16 Maggio 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

È ONERE DEL DATORE DI LAVORO DIMOSTRARE DI AVER ADEMPIUTO AGLI OBBLIGHI IN MATERIA DI SALUTE E SICUREZZA SUI LUOGHI DI LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 10115 DEL 29 MARZO 2022

La Corte di Cassazione, sentenza n. 10115 del 29 marzo 2022, afferma che resta onere del datore di lavoro dimostrare di aver ottemperato agli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro, mentre in capo al lavoratore resta solo l’onere di provare il nesso di causalità tra la nocività dell’ambiente di lavoro ed i danni riportati.

Nel caso in oggetto, gli eredi del lavoratore si rivolgevano al Tribunale per l’accertamento e la declaratoria di responsabilità contrattuale e/o extracontrattuale del datore di lavoro, per il danno biologico, morale, patrimoniale ed esistenziale arrecato al de cuius, che era stato esposto a condizioni lavorative usuranti senza che la società datrice avesse mai fornito idonea formazione relativa ai rischi connessi allo svolgimento delle mansioni, né adeguata sorveglianza sanitaria. Se in primo grado la domanda veniva accolta, la Corte d’Appello rigettava la domanda degli eredi, ritenendo che la parte ricorrente non avesse adeguatamente provato la sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione delle misure di scurezza utili a prevenire o ridurre i rischi.

Gli eredi ricorrevano dunque in Cassazione. La Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso dei ricorrenti, afferma l’errore di diritto del giudice di appello in quanto prescinde dai principi relativi alla distribuzione dell’onere della prova, finendo con il porre a carico del lavoratore la dimostrazione della violazione da parte del datore di lavoro di specifiche misure antinfortunistiche, quando invece gravava su quest’ultimo solo l’onere di dimostrare il nesso di causalità tra le mansioni espletate e la nocività dell'ambiente di lavoro. Infatti, l’art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro, di natura contrattuale, è connessa con la violazione degli obblighi di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali e tecniche del momento. Sul lavoratore resta l’onere di provare il danno e la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra i due, ma sarà onere del datore di lavoro di dimostrare  di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno per il lavoratore.

 

VIOLA IL DOVERE DI FEDELTA’ IL DIRIGENTE “TRATTA” L’ACQUISTO DI CAPITALE SOCIALE IN UNA SOCIETA’ CONCORRENTE.

CASSAZIONE – ORDINANZA N. 11172 DEL 6 APRILE 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 11172 del 6 aprile 2022, ha ribadito il principio secondo cui integra giusta causa di licenziamento la condotta del dirigente che lede, anche solo potenzialmente, la società per cui lavora in violazione dell’obbligo di fedeltà ex art. 2105 del codice civile.

La vicenda trae origine dalla richiesta di accertamento, da parte di un dirigente, dell’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società datrice di lavoro dopo che questi aveva condotto delle trattative finalizzate all’acquisto di una partecipazione al capitale sociale di una società concorrente operante nel medesimo settore di mercato.

Sebbene alle trattative non avesse fatto seguito alcun accordo, i giudici di prima e seconda cure avevano ritenuto che il comportamento allo stesso addebitato integrasse una violazione del dovere di fedeltà, dovere che impone un obbligo di leale comportamento nei confronti del datore di lavoro, da collegarsi alle regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 del Codice civile.

Parimenti, la Cassazione ha respinto tali doglianze, ritenendo che la decisione di appello fosse conforme al consolidato e condivisibile indirizzo di legittimità che riconosce al dovere di fedeltà del dipendente un contenuto più ampio di quello desumibile dall'articolo 2105 c.c., dovendo tale precetto integrarsi con il principio di correttezza e buona fede, a tal fine venendo in rilievo anche la mera potenzialità lesiva della condotta. Nella specie, l'elevata posizione ricoperta dal dirigente implicava una particolare pregnanza dell'obbligo di correttezza e buona fede dallo stesso esigibile. Questo, anche in relazione ai possibili riflessi negativi per l'immagine della società in caso di diffusione all'esterno della vicenda nella quale era stato coinvolto oltre che per l'obiettivo pericolo di condotte emulative da parte di altri dipendenti.

LA CONDOTTA ILLECITA ACCERTATA DEVE ESSERE RICONDOTTA NELLA PREVISIONE CONTRATTUALE DELLA SANZIONE CONSERVATIVA

 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 11665/2022 DEL 11 APRILE 2022

La Corte di Cassazione, con sentenza n.11665 dell’11 aprile 2022, ha enunciato il seguente principio di diritto “in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18 commi 4 e 5 l. n. 300/1970, come novellata dalla l. n. 92/2012, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa anche laddove tale previsione sia espressa attraverso clausole generali o elastiche. Tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo”.

