31 Maggio 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LA PRESUNZIONE CONNESSA ALL'ASSORBIMENTO DEL SUPERMINIMO INDIVIDUALE NEI MIGLIORAMENTI RETRIBUTIVI PUO' ESSERE SUPERATA DAL GIUDICE DI MERITO IN BASE ALLA RICOSTRUZIONE DELLA VOLONTA' DELLE PARTI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 10164 DEL 16 APRILE 2021.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 10164 del 16 aprile 2021, ha (ri)confermato, in tema di presupposto per la riduzione del superminimo individuale, che la regola generale dell'assorbimento quale conseguenza dei miglioramenti retributivi disposti dal contratto collettivo, non trova applicazione se il datore di lavoro – in occasione di precedenti rinnovi – abbia già adottato la regola del cumulo.

Nel caso de quo,  la Corte di Appello di Milano aveva respinto l'appello proposto da una società datrice nei confronti di 4 lavoratori avverso la decisione di primo grado che aveva dichiarato l'illegittimità dell'assorbimento del superminimo individuale, con gli aumenti dei minimi retributivi disposti dal CCNL applicato, condannando la società alla corresponsione delle differenze retributive dovute ai ricorrenti; in particolare, la Corte aveva ritenuto che doveva escludersi la volontà della società appellante di optare per l'assorbimento nel superminimo dell'aumento contrattuale unico disposto dal CCNL in quanto, in occasione della corresponsione della prima tranche di aumento,  aveva optato per la regola del cumulo, con ciò generando la legittima aspettativa da parte dei dipendenti di una volontaria rinuncia all'assorbimento.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società, allegando violazione alla regola fondamentale di tale istituto, consistente nel fatto che esso è normalmente soggetto al principio generale dell'assorbimento nei miglioramenti retributivi previsti dalla contrattazione collettiva.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso avallando l'operato della Corte di merito che, basandosi sulla ricostruzione della volontà delle parti, aveva escluso l'intenzione della società di procedere all'assorbimento. Sul punto, hanno rimarcato gli Ermellini, il CCNL aveva previsto un aumento retributivo unico ma liquidato in tranches a scadenze diverse: conseguentemente, il fatto che la liquidazione della prima tranche non era stata oggetto di alcun assorbimento era indicativo della volontà concludente della società che l'aumento della retribuzione base non dovesse comportare alcuna diminuzione del superminimo, anche in ordine al pagamento delle tranches successive, con ciò comportando una esplicita rinuncia da parte della società datrice.

Da ultimo, con specifico riguardo al preteso principio di diritto del normale assorbimento del superminimo nei miglioramenti contrattuali, hanno concluso gli Ermellini, precisando che un tale principio non è mai stato affermato dalla Corte di legittimità, sicché, ben può il Giudice di merito ritenere superata la presunzione dell'assorbimento in base alle risultanze istruttorie acquisite.

NULLO L’ACCERTAMENTO PER IL CONTRIBUENTE CHE HA GIÀ SIGLATO UN ACCORDO CON IL FISCO IN RELAZIONE AI RESTANTI PERIODI DI IMPOSTA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 12372 DELL’11 MAGGIO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 12372 dell’11 maggio 2021, ha statuito che è nullo l'accertamento delle maggiori imposte relative ad altre annualità a carico del contribuente che ha già siglato un accordo con il fisco in relazione ai restanti periodi di imposta, a meno che non vi sia inadempienza da parte dello stesso contribuente, in quanto, ciò che conta è il principio di legittimo affidamento di fronte all'Amministrazione Finanziaria.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno respinto le doglianze dell'Agenzia delle Entrate per un accertamento teso al recupero di maggiori imposte nei confronti di una SRL che, dopo aver firmato un accordo con il fisco in relazione a vecchie annualità, si era vista notificare un accertamento per quelle più recenti, senza un valido motivo e senza che la stessa società contribuente fosse stata inadempiente.

