28 Giugno 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….
Oggi parliamo di………….

 

L'ALIUNDE PERCEPTUM NON E' DETRAIBILE DAL RISARCIMENTO PER LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO SE L'ATTIVITA' SVOLTA DAL LAVORATORE NEL PERIODO INTERMEDIO E' COMPATIBILE CON LA PROSECUZIONE DELLA PRECEDENTE ATTIVITA' LAVORATIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 17051 DEL 16 GIUGNO 2021.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 17051 del 16 giugno 2021, ha (ri)confermato la indetraibilità dell'aliunde perceptum se l'attività svolta dal lavoratore nel cd. periodo intermedio è compatibile con la prosecuzione contestuale della precedente attività lavorativa.
Nel caso de quo, la Corte Suprema di Cassazione confermava la pronuncia emessa dalla Corte di appello di Napoli di illegittimità del licenziamento intimato da una srl ad un lavoratore, mentre cassava, con rinvio, la parte della decisione con cui era stata rigettata l'eccezione di aliunde perceptum formulata dalla società. Riassunto il giudizio, la Corte territoriale rilevava che era emersa solo una prestazione di lavoro autonomo da parte del lavoratore, a partire da un periodo precedente al licenziamento e da quando, in sostanza, questi era già dipendente della società datrice; che non erano risultate incompatibili le due diverse prestazioni per cui l'eccezione formulata in relazione all'aliunde perceptum, con riguardo all'attività lavorativa espletata dopo il licenziamento era infondata.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società per avere il giudice del rinvio rigettato l'eccezione di aliunde perceptum su una circostanza nuova, ovvero sull'accertamento dell'attività di lavoro autonomo iniziata già prima del licenziamento.
Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso e fatto rilevare che, da un punto di vista processuale, con la riassunzione della causa, per effetto di rinvio, è di fatto, inibita alle parti la eventuale nuova attività istruttoria o assertiva che non dipenda strettamente dalle statuizioni della Suprema Corte. Nella fattispecie, hanno continuato gli Ermellini, la Corte territoriale ha attivato i suoi poteri ex art. 210 c.p.c. proprio per verificare quanto posto dalla SC, a fondamento della cassazione della sentenza e, cioè, lo svolgimento di attività lavorativa del dipendente e dunque la detraibilità dell'aliunde perceptum.
Sotto l'aspetto sostanziale, hanno specificato gli Ermellini, la decisione impugnata risulta corretta giacché, in tema di licenziamento individuale, il compenso per lavoro subordinato o autonomo – che il lavoratore percepisca durante il periodo intercorrente tra il proprio licenziamento e la sentenza di annullamento relativa (cd. periodo intermedionon comporta la riduzione corrispondente (sia pure limitatamente alla parte che eccede le cinque mensilità di retribuzione globale) del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, se – e nei limiti in cui – quel lavoro risulti, comunque, compatibile con la prosecuzione contestuale della prestazione lavorativa sospesa a seguito di licenziamento (come nel caso ricorrente nella specie in cui il lavoro medesimo sia svolto, prima del licenziamento, congiuntamente alla prestazione che risulti sospesa).

 

IL CONTRIBUENTE NON PUÒ CONTESTARE L’ACCERTAMENTO CON DOCUMENTI NON INVIATI DURANTE LA PAUSA ESTIVA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 16757 DEL 14 GIUGNO 2021
La Corte di Cassazione, ordinanza n° 16757 del 14 giugno 2021, ha statuito che il contribuente non può contestare l'accertamento con i documenti chiesti nel mese di agosto dall’Amministrazione Finanziaria nel questionario ma non inviati per via della chiusura estiva, non essendo un motivo valido per non rispondere alle richieste dell’Agenzia fiscale.
Il caso di specie riguarda una contribuente professionista alla quale, durante il mese di agosto, era stato inviato un questionario con obbligatoria allegazione di alcuni documenti, alla cui richiesta non ottemperava non avendo ricevuto materialmente il plico dell’Agenzia delle Entrate essendo in ferie, motivo per cui rispondeva, oltre i termini concessi in sede di accertamento con adesione. Pertanto, l'ufficio destinatario rifiutava l'integrazione documentale ritenendola tardiva.
Con l’ordinanza de qua, i Giudici di piazza Cavour hanno respinto in toto le doglianze della contribuente, ribadendo che in tema di accertamento tributario, occorre distinguere l'ipotesi in cui la richiesta dell'Amministrazione Finanziaria di documenti al contribuente sia stata inviata mediante questionario, da quella in cui sia stata avanzata, nel corso di attività di accesso, ispezione o verifica, atteso che, ferma sempre la necessità in ogni ipotesi, che l'Amministrazione dimostri che vi era stata una puntuale indicazione di quanto richiesto, accompagnata dall'espresso avvertimento circa le conseguenze della mancata ottemperanza.  Nel primo caso, il mancato invio nei termini concessi equivale a rifiuto, determinando l'inutilizzabilità della documentazione in sede amministrativa e contenziosa, salvo che il contribuente non dichiari, all'atto di produrre la suddetta documentazione con il ricorso, che l'inadempimento è avvenuto per causa a lui non imputabile, della cui prova è onerato. Nel secondo caso, la mancata esibizione di quanto richiesto preclude la valutazione a favore del contribuente solo se si traduca in un sostanziale rifiuto di rendere disponibile la documentazione, incombendo la prova dei relativi presupposti di fatto sull'Amministrazione Finanziaria.
In nuce, per la S.C., il mancato invio del questionario nei termini concessi equivale espressamente ad un rifiuto, determinando l'inutilizzabilità della documentazione salvo che il contribuente non dimostri, all'atto di produrre i documenti richiesti con il ricorso, che l'inadempimento sia avvenuto per un motivo a lui non imputabile e per questo motivo non è colpevole di negligenza.