Nel caso in trattazione, infatti, un dipendente di un istituto di vigilanza privata con qualifica di comandante impugnava il licenziamento per giusta causa comminatogli a seguito di contestazione disciplinare per tre episodi e, precisamente, l'aver denigrato i superiori in una conversazione via chat privata, non aver denunciato l'aggressione subita in servizio da un collega sottoposto e aver omesso di trasmettere alla Questura competente i turni di servizio del personale. Il Tribunale adito, in fase sommaria (rito Fornero) dichiarava l'illegittimità del licenziamento per difetto di giusta causa e condannava l'azienda al pagamento di indennità risarcitoria pari a 20 mensilità. A seguito di opposizione, i giudici annullavano il licenziamento, disponevano la reintegrazione del lavoratore e condannavano l'azienda al pagamento di indennità risarcitoria.

L’azienda datrice proponeva reclamo e la Corte d'Appello, in parziale accoglimento dello stesso, dichiarava risolto il rapporto di lavoro, condannando la società al pagamento dell'indennità risarcitoria pari a 20 mensilità. La Corte territoriale riteneva, infatti, che la prima contestazione, relativa alla conversazione con una collega, non avesse alcun rilievo disciplinare, che la seconda contestazione – l'omessa segnalazione dell'aggressione subita da una guardia giurata mentre era in servizio su un autobus di linea – riguardasse un episodio “di minima rilevanza” e che la terza, concernente l'omessa comunicazione alla Questura di Udine dei turni di servizio del personale per cinque mesi, non era stata contestata in alcun modo dall'autorità di pubblica sicurezza che nulla aveva rilevato al riguardo,  sicché il fatto era rimasto confinato tra le vicende irrilevanti per l'impresa. Sebbene avessero accertato la lieve rilevanza delle contestazioni disciplinari, i giudici di Appello, ritenendo che le previsioni della contrattazione collettiva applicata – il CCNL per i dipendenti degli Istituti di vigilanza – fossero rigide e non applicabili estensivamente a situazioni simili, decidevano per l’applicazione della sola tutela risarcitoria di cui al comma 5 dell’articolo 18 L. 30/1970.

Avverso tale decisione il lavoratore ricorreva in Cassazione lamentando che la condotta contestata potesse essere ricondotta in una delle fattispecie previste dalla contrattazione collettiva come punibili con sanzione conservativa, invocando, dunque, l'applicazione della tutela di cui ai commi 4 e al 5 dell'articolo 18 L.30/1970. Il Collegio affermava che con la riforma del 2012 il legislatore ha inteso demandare al giudice un duplice esame dell'addebito mosso al lavoratore: la valutazione della sussistenza o meno dell'importanza dell'inadempimento, al fine di vagliare la legittimità o meno del licenziamento, e la valutazione della tutela applicabile in caso di illegittimità del recesso. Il giudice, ove accertati che il fatto contestato non sussiste oppure sia punibile, secondo le disposizioni previste dal CCNL, con una sanzione conservativa deve disporre la reintegrazione del rapporto di lavoro; qualora, invece, ravvisi unicamente una sproporzione tra fatto contestato e sanzione espulsiva, dichiara risolto il rapporto di lavoro e il lavoratore sarà ristorato in forma indennitaria, ai sensi del 5 comma dell'articolo 18.

Qualora, come nel caso in trattazione, il CCNL preveda norme di carattere generale richiedenti un'attività di “riempimento” da parte dell'interprete, il giudice deve interpretare la clausola contrattuale, e verificare la sussumibilità del fatto contestato nella previsione collettiva, anche attraverso una valutazione di maggiore o minore gravità della condotta.

In conclusione, la Suprema Corte ritenendo che i giudici di merito non avessero correttamente valutato la concreta fattispecie addebitata, cassava la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello in diversa composizione.

 

È LEGITTIMO IL DISSEQUESTRO DEL PROFITTO DI ATTIVITÀ ILLECITE SE È INDISPENSABILE A PAGARE LE IMPOSTE DELLA SOCIETÀ

CORTE DI CASSAZIONE – VI SEZIONE PENALE – SENTENZA N.13936 DELL’11 APRILE 2022

La Corte di Cassazione, con la sentenza n.13936 dell’11/04/2022, colmando una lacuna legislativa nell'ambito della responsabilità amministrativa degli enti, ha statuito che può essere dissequestrato il profitto di attività illecite necessario a pagare le imposte, se è a rischio la società stessa.