Con la sentenza de qua, costituita da una lunga quanto complessa motivazione, gli Ermellini, confermando quanto deciso dai Giudici Territoriali, hanno chiarito che “in tema di accertamento con adesione di cui al D.lgs n. 218 del 1997, è lesiva del principio di collaborazione e buona fede la condotta dell'ufficio che, dopo aver emesso, in base alla proposta accettata dal contribuente, gli atti di accertamento con adesione per alcune annualità d'imposta, proceda, repentinamente, senza motivazione e nonostante il tempestivo e regolare adempimento degli atti già emanati, all'emissione per le restanti annualità, pure oggetto della proposta, di avviso di accertamento per l'originaria pretesa, sicché, in relazione al legittimo affidamento sulla regolare definizione della procedura di accertamento con adesione, è inesigibile la maggior pretesa costituita dalla differenza tra gli importi concordati e quelli richiesti”.

In nuce, la S.C., ha evidenziato che è una situazione tutelabile quella caratterizzata da un'apparente legittimità e coerenza dell'attività del fisco in senso favorevole al contribuente, ma è sicuramente anche da tutelare la buona fede del cittadino quando ottempera alle richieste e non commette alcun tipo di violazione.


LICENZIAMENTO DISCIPLINARE: SPETTA AL GIUDICE LA VALUTAZIONE CIRCA LA GRAVITA’ DELL’INADEMPIMENTO E LA PROPORZIONALITA’ DELLA SANZIONE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 11635 DEL 4 MAGGIO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 11635 del 4 maggio 2021, ha statuito che la valutazione sulla gravità dell'inadempimento del lavoratore e sulla proporzionalità della sanzione rispetto all'addebito contestato spetta al Giudice di merito che deve tener conto sia dei profili oggettivi e soggettivi della condotta, sia delle caratteristiche proprie del rapporto in relazione al quale va valutata la possibilità o meno della prosecuzione. 

Nel caso specifico, la Corte d'Appello di Bari, confermando la decisione del Tribunale di primo grado, respingeva la domanda volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento e la conseguente condanna al risarcimento del danno, proposta da un dipendente nei confronti dell’ASL.

Il licenziamento disciplinare era avvenuto a causa di comportamenti attestanti uno “scarso rendimento dovuto a negligenza ed a causa di altri fatti dimostrativi della piena incapacità di adempiere adeguatamente agli obblighi di servizio”.

Avverso tale pronuncia, il lavoratore ricorreva in Cassazione censurando la decisione della Corte nel ritenere che il temine di 120 giorni per la conclusione del procedimento disciplinare non decorresse dalla data della prima notizia dell'infrazione – e cioè dalla data in cui il datore di lavoro aveva avuto conoscenza dell'assenza ingiustificata del lavoratore – ma dal momento in cui la stessa, per il suo protrarsi, costituisce un autonomo e più grave addebito disciplinare.

La Suprema Corte ha ritenuto infondato il motivo. Infatti, nel caso specifico, non è stata la singola assenza a pesare, ciò che ha costituito elemento disciplinarmente rilevante, tanto da portare al licenziamento, bensì il fatto che le assenze, protraendosi nel tempo, hanno influito negativamente sulla produttività integrando, di tal guisa, un'autonoma e più grave infrazione, non coincidente con le precedenti singole assenze dal servizio. Pertanto, i Giudici hanno ritenuto corretto il decorso del termine.

Quanto al merito, il ricorrente denunciava sproporzione tra la sanzione espulsiva ed il comportamento da lui tenuto lamentando la mancata assegnazione di una precisa e adeguata posizione di lavoro ed i continui trasferimenti e sostenendo che l’improduttività era “una logica e diretta conseguenza dell’impossibilità per il datore di destinarlo correttamente ai compiti per i quali era stato assunto”.

Per gli Ermellini anche questo motivo è stato respinto in quanto il lavoratore non aveva articolato alcuna contestazione riguardo ai periodi di mancata presenza in ufficio o circa la ripetuta violazione degli orari di lavoro oggetto dell'addebito. Da tempo, la Suprema Corte ha affermato il principio secondo il quale in caso di licenziamento disciplinare spetta unicamente al Giudice del merito accertare se i fatti addebitati al lavoratore siano di gravità tale da ledere il rapporto fiduciario irrimediabilmente e legittimare o meno l'interruzione immediata del rapporto. Il fattore che condiziona la permanenza o meno del vincolo contrattuale è la fiducia e può avere un'intensità differenziata a seconda dei vari fattori ed elementi che caratterizzano il rapporto di lavoro, elementi di cui il Giudice di merito deve tener conto nella valutazione sulla gravità dell'inadempimento e sulla proporzionalità della sanzione rispetto all'addebito contestato.