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CHE UTILIZZI IN MANIERA ILLEGITTIMA I PERMESSI EX LEGGE N. 104/1992

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 17102 DEL 16 GIUGNO 2021
La Corte di Cassazione, ordinanza n° 17102 del 16 giugno 2021, ha affermato la legittimità del licenziamento disciplinare intimato in seguito all’accertamento di un utilizzo illegittimo dei permessi previsti dalla Legge n. 104/1992.
Nel caso in oggetto, un lavoratore adiva il Tribunale per impugnare il licenziamento intimato dal datore di lavoro per giusta causa. L’atto di recesso veniva notificato a seguito di accertamento investigativo privato ad opera del datore di lavoro, che aveva evidenziato un uso fraudolento dei permessi ex Legge n. 104/92, richiesti dal lavoratore per assistere la madre, ma utilizzati in due diverse occasioni per lo svolgimento di attività incompatibili con l’assistenza e volte unicamente a soddisfare un interesse personale del dipendente.
Sia in primo che in secondo grado il ricorso veniva rigettato, in quanto a parere dei Giudici di merito erano state correttamente applicate le previsioni del contratto collettivo ed in particolare la disposizione che prevedeva l’applicazione della sanzione espulsiva, quale reazione a comportamenti e violazioni dolosamente gravi al punto da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Il lavoratore ricorreva dunque in Cassazione. La Suprema Corte ha confermato la sentenza dei Giudici di merito; infatti, sulla base di un consolidato principio giurisprudenziale si deve ritenere che i permessi previsti dalla Legge n. 104/1992 devono essere fruiti in relazione causale diretta rispetto allo scopo per cui sono stati istituiti, ossia assistenza a persone che presentino disabilità. Ciò comporta che un utilizzo estraneo a detto scopo determina la violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro, che nei confronti dell’ente previdenziale e tale comportamento diventa rilevante dal punto di vista disciplinare. Nel caso in esame, le attività svolte dal dipendente durante la fruizione del permesso (andare al supermercato e recarsi al mare con la famiglia) mancavano di qualsiasi collegamento con l’intento di assistenza alla madre; pertanto, il suo comportamento ha configurato un abuso di un diritto posto in essere con dolo, donde ha determinato il recesso “in tronco” dal rapporto di lavoro.

 

IL DIRITTO ALLA RETRIBUZIONE PER IL TEMPO TUTA SORGE SOLO NEL CASO IN CUI SIA IL DATORE DI LAVORO A DETERMINARNE LE MODALITÀ

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 15763 DEL 7 GIUGNO 2021
La Corte di Cassazione, ordinanza n° 15763 del 7 giugno 2021, ha statuito che il tempo tuta non determina il diritto alla retribuzione nel caso in cui il datore di lavoro non eserciti il suo potere di eterodirezione con riferimento ai tempi ed ai luoghi in cui eseguire le operazioni di vestizione e svestizione degli abiti da lavoro.
Nella fattispecie in oggetto, un gruppo di lavoratori proponeva ricorso in Cassazione contro la sentenza della Corte d’Appello, che riformava parzialmente la pronuncia del Tribunale. In primo grado i lavoratori ricorrevano giudizialmente contro il datore di lavoro per chiedere il riconoscimento della retribuzione con riferimento al periodo di tempo impiegato per la vestizione e per indossare i dispositivi di protezione individuale.
Orbene, la Corte Distrettuale aveva dichiarato infondata la domanda, giacché non c’era da parte del datore di lavoro un’imposizione con riferimento alle modalità di vestizione.
La Suprema Corte ha (ri)affermato che nel lavoro subordinato il cosiddetto “tempo tuta”, necessario per indossare l’abbigliamento da lavoro. rappresenta tempo lavorativo solo laddove caratterizzato dall’eterodirezione del datore di lavoro, in caso contrario, e come messo in evidenza da alcune pronunce precedenti, l’attività di vestizione rientra nella normale diligenza richiesta al lavoratore, inclusa nell’obbligazione principale posta a carico dello stesso e pertanto non autonomamente retribuita. Nel caso in oggetto, non era stato rilevato l’esercizio di un potere circa il modo, il tempo ed il luogo della vestizione, giacché i lavoratori potevano, per consuetudine aziendale, recarsi al lavoro avendo già indossato gli abiti da lavoro e rientrare al loro domicilio senza la svestizione degli stessi. Inoltre, non è stata ritenuta rilevante ai fini della prova dell’eterodirezione la circostanza che il datore di lavoro avesse messo a disposizione dei lavoratori servizi quali spogliatoi, docce e lavanderia, in quanto il loro utilizzo era ritenuto una facoltà e non un obbligo.
Pertanto, per le ragioni esposte, la Cassazione rigettando il ricorso, ha confermato la sentenza della Corte d’Appello.

 

DICHIARARE L’INTENZIONE DI PROCEDERE AL LICENZIAMENTO EX ART. 7 L.604/66 NON EQUIVALE A LICENZIAMENTO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 15118 DEL 31 MAGGIO 2021
La Corte di Cassazione, sentenza n° 15118 del 31 maggio 2021, ha chiarito inequivocabilmente la differenza tra l’espressione “intenda licenziare” di cui all’art. 24 L. n. 223/91, chiara manifestazione della volontà di recedere dal contratto e l’espressione “deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo” ai sensi dell’art. 7 L. n. 604/66 che è invece tesa ad intraprendere la procedura di compensazione (o conciliazione) dinanzi alla ITL, e non può quindi ritenersi di per sé un licenziamento.
Nel caso in commento, una lavoratrice, responsabile della gestione commerciale di alcune commesse, proponeva ricorso per la declaratoria di illegittimità del licenziamento in tronco subito, a suo dire, per la necessità dell’azienda datrice di ridurre i costi fissi. La dipendente sottolineava che la scelta era avvenuta per mera opportunità d’impresa, che avrebbe potuto, inoltre, essere reimpiegata in altre società del gruppo per le quali aveva già prestato la sua opera e che il suo licenziamento dovesse essere ricompreso in una procedura di licenziamento collettivo.
Incassato il rigetto del Tribunale, la lavoratrice ricorreva in Appello. I Giudici di seconde cure, accertato il licenziamento collettivo e la mancata attivazione da parte della società datrice di lavoro della procedura di cui all’art. 24, comma 1 quinquies L. n. 223/91, condannava la società a pagare alla ex dipendente un’indennità pari a 18 mensilità.
La società ricorreva quindi in Cassazione deducendo la violazione dell’art. 24 L. n. 223/91 riguardo il profilo dell’erronea equiparazione dell’intenzione di recedere ex art. 7 l. n. 604/66 ad un vero e proprio licenziamento; per la difesa, infatti, nell’arco dei 120 giorni sarebbero avvenuti non dei veri e propri licenziamenti ma solo dichiarazioni dell’intenzione di recedere. Secondo gli Ermellini l’espressione “intendano effettuare almeno 5 licenziamenti” di cui all’art. 24 l. n. 223/91 è una chiara manifestazione della volontà di recesso, sebbene i licenziamenti non possano essere intimati se non successivamente all’iter procedurale di legge, mentre è ben diversa l’espressione utilizzata dal legislatore all’art.7 L. n.604/66 “deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo” che non può ritenersi di per sé un licenziamento, essendo imposta per intraprendere la nuova procedura di conciliazione dinanzi alla ITL. Inoltre, secondo l’art. 1, par. 1, comma 1, lett. a) della Direttiva 98/59/CE, in materia di licenziamenti collettivi, “rientra nella nozione di licenziamento il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente ed a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro, anche su richiesta del lavoratore medesimo”; pertanto, nel novero dei 5 licenziamenti utili a configurare un licenziamento collettivo, non possono includersi altre differenti ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all’iniziativa del datore di lavoro.
In conclusione, per i menzionati motivi, gli Ermellini hanno accolto il ricorso, cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte d’Appello.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 28 Giugno 2021