Nel caso di specie, con la sentenza de qua, i Giudici di piazza Cavour sono intervenuti nell'ambito di un'inchiesta nata per una mediazione illecita sull'acquisto di mascherine non conformi ai canoni di sicurezza dettati dalle norme anti covid, legittimando come il dissequestro parziale delle somme in sequestro per pagare il debito tributario debba essere consentito, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata del principio di proporzionalità della misura cautelare, là dove si renda necessario al fine di evitare, per effetto dell'applicazione del sequestro preventivo e dell'inderogabile incidenza dell'obbligo tributario, la cessazione definitiva dell'esercizio dell'attività dell'ente prima della definizione del processo.

Ex adverso, gli Ermellini hanno evidenziato che il sequestro finalizzato alla confisca si tradurrebbe, in una forma di interdizione definitiva dall'attività di cui all'art. 16, c. 3, del Dlgs. n. 231 del 2001, operante già in sede cautelare e indipendentemente da una affermazione definitiva di responsabilità dell'ente, e in tal modo verrebbero a sovrapporsi indebitamente gli effetti di misure cautelari del sequestro preventivo finalizzato alla confisca, di cui all'art. 53, e l'interdizione dall'esercizio dell'attività che, sono strutturalmente e funzionalmente distinte.

In nuce, per la S.C., il sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto del reato, corrispondente all'ammontare dell'imposta evasa, può essere legittimamente mantenuto fino a quando permane l'indebito arricchimento derivante dall'azione illecita, che cessa con l'adempimento dell'obbligazione tributaria.

 

L'EMISSIONE DELL'AVVISO DI ACCERTAMENTO SENZA IL RISPETTO DEL TERMINE DILATORIO DI SESSANTA GIORNI DAL RILASCIO DEL PVC COMPORTA LA NULLITA' DELL'ACCERTAMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 12412 DEL 19 APRILE 2022.

La Corte di Cassazione – ordinanza n°12412 del 19 aprile 2022 – ha stabilito, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, che il termine dilatorio di 60 giorni, concesso al contribuente dopo il rilascio della copia del processo verbale di constatazione, per formulare le proprie osservazioni, è applicabile anche nel caso di contestazione di violazioni in tema di imposta di registro.

Nel caso de quo,  la CTR del Lazio aveva accolto l'appello proposto dall'Agenzia delle entrate avverso la sentenza della CTP di Roma, la quale aveva, a sua volta, accolto il ricorso di una società contribuente avverso un avviso di liquidazione di imposta di registro, con contestuale irrogazione di sanzioni. In particolare, l'avviso di liquidazione era stato emesso in ragione della riqualificazione come cessione di azienda di una serie di operazioni negoziali (conferimento di azienda, cessione di quote sociali e incorporazione), le quali scontavano l'imposta di registro in misura fissa anziché proporzionale. La CTR accoglieva l'appello dell'Agenzia delle entrate evidenziando, tra l'altro, che la notifica dell'avviso di accertamento prima della decorrenza del termine di sessanta giorni dalla notificazione del processo verbale di constatazione non ne comportava la nullità.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società contribuente deducendo la violazione della L. 27 luglio 2000, n°212, art. 12, comma 7 ed evidenziando che l'avviso di liquidazione era  stato emesso senza rispettare il termine dilatorio di sessanta giorni previsto dalla disposizione in esame e posto a garanzia del contribuente che, entro il predetto termine può formulare le proprie osservazioni al fine di compulsare l'Amministrazione finanziaria alla rivisitazione del PVC rilasciato in conseguenza di verifica fiscale.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ritenendo il motivo fondato e assorbente delle ulteriori argomentazioni esposte dalla contribuente. In particolare, gli Ermellini hanno ricordato che

l'Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l'invalidità dell'atto purché il contribuente abbia assolto all'onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un'opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi "armonizzati", mentre, per quelli "non armonizzati", non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito.

Il contraddittorio endoprocedimentale è espressamente previsto dalla L. n° 212 del 2000, art. 12, comma 7, (id: Statuto del contribuente) con valutazione di necessarietà ex ante e conseguente nullità dell'accertamento in caso di omissione, nella specifica ipotesi di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività.

Nel caso in specie, hanno concluso gli Ermellini, la verifica è avvenuta con accesso in loco ed è sfociata in un primo processo verbale di constatazione dell'imposta asseritamente evasa, con emissione dell'avviso di accertamento senza il rispetto del termine dilatorio applicabile anche in tema di imposta di registro e ciò comporta la nullità del conseguente accertamento ad opera dell'Agenzia delle Entrate.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
     
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 16 Maggio 2022