Giudici di Piazza Cavour che le somme pagate alla stipula di una transazione non dipendono dal contratto di lavoro, ma unicamente dalla volontà delle parti di stipulare l’accordo di transazione.
La volontà delle parti peraltro non ha alcun effetto sull’obbligazione contributiva che sorge ex lege e non sulla base dell’accordo formalizzato con l’atto di transazione. Risulta dunque irrilevante che l’indennità di mancato preavviso nel caso in oggetto non sia stata effettivamente corrisposta al lavoratore, in quanto dal momento in cui il licenziamento produce i suoi effetti sorge il diritto del lavoratore all’indennità, che per il suo valore retributivo genera l’obbligo contributivo sulla stessa.
 

L’ACCESSO AI DATI DEL CASSETTO FISCALE, IN CASO DI REVOCA DELLE AUTORIZZAZIONI, INTEGRA IL REATO DI ACCESSO ABUSIVO A SISTEMA INFORMATICO, PUNIBILE AI SENSI DELL’ART.615-TER C.P.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 15899 DEL 27 APRILE 2021
La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 15899 del 27 aprile 2021, ha statuito che configura il reato previsto dall’art. 615-ter c.p. (Accesso abusivo a sistema informatico) la condotta di chi si introduce nel “cassetto fiscale” altrui, contenuto nel sistema informatico dell’Agenzia delle Entrate, nonostante l'iniziale autorizzazione del titolare, qualora le password siano state cambiate contro la volontà.
Il caso esaminato trae origine dal ricorso di una donna che, dopo aver ricevuto in un primo momento (anno 2006), l'autorizzazione a entrare nel cassetto fiscale della sorella, aveva continuato ad accedere – nonostante il cambiamento delle password da parte della titolare del cassetto (anno 2010) -, allo scopo di continuare a gestire il patrimonio familiare, pur dopo la cessazione della delega ad agire per conto della titolare, a seguito dei dissidi insorti tra loro.
Come noto, l'art. 615-ter c.p. punisce chiunque abusivamente si introduca in un sistema informatico o telematico, protetto da misure di sicurezza, ovvero continui a collegarsi, contro la volontà espressa o tacita di chi abbia il diritto di escluderlo.
Gli Ermellini hanno tratto il loro convincimento da due pronunce delle Sezioni Unite con le quali è stato affermato che integra il delitto in oggetto la condotta di colui che acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto, violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare (Cass. pen., Sez. Un., n. 4694 del 27/10/2011), ovvero di colui che pur essendo abilitato, accede al sistema informatico per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per cui la facoltà gli è attribuita (Cass. pen., Sez. Un., n. 41210 del 18/05/2017).
Ebbene, pur trattandosi di principi elaborati nell’ipotesi di fatto commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, la Corte nomofilattica ha sottolineato che si tratta di affermazioni con valenza generale che possono essere esportati anche in ambiti privati e familiari, come nel caso di specie, ed anche il c.d. “cassetto fiscale” rientra nell'alveo della nozione di domicilio informatico alla cui inviolabilità è diretta la tutela penale del precetto di cui all'art. 615-ter c.p.
Peraltro, nel caso concreto la consapevolezza della mancanza del consenso era stata tratta da elementi di indiscutibile valenza: l’interruzione dei rapporti e l’astio manifesto tra le due sorelle a partire dall’anno 2010, con la conseguente modifica delle password di ingresso al cassetto fiscale già in possesso della ricorrente dal 2006, da parte della persona offesa, nonché l’accesso al sistema da parte dell’imputata con nuove password all’insaputa della sorella.
Per l’effetto, i Giudici di Piazza Cavour hanno precisato, in linea con la richiamata giurisprudenza di legittimità, come, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 615-ter c.p., non rilevi la circostanza che le chiavi di accesso al sistema informatico protetto siano state comunicate all'autore del reato, in epoca antecedente rispetto all'accesso abusivo, dallo stesso titolare delle credenziali, qualora la condotta incriminata abbia portato ad un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante l'eventuale ambito autorizzatorio (Cass. pen., Sez. V, n. 2905 del 02/10/2018).
In conclusione, la Corte ha cristallizzato il principio di diritto secondo cui: “configura il reato previsto dall’art.615-ter c.p. la condotta di chi si introduca nel “cassetto fiscale” altrui, contenuto nel sistema informatico dell’Agenzia delle Entrate, utilizzando password modificate e contro la volontà del titolare”.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Luigi Carbonelli, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 24 Maggio 2021