12 Giugno 2017

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

NEL CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO DELINEATO DAL D.LGS. N° 368/2001 GRAVAVA SUL DATORE DI LAVORO L'ONERE DI DIMOSTRARE LA SUSSISTENZA DELLE MOTIVAZIONI POSTE A FONDAMENTO DELL'APPOSIZIONE DEL TERMINE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 13200 DEL 25 MAGGIO 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 13200 del 25 maggio 2017, ha (ri)statuito che il Decreto Legislativo n° 368/2001 imponeva l'esistenza di ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo al fine di apporre legittimamente un termine di durata al contratto individuale di lavoro. A tal fine gravava sul datore di lavoro dare prova della reale sussistenza delle ragioni poste a suo fondamento.

Nel caso de quo, un dipendente impugnava la legittimità del termine indicato nel proprio contratto di lavoro motivato da esigenze di carattere tecnico organizzativo e produttivo conseguenti ad un (non meglio specificato) processo di riorganizzazione aziendale.

Soccombente nei giudizi di prime cure, l'azienda datrice di lavoro ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum dei gradi di merito, hanno evidenziato che la disciplina del contratto a tempo determinato delineata dal Decreto Legislativo n° 368/2001 imponeva al datore di lavoro di specificare le motivazioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo poste a fondamento dell'apposizione del termine. Conseguentemente, sullo stesso datore gravava l'onere di dimostrare la reale sussistenza di tali motivazioni.

Pertanto, atteso che nel caso in disamina, il datore di lavoro aveva fatto genericamente riferimento, nel contratto individuale di lavoro, ad esigenze tecniche, organizzative e produttive conseguenti a non ben identificati processi di riorganizzazione, e non aveva dato prova rigorosa, nel corso del giudizio, della reale sussistenza di tali esigenze, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno rigettato il ricorso sancendo nuovamente l'illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro.

 

E' NULLO IL REGOLAMENTO AZIENDALE CHE LIMITA LA FACOLTA' DEL LAVORATORE PART- TIME DI REPERIRE UN' OCCUPAZIONE DIVERSA IN ORARIO COMPATIBILE CON IL PROPRIO ORARIO DI LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 13196 DEL 25 MAGGIO 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 13196 del 25 maggio 2017, ha statuito la nullità di una previsione regolamentare che riconosca al datore di lavoro un potere incondizionato di incidere unilateralmente sul diritto del lavoratore in regime di part time di svolgere un'altra attività lavorativa.

Nel caso de quo un lavoratore part time, dipendente di un Patronato, era stato licenziato per aver violato il regolamento organico del personale secondo cui la qualità di dipendente era incompatibile con qualunque altro impiego sia pubblico che privato ed altresì con ogni altra attività ritenuta non conciliabile con l'osservanza dei doveri d'ufficio e con il decoro dell'Ente.

La Corte d'Appello di Messina aveva accolto l'appello proposto dal Patronato e riformato la sentenza del Giudice del Tribunale locale avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento per giusta causa, stante l'assoluto divieto di espletare una qualunque altra forma di attività di lavoro.

Non dello stesso avviso il lavoratore che, per la cassazione della sentenza, ha proposto ricorso invocando la legittimità dello svolgimento di altra attività lavorativa che consentisse di integrare il reddito da lavoro dipendente percepito, pari a € 500,00 mensili, in quanto insufficiente a garantire un sostentamento dignitoso.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, rinviando alla Corte d'Appello in diversa composizione,  affermando che, il carattere assoluto del divieto, a prescindere da qualsiasi verifica in concreto della eventuale incompatibilità, rende illegittimo il regolamento interno adottato dal Patronato.

Nel caso in specie, hanno continuato gli Ermellini, l'unica possibile verifica della eventuale incompatibilità in base ad un regolamento interno, si pone esclusivamente in relazione ai doveri connessi alla prestazione ex artt. 2104 e 2105c.c.. Invero, siffatta lettura della disposizione regolamentare non può essere accolta, se riferita ad un lavoratore part time, non potendo il datore di lavoro disporre della facoltà del dipendente di reperire un'occupazione diversa in orario compatibile con la propria prestazione di lavoro parziale.