ILLEGITTIMO IL RECESSO NELL’AMBITO DI UNA PROCEDURA DI LICENZIAMENTO COLLETTIVO SE IL DATORE DI LAVORO NON HA EFFETTUATO UNA VALUTAZIONE DELLA SITUAZIONE ECONOMICA CONCRETA DEL LAVORATORE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 10996 DEL 26 APRILE 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n. 10996 del 26 aprile 2021, ha affermato che, nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, il criterio di scelta dei lavoratori interessati dalla procedura previsto dalla Legge n. 223/1991 e che tiene conto dei carichi familiari, deve essere interpretato in senso elastico, valutando la situazione economica concreta dei lavoratori.

Nel caso de quo, un lavoratore ricorreva in Tribunale contro il licenziamento intimato dal datore di lavoro a seguito di una procedura di licenziamento collettivo. Il Giudice di prime cure accoglieva il ricorso dichiarando illegittimo il licenziamento; detta pronuncia veniva confermata anche dalla Corte distrettuale secondo la quale il datore di lavoro non aveva valutato in modo adeguato i criteri di scelta dei lavoratori sottoposti alla procedura, in particolare il criterio relativo ai carichi familiari, in quanto il ricorrente, separato consensualmente, era tenuto a corrispondere un assegno per il mantenimento della figlia minore.

Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione. La Suprema Corte, confermando la pronuncia dei Giudici di merito, sulla base di un precedente orientamento giurisprudenziale, ha affermato che l’art. 5 della Legge n. 223/1991, laddove fa riferimento al criterio dei carichi familiari, richiama il criterio previsto dall'accordo interconfederale del 1965 e deve quindi essere interpretato nel senso di effettuare una valutazione circa la situazione economica effettiva dei singoli lavoratori, non riconducibile al numero dei componenti del nucleo familiare, ma alle persone effettivamente a carico. Infatti, in virtù di un principio di tutela dei lavoratori socialmente più deboli, i carichi familiari cui fa riferimento la norma, devono essere intesi in senso elastico, attraverso una valutazione di tutti gli elementi definibili come oneri economici connessi con il mantenimento familiare. Nel caso in oggetto, invece, il datore di lavoro non aveva tenuto conto della particolare situazione familiare e degli oneri connessi al mantenimento dei figli incombenti sul lavoratore, pertanto, i Giudici di legittimità, rigettando il ricorso del datore di lavoro, confermano la sentenza dei Giudici di merito.

IL GIUDIZIO TRIBUTARIO MANTIENE LA PROPRIA AUTONOMIA ANCHE IN CASO DI ASSOLUZIONE DA UN REATO TRIBUTARIO EMESSO DAL GIUDICE PENALE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA 14740 DEL 27 MAGGIO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 14740 del 27 maggio 2021, ha (ri)affermato l’autonomia fra il procedimento penale e quello tributario.

La vicenda in esame trae origine dalla sentenza emessa dalla Commissione Tributaria regionale dell’Emilia Romagna in base alla quale era stato confermato l’accertamento sulla base delle risultanze del procedimento penale. Così, infatti, avevano statuito i Giudici tributari di appello: “il giudice penale … giunge ad una conclusione in punto di fatto che non può essere disattesa da questa Commissione" e "una eventuale conclusione diversa basata su indizi offerti dall'ufficio inevitabilmente si scontrerebbe con il dato di fatto accertato in sentenza penale”.

La Corte di Cassazione, adita dal contribuente, ha, ex adverso, ribaltato il giudizio affermando che” nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l'accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dall'art. 7, comma 4, del D.lgs. n. 546 del 1992, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna.”

Pertanto, secondo gli Ermellini “il Giudice tributario non può limitarsi a rilevare l'esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie, ma, nell'esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli elementi di prova acquisiti al giudizio" (ex plurimus, Cass. n. 28174 del 2017; Cass. n. 16649 del 2020).

Nel cassare quindi la sentenza, i Giudici nomofilattici hanno rimarcato la perfetta autonomia tra l'accertamento tributario e l'accertamento penale, stante la naturale separazione di competenze e poteri.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Luigi Carbonelli, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 31 Maggio 2021