5 Giugno 2017
Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….
Oggi parliamo di………….
LO STATO DI DISOCCUPAZIONE PUO' ESSERE RITENUTO INVOLONTARIO QUANDO LE DIMISSIONI VENGONO RASSEGNATE A SEGUITO DI UN DETERMINATO COMPORTAMENTO DI UN ALTRO SOGGETTO E NON PER UNA SITUAZIONE SOGGETTIVA DEL DIPENDENTE.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 12565 DEL 18 MAGGIO 2017.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 12565 del 18 maggio 2017, ha statuito che le dimissioni possono essere considerate per “giusta causa” e, conseguentemente, idonee a far maturare il diritto al sussidio di disoccupazione, quando sono motivate da uno specifico comportamento di un altro soggetto e non da una situazione soggettiva del lavoratore.
Nel caso de quo, un dipendente di una panetteria rassegnava le proprie dimissioni a seguito di una asma bronchiale da allergia alle farine. Il prestatore richiedeva all'INPS il sussidio di disoccupazione ritenendo di essere stato “costretto” a rassegnare le dimissioni a causa della sua patologia. L'Istituto rigettava la domanda. Il lavoratore adiva la Magistratura.
Soccombente nei giudizi di prime cure, l'INPS ricorreva in Cassazione.
Orbene, gli Ermellini, nel ribaltare integralmente il deliberato dei gradi di merito, hanno evidenziato che la disoccupazione è da ritenersi involontaria quando è dovuta a dimissioni rassegnate per il comportamento di un altro soggetto ovvero riconducibili ad una causa insita in un difetto del rapporto di lavoro, così grave da impedirne la provvisoria esecuzione e non già alla situazione soggettiva del lavoratore la cui scelta, ancorché dettata da motivi di salute, rimane tuttavia volontaria.
Pertanto, atteso che nel caso in disamina, le dimissioni erano state rassegnate dal prestatore “spontaneamente” anche se motivate dalla sua patologia che non gli rendeva possibile l’espletamento della prestazione lavorativa, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno accolto il ricorso dell’Istituto sancendo la non involontarietà dello stato di disoccupazione e la conseguente impossibilità di fruire del sussidio economico.
L' OBBLIGO DI FEDELTA' DI CUI ALL'ART. 2105 C.C. DEVE INTENDERSI ANCHE COME DIVIETO DI CONDOTTE CHE SIANO IN CONTRASTO CON LE FINALITA' E GLI INTERESSI DELL'AZIENDA DATRICE DI LAVORO.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 8711 DEL 4 APRILE 2017.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 8711 del 4 aprile 2017, ha (ri)confermato che l'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c., integrato dai generali doveri di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. nello svolgimento del rapporto contrattuale, deve intendersi anche come divieto di condotte che siano in contrasto con i doveri connessi con l'inserimento del dipendente nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa.
Nel caso de quo, un lavoratore, dipendente di un'azienda ferroviaria, aveva ricevuto due sanzioni disciplinari: la prima sanzione era stata applicata per aver proseguito, malgrado diffida aziendale, nell'incarico di consulente tecnico di parte di un parente di una delle vittime di un incidente ferroviario nel conseguente procedimento penale instauratosi e, la seconda, in relazione al medesimo incarico a favore di una organizzazione sindacale; con la seconda sanzione il lavoratore era stato licenziato per violazione dell'obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c. nonché per aver rilasciato dichiarazioni lesive dell'immagine dell’azienda e per averne pubblicamente ingiuriato l'amministratore delegato.
Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore sostenendo che l'incarico di CTP non avrebbe potuto integrare violazione dell’obbligo di fedeltà nei confronti della società datrice di lavoro in quanto, tale fattispecie sarebbe circoscritta alle sole attività concorrenziali o di cd. spionaggio industriale.
Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso riaffermando un suo costante orientamento secondo il quale "l'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c., integrato dai generali doveri di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. nello svolgimento del rapporto contrattuale, deve intendersi non soltanto come mero divieto di abuso di posizione attuato attraverso azioni concorrenziali e/o violazioni di segreti produttivi, ma anche come divieto di condotte che siano in contrasto con i doveri connessi con l'inserimento del dipendente nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o che creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o che siano, comunque, idonee a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto".
Nel caso di specie, hanno concluso gli Ermellini, la lesione dell'obbligo di fedeltà si e' verificata perché il lavoratore ha assunto l'incarico di consulente tecnico di parte di soggetti terzi in dichiarato conflitto con la società datrice, conflitto non astratto e meramente ipotetico, ma già in atto.
LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO PER G.M.O. SE LE MANSIONI VENGONO DISTRIBUITE FRA ALTRI LAVORATORI PER UNA GESTIONE PIU’ EFFICIENTE, PRUDUTTIVA ED ECONOMICA.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 13015 DEL 24 MAGGIO 2017
La Corte di cassazione, sentenza n° 13015 del 24 maggio 2017, ha statuito che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento è ravvisabile anche solo in una diversa ripartizione di determinate mansioni fra il personale in servizio, all’esito del quale una o più posizioni lavorative risultino in esubero e non riassorbili in via di repêchage.