 

LA DICHIARAZIONE DI SUCCESSIONE NON EQUIVALE AD ACCETTAZIONE DELL’EREDITÀ

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 8053 DEL 29 MARZO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 8053 del 29 marzo 2017, ha statuito che l’assunzione della qualità di erede non può desumersi dalla mera chiamata all’eredità, né dalla denuncia di successione, che si configura come un atto di natura meramente fiscale che non ha rilievo ai fini dell’assunzione della qualità di erede.

I Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, accoglievano in toto le doglianze di una contribuente, ribaltando completamente i precedenti giudizi dei Giudici Territoriali, nei confronti di un avviso di liquidazione emesso dall’Agenzia delle Entrate per il recupero dell’imposta complementare INVIM.

Il caso di specie riguarda il ricorso di un contribuente contro un avviso di accertamento di valore in materia di imposta di registro conseguente ad una compravendita, innanzi alla competente Commissione Tributaria Provinciale, la quale respingeva il ricorso. Dopo la morte del ricorrente, avvenuta nelle more del giudizio, l’Agenzia delle Entrate emetteva un avviso di liquidazione per il recupero dell’imposta, susseguente al maggior valore finale accertato con il precedente atto, derivante dalla sentenza della CTP passata in giudicato. La presunta erede, che aveva provveduto tardivamente a rinunciare all’eredità (ergo: oltre il termine dei dodici mesi dalla data di apertura della successione), impugnava tale avviso di liquidazione lamentando difetto di motivazione dell’atto e difetto di legittimazione passiva, proprio per la rinuncia all’eredità.

In nuce, gli Ermellini evidenziavano che, in ipotesi di giudizio instaurato nei confronti del preteso erede per debiti del de cuius, incombe su chi agisce, in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c., l’onere di provare l’assunzione da parte del convenuto della qualità di erede, la quale non può desumersi dalla mera chiamata all’eredità, non essendo prevista alcuna presunzione in tal senso, ma consegue solo all’accettazione dell’eredità, espressa o tacita, la cui ricorrenza rappresenta, quindi, un elemento costitutivo del diritto azionato nei confronti del soggetto evocato in giudizio nella predetta qualità.

 

LA RESPONSABILITÀ PENALE PER IL REATO DI OMESSO VERSAMENTO DELL’IVA RICADE IN CAPO ALL’AMMINISTRATORE IN CARICA ALLA SCADENZA DEL VERSAMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 18834 DEL 19 APRILE 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n. 18834 del 19 aprile 2017, ha statuito che la responsabilità penale per il reato di omesso versamento dell’IVA, di cui all’articolo 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000, ricade sul soggetto che ricopre la carica sociale di legale rappresentante al momento del termine ultimo per il versamento dell’imposta. 

IL FATTO

L’amministratore unico e legale rappresentante di una società veniva imputato per il reato di omesso versamento dell’IVA ex art. 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000, per l’anno d’imposta 2008. Sia in primo grado che in appello l’amministratore veniva condannato.

La difesa presentava così ricorso per Cassazione, evidenziando, in particolare, che l’imputato aveva assunto la carica sociale in un momento successivo alla sottoscrizione della dichiarazione IVA, redatta da altro soggetto, il cui omesso versamento sarebbe poi stato imputato al ricorrente. Precisamente il suddetto amministratore aveva assunto la carica nel mese di ottobre del 2009, dunque dopo la dichiarazione di settembre, ma prima del termine ultimo del 27 dicembre.

Per meglio comprendere le motivazioni della sentenza di legittimità, si ritiene opportuno ricordare che l’art. 10-ter, D.Lgs. 74/2000 (omesso versamento di IVA) punisce, con la reclusione da sei mesi a due anni, chiunque non versi l’IVA, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo (in genere 27 dicembre).

