3 Luglio 2017
Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….
Oggi parliamo di………….
NEL CASO IN CUI IL DIPENDENTE SVOLGA LA PROPRIA ATTIVITA’ INDIFFERENTEMENTE E CONTEMPORANEAMENTE PER PIU’ IMPRENDITORI FACENTI PARTI DEL MEDESIMO GRUPPO DI IMPRESE E’ RAVVISABILE UN UNICO CENTRO DI INTERESSI ANCHE AL FINE DELLA VERIFICA DEL REQUISITO DIMENSIONALE RICHIESTO PER L’APPLICAZIONE DELLA TUTELA REALE.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 14175 DEL 7 GIUGNO 2017.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 14175 del 7 giugno 2017, ha statuito che nel caso in cui il dipendente ritenga di aver svolto la propria attività per svariate società, tutte facenti parti del medesimo gruppo, è suo onere dimostrare che la prestazione sia stata resa contemporaneamente ed in modo indifferenziato nei confronti di diversi imprenditori in modo tale da configurare un unico centro di interessi.
Nel caso de quo, un dipendente veniva licenziato dall’azienda datrice di lavoro. Il subordinato adiva la Magistratura richiedendo il reintegro in quanto, considerando le varie società del gruppo, sussisteva il limite dimensionale per l’applicazione della tutale reale.
Soccombente in entrambi i gradi di merito, il datore di lavoro ricorreva in Cassazione.
Orbene, gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum di prime cure, hanno sottolineato che il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per se sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all’altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare – anche all’eventuale fine della valutazione di sussistenza del requisito numerico per l’applicabilità della cosiddetta tutela reale del lavoratore licenziato – un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro.
Pertanto, atteso che nel caso in disamina, il lavoratore aveva svolto la propria prestazione lavorativa in modo indifferenziato e contemporaneo in favore di vari imprenditori, facenti parti del medesimo gruppo dotato di un coordinamento tecnico e amministrativo – finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno rigettato il ricorso confermando l'unicità della struttura produttiva e organizzativa e la conseguente applicabilità della tutela reale atteso il dimensionamento occupazionale se “complessivamente” considerato.
L’UTILIZZO NON SPORADICO DELLA RETE INTERNET AZIENDALE PER FINI PERSONALI LEGITTIMA IL RICORSO AL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 14862 DEL 15 GIUGNO 2017.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 14862 del 15 giugno 2017, ha (ri)confermato, che l’utilizzo della rete informatica aziendale per fini personali, non sporadica, legittima l’adozione del provvedimento espulsivo configurandosi quale giusta causa di recesso in relazione agli obblighi del prestatore di diligenza e di fedeltà prescritti dagli artt. 2104 e 2105 C.c..
Nel caso de quo, la Corte d'appello di Bologna confermava la pronuncia del Tribunale della stessa città con cui era stata respinta la domanda proposta da un lavoratore volta a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli per giusta causa. In particolare, la Corte distrettuale osservava che i fatti addebitati, costituiti dall’utilizzo della dotazione aziendale (id: connessione ad internet) per fini personali, non sporadica o eccezionale, ma al contrario sistematica (45 ore complessive nell’arco di due mesi), confermavano la validità del recesso, pur mutando il titolo in giustificato motivo soggettivo, in considerazione dell’assenza di precedenti e dell’esiguità del danno subito dall’azienda.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il lavoratore eccependo la mancata conoscenza preventiva del regolamento aziendale sull’utilizzo degli apparati mobili aziendali nonché violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4, legge n° 300/70, in tema di controllo a distanza dell’attività lavorativa.
Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha (ri)confermato che il comportamento manifestamente contrario all’etica comune, ovvero che si concretizzi in un notevole inadempimento dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e fedeltà, ex artt. 2104 e 2105 c.c., integra la legittimità dell’adozione di provvedimenti espulsivi ex art. 2119 c.c., senza necessità di riscontro delle specifiche ipotesi di comportamento illecito contenute nel cosiddetto codice disciplinare. Nella specie, hanno continuato gli Ermellini, il giudice di merito ha posto in rilievo un utilizzo sistematico, per fini personali, della dotazione aziendale, non solo reiterato, ma anche, e di conseguenza, intenzionale.
Quanto all’eccezione formulata dal dipendente in tema di controllo a distanza dell’attività lavorativa, i Supremi Giudici hanno ricordato che si qualifica controllo a distanza, ai sensi dell’art. 4, legge n° 300/70, l’attività che abbia ad oggetto la prestazione lavorativa ed il suo esatto adempimento, restando esclusa dal campo di applicazione della norma quella che sia volta a individuare la realizzazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, idonei a ledere il patrimonio aziendale sotto il profilo della sua integrità e del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti. Da ultimo, hanno concluso gli Ermellini, si esclude altresì che l’azienda abbia violato le regole che tutelano la riservatezza e la privacy del dipendente in quanto, i dettagli del traffico internet evidenziati nella lettera di contestazione disciplinare (data, ora, durata della connessione e importo del traffico), non costituiscono dati personali, non comportando alcuna indicazione di elementi riferibili alla persona dell’utente e di sue scelte o attitudini politiche, religiose, culturali e sessuali.
NON E’ SOGGETTO AD IRAP IL PROFESSIONISTA, AMMINISTRATORE-SINDACO DI SOCIETA’, SE NON HA STRUTTURA ORGANIZZATIVA.
CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 11474 DEL 10 MAGGIO 2017
La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 11474 del 10 maggio 2017, ha statuito che non è tenuto al pagamento dell’IRAP il commercialista che svolga la sua professione adoperando beni strumentali minimi e avvalendosi del lavoro di terzi senza generare un surplus di guadagno rispetto all’opera intellettuale svolta con le proprie conoscenze. Analogamente, anche l’attività di amministratore, sindaco o revisore di società non implica l’assoggettamento a IRAP, per il quale è indispensabile riscontrare il requisito dell’autonoma organizzazione, che non si verifica neppure se il contribuente operi presso uno studio professionale.
Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno cassato in toto una sentenza dei Giudici Territoriali, accogliendo le doglianze lamentate dagli eredi di un dottore commercialista, relativamente a un avviso di accertamento per omesso versamento dell’IRAP, che nello svolgere numerose cariche come membro di consigli di amministrazione di aziende importanti, aveva percepito a tale titolo ingenti compensi.
Con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno evidenziato come l’attività del commercialista non sia soggetta a IRAP, ad eccezione che si riscontri l’esistenza di un’organizzazione autonoma, a costui riconducibile, in grado di amplificare i compensi della sua attività, rispetto all’opera individuale svolta con le proprie conoscenze e con beni strumentali non eccedenti il minimo indispensabile. Del pari, non può rilevare ai fini IRAP il fatto che il professionista abbia rivestito cariche di amministratore, sindaco o revisore di società, indipendentemente dall’entità dei compensi, atteso che la soggezione scatta solamente in presenza di un’eccedenza degli stessi “rispetto alla produttività auto-organizzata dell’opera individuale”, ed il fatto di operare presso uno studio professionale organizzato non integra, di per sé, il requisito dell’autonoma organizzazione.
SPETTA AL CONTRIBUENTE L’ONERE DI DIMOSTRARE CHE LE ENTRATE PRESUNTE NON ESISTONO O RISULTANO INCASSATE IN MISURA INFERIORE
CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 13041 DEL 24 MAGGIO 2017
La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 13041 del 24 maggio 2017, ha statuito che è onere del contribuente dimostrare che il presunto reddito derivante dal possesso dell’automobile e dell’abitazione principale non esiste o esiste in misura inferiore e quindi non fa scattare il redditometro.
Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno accolto le doglianze dell’Amministrazione finanziaria, ribaltando in toto la decisione della CTR Puglia, per un accertamento nei confronti di un contribuente effettuato con metodo sintetico in base all’applicazione dei coefficienti presuntivi previsti dal DM 10 settembre 1992 e del DM 19 novembre 1992.
Con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno inteso confermare l’applicazione dei coefficienti da parte dell’Agenzia delle Entrate, che aveva accertato, a carico del contribuente, un reddito ben superiore a quello dichiarato, applicando le tabelle contenute nei suddetti decreti ministeriali, basate sui fattori-indice che denotano la capacità di spesa della persona.
In nuce, per la S.C. è legittimo l’accertamento dell’Amministrazione Finanziaria, «in quanto fondato sui predetti fattori-indice, essenzialmente costituiti dal possesso da parte del contribuente di determinati beni (id: auto, abitazione principale), poiché costituiscono quegli elementi e circostanze di fatto certi di cui fa parola il D.P.R. n. 600/1973, art. 38, comma 4, sintomatici di una capacità di spesa da cui deriva la presunta corrispondente disponibilità di un adeguato reddito in capo al soggetto». Pertanto, rimane a carico del contribuente destinatario, ancorché messo nella condizione di difendersi dalla contestazione dell’esistenza di tali fattori, l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste ovvero esiste ma in misura inferiore.
IL VERBALE DI ACCERTAMENTO ISPETTIVO NON HA FEDE PRIVILEGIATA SALVO CHE PER I FATTI AVVENUTI ALLA PRESENZA DELL’ISPETTORE VERBALIZZANTE.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 14863 DEL 15 GIUGNO 2017
La Corte di Cassazione, sentenza n° 14863 del 15 giugno 2017, ha statuito che il verbale ispettivo ha valore di prova piena solo per gli atti avvenuti innanzi al pubblico ufficiale verbalizzante e per le dichiarazioni da esso raccolte.
Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Trento, a conferma della pronuncia di primo grado di Trento, rigettava la domanda di annullamento dell’azienda avverso il verbale della Guardia di Finanza ed i successivi verbali INPS ed INAIL, dai quali emergevano le conseguenze di una differente qualificazione di due rapporti di lavoro da autonomi a subordinati.
Nel caso de quo, gli Ermellini, nel confermare tutto l'iter logico-giuridico dei giudici dell'appello, hanno colto l’occasione per ricordare che nei giudizi i verbali di accertamento fanno piena prova fino a querela di falso, riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale che redige l’atto circa i fatti avvenuti in sua presenza e conosciuti, nonché riguardo alla provenienza del documento e delle dichiarazioni in esso contenute. Invece, la fede privilegiata non si estende agli apprezzamenti e alle valutazioni del verbalizzante. Inoltre, non fanno fede i fatti che i pubblici ufficiali hanno appreso da terzi, né dei fatti della cui verità essi siano convinti sulla base di proprie presunzioni o personali considerazioni logiche.
In conclusione, essendo emerso che i lavoratori non erano realmente autonomi, mancando idonee attrezzature di proprietà (rilevate dai cespiti), usando i materiali e le attrezzature fornite dal committente, oltre all’inserimento stabile nell’organizzazione aziendale, la continuità nel rapporto, l’osservanza di un orario predeterminato e la percezione di un compenso fisso, i giudici nomofilattici hanno ritenuto corretta la diversa qualificazione contrattuale assegnata dai giudici di merito.
Ad maiora
IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO
(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!
Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.
Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro
Modificato: 3 Luglio 2017