Secondo la ricostruzione operata dai Giudici territoriali, avallata dagli Ermellini, è ininfluente la circostanza che i bilanci della società recassero un utile e che la stessa avesse fatto dei cospicui investimenti, atteso che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento è ravvisabile anche solo in una diversa ripartizione di determinate mansioni fra il personale in servizio, per una gestione aziendale più efficiente e produttiva.
Pertanto, determinate mansioni possono essere accorpate a quelle di un altro dipendente o suddivise fra più lavoratori e, all’esito, una o più posizioni lavorative possono risultare in esubero e non riassorbili in via di repêchage.
Infatti, il datore di lavoro può ricercare il profitto mediante la riduzione del costo del lavoro e di altri fattori produttivi, a condizione di recuperare efficienza, produttività e, perché no, anche per aumentare l’utile.
Corollario di tale elaborazione giurisprudenziale è che un dipendente non può essere licenziato unicamente con l’obiettivo di sostituirlo (mediante riassorbimento delle mansioni fra altro/i dipendente/i) con uno pagato di meno, pur essendo addetto alle stesse mansioni, ma è necessario recuperare/migliorare la produttività.
LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA SE IL LAVORATORE RIFIUTA DI ESEGUIRE LE DISPOSIZIONI DEL DATORE.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 10568 DEL 28 APRILE 2017
La Corte di Cassazione, sentenza n°10568 del 28 aprile 2017, ha statuito che è legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che si rifiuta più volte di svolgere la prestazione anche se gli ordini impartiti dal datore sull’esecuzione delle attività cambiano.
Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour hanno confermato in toto le conclusioni della Corte d’Appello sul ricorso di due guardie giurate che impugnavano il licenziamento intimato dal datore per aver rifiutato di svolgere il servizio di vigilanza della banca cui erano assegnati. In particolare, il rifiuto riguardava le modalità richieste dall’istituto di credito con la diretta conseguenza che tale atteggiamento aveva avuto ripercussioni su un altro lavoratore, chiamato a subentrare al loro posto per svolgere la prestazione.
Inoltre, per la S.C. deve essere escluso il carattere discriminatorio del recesso, in quanto non c’era alcun motivo per rifiutare l’ottemperanza alla disposizione aziendale, e ritenevano la sanzione espulsiva proporzionata in ragione del “carattere protratto e reiterato della condotta, idonea a provocare disagi e disservizi all’azienda, nonché in ragione della forte intensità dell’elemento soggettivo”.
In nuce, gli Ermellini, con la sentenza de qua, hanno evidenziato come tali circostanze sono tali da incidere irrimediabilmente sull’elemento fiduciario del rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, e “nessuna efficacia può essere attribuita al successivo cambiamento delle regole di accesso del servizio presso la banca, con riguardo al carattere reiterato e protratto delle violazioni”.
IL MANCATO INVIO DEL CERTIFICATO MEDICO CONFIGURA UNA IPOTESI LEGITTIMA DI LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 12730 DEL 19 MAGGIO 2017
La Corte di Cassazione, sentenza n° 12730 del 19 maggio 2017, ha stabilito che il mancato invio del certificato medico, fra un periodo precedente e altro successivo alla malattia, è idoneo a configurare un licenziamento per giusta causa.
Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Napoli, in riforma del Tribunale di Napoli, considerava legittimo il licenziamento comminato ad un lavoratore che aveva omesso di inviare il certificato di malattia per il periodo dal 26/10/2009 al 09/11/2009, ritenendo il comportamento del lavoratore gravemente lesivo del vincolo fiduciario.
Il lavoratore si difendeva sulla base di una presunta incapacità naturale, per l'assunzione di un particolare farmaco.
Nel caso de quo, gli Ermellini, nel confermare il ragionamento logico giuridico dei Giudici d'Appello di Napoli, basato sul fatto che l'ausiliare del Giudice riscontrava l'assunzione del farmaco da diverso tempo (paroxidina) senza che da esso derivasse alcun effetto collaterale, in più, l'insorgenza degli effetti collaterali lamentati dallo stesso avrebbero imposto l'immediata sospensione del farmaco.
Il licenziamento per giusta causa impone, da un lato, una verifica sulla gravità dei fatti addebitati riguardo alla portata oggettiva e soggettiva degli stessi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e l'intensità dell’elemento intenzionale; dall'altro, la proporzionalità fra fatti e sanzione, al fine di stabilire la lesione del vincolo fiduciario.
In conclusione, rilevata l'assenza totale di certificazione per il periodo contestato e la capacità a svolgere le ordinarie funzioni di vita, il licenziamento per giusta causa è da considerarsi legittimo, in quanto il comportamento tenuto è gravemente lesivo del vincolo fiduciario.
Ad maiora
IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO
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Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!
Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.
Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro
Modificato: 5 Giugno 2017