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, hanno perciò affermato che, “nel caso di successione nella carica di amministratore di società (legale rappresentante) in un momento successivo alla presentazione della dichiarazione di imposta e prima della scadenza del termine fissato per l'adempimento dell'obbligo tributario di versamento, sussiste la responsabilità, per i reati tributari connessi all'omesso versamento di imposte dovute, di colui che succede nella carica dopo la presentazione della dichiarazione di imposta e prima del termine ultimo per il versamento della stessa. E ciò “sul rilievo dell'assenza di compimento del previo controllo di natura prettamente contabile sugli ultimi adempimenti fiscali che comporta la responsabilità quantomeno a titolo di dolo eventuale, in quanto il ricorrente, al momento della scadenza del termine per compiere il versamento (27/12/2009) era il legale rappresentante e, quindi, ben poteva avere contezza del debito fiscale.

Nel caso di specie, hanno concluso gli Ermellini, “il debito fiscale non era remoto né occulto: nella dichiarazione annuale IVA erano riportati il credito finale, l’ammontare dell’imposta dovuta (e non versata), l’ammontare dei versamenti periodici asseritamente compiuti. Sarebbe stato così sufficiente, prima di assumere la carica di amministratore, chiedere in visione la dichiarazione e l’attestato di versamento all’erario dell’imposta a debito per adempiere nel termine stabilito (id: entro il 27 dicembre) al pagamento dell’obbligazione tributaria.

 

ANCHE UN SOLO COMPORTAMENTO ILLECITO RIDOTTO NEL TEMPO E SENZA PREGIUDIZIO AL DATORE PUO' CONFIGURARE L'IPOTESI DI LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 13199 DEL 25 MAGGIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 13199 del 25 maggio 2017, ha statuito che un comportamento tenuto dal lavoratore seppur breve e senza pregiudizio in capo al datore di lavoro può essere ugualmente idoneo a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Roma, in riforma del Tribunale di primo grado che aveva “derubricato” il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, dichiarava illegittimo il licenziamento e condannava la società all reintegra nel posto di lavoro del lavoratore, con pagamento di tutte le retribuzioni maturate dal licenziamento all'effettiva riammissione, decurtato l'aliunde perceptum. Nei fatti, ad un impiegato di 7° livello (Area Manager) veniva contestato un calo nella produttività e l'aver commercializzato capi di biancheria intima appartenenti ad un’azienda di cui era anche socio. Inoltre, durante l'orario di lavoro, benché l'attività non fosse in concorrenza, in due occasioni e per circa 40 minuti si era assentato per recarsi presso l'azienda di cui era socio.

Nel caso de quo, gli Ermellini, contrariamente a quanto stabilito dalla Corte d'Appello, hanno ribadito che in tema di licenziamento per giusta causa vanno considerati i diversi fattori che entrano in gioco: intensità della richiesta fiducia a seconda della natura e qualità del singolo rapporto, la posizione delle parti, l'oggetto delle mansioni e il loro grado di affidamento, la valutazione oggettiva e soggettiva del fatto concreto. Dunque, l'errore in cui è incorsa la Corte territoriale è quello di aver ritenuto che un comportamento ridotto nel tempo e non recante alcun pregiudizio al datore di lavoro possa di per sè escludere una condotta illecita. In realtà, la lesione del vincolo fiduciario può avvenire ogniqualvolta la condotta tenuta sia tale da porre dubbi sulla correttezza del futuro adempimento, rilevando il tal caso le modalità della prestazione resa dal dipendente, non rilevando invece l'insussistenza di alcuni addebiti contestati, in quanto il Giudice può individuare anche in uno solo di essi la giustificazione alla sanzione espulsiva.

 In conclusione, l'obbligo di fedeltà impone non solo di astenersi dal porre in essere comportamenti vietati dall'art. 2105 del c.c., ma a qualsiasi altro comportamento in contrasto con i doveri legati all'organizzazione o che possano creare situazioni di conflitto con gli interessi del datore di lavoro. 

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

  Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 12 Giugno 2017