27 Giugno 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

AL DETENUTO CHE LAVORA IN CARCERE SPETTA IL “MINIMO ASSOLUTO”

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 8792/2022 DEL 17 MARZO 2022

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 8792/2022 del 17 marzo 2022, ha stabilito che al detenuto che lavori presso il carcere di detenzione spetta il c.d. “minimo assoluto” pari ai due terzi dell'importo fissato dal CCNL di riferimento.

Nel caso in trattazione la Corte di Appello, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda di un detenuto, proposta nei confronti del Ministero della Giustizia, avente ad oggetto la condanna di quest'ultimo al pagamento degli emolumenti lavorativi per l'attività svolta con mansioni di “scopino” dal 21 ottobre 2002 al 21 luglio 2005 presso la casa circondariale presso la quale era detenuto.

I giudici d'Appello, non diversamente dal Giudice di prime cure, avevano ritenuto generiche le allegazioni in fatto in ordine alla prestazione resa e, in ragione di ciò, non invocabili ai fini della prova il ricorso ai poteri istruttori del giudice ed il principio di non contestazione. L’ex detenuto presentava ricorso per la cassazione della sentenza con diversi motivi di doglianza tra i quali la violazione e la falsa applicazione dell’art.22 della Legge n. 354/1975, lamentando che la pronunzia della Corte territoriale non fosse conforme a diritto relativamente alla carenza di allegazione e prova dei fatti posti a base della domanda. Il ricorrente, infatti, sosteneva che le deduzioni svolte fossero sufficienti a richiedere quanto previsto dalla norma richiamata intesa a stabilire, in relazioni alle mansioni affidate ed alle prestazioni in concreto rese, un minimo di retribuzione inderogabile e pari ai due terzi dell'importo fissato dal CCNL di riferimento.

La Suprema Corte riteneva fondate le doglianze. Per gli Ermellini, infatti, la domanda del ricorrente era effettivamente volta a conseguire il cosiddetto "minimo assoluto", ovvero quel trattamento retributivo pari ai due terzi dell'importo fissato dal CCNL di riferimento che il citato articolo art.22 L. 354/1975 prevede come inderogabilmente spettante, rispetto al quale risultava congrua la deduzione in fatto, ricavabile dal ricorso introduttivo, degli elementi riguardanti le mansioni assegnate e l'indicazione in concreto delle mansioni svolte, rivelandosi, di contro, del tutto ultronee le allegazioni in relazione al cui difetto la Corte territoriale aveva ritenuto la genericità del ricorso, ovvero le allegazioni relative all'orario, all'articolazione del medesimo, alle ore di straordinario, alle ferie non godute, all'indicazione specifica delle voci retributive rivendicate e all'inquadramento.

In conclusione, la Corte cassava la sentenza e rinviava alla Corte d’Appello in diversa composizione.

 

I PRELEVAMENTI GIORNALIERI DAL CONTO CORRENTE BANCARIO PER ESIGENZE DI CASSA INTEGRANO LA PROVA DELLA RICONDUCIBILITA' DELLE MOVIMENTAZIONI ALL'ATTIVITA' DI IMPRESA.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.12599  DEL 20 APRILE 2022.

La Corte di Cassazione – sentenza n°12599 del 20 aprile 2022 – ha statuito, in tema di indagini finanziarie aventi ad oggetto le movimentazione sui conti bancari, che i molteplici prelevamenti in contanti possono trovare giustificazione nelle esigenze di gestione rispetto all'attività esercitata.

Nel caso de quo, ad un imprenditore, esercente attività di tabaccheria, era stato notificato un avviso di accertamento con cui l'Agenzia delle Entrate, all'esito di indagini finanziarie aventi ad oggetto le movimentazione sui conti bancari, aveva determinato un maggiore reddito imponibile per Euro 71.766,16. In particolare, si trattava di molteplici prelievi giornalieri di modesti importi compresi tra i 200 e i 500 euro che, ad avviso del fisco, non erano stati puntualmente giustificati dal contribuente.

Invero, il contribuente aveva offerto la prova, attraverso plurimi elementi indiziari, che le somme prelevate erano destinate ad esigenze dell'attività commerciale di tabaccaio e, segnatamente, per procurarsi moneta spicciola da utilizzare come resto per i clienti che pagavano gli acquisti con banconote di grosso taglio.

L'Agenzia delle Entrate, soccombente in entrambi i gradi di giudizio, ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza emessa dalla CTR, eccependo l'errore commesso dai giudici di merito per aver dichiarato raggiunta la prova liberatoria del contribuente basata su presunzioni ed elementi del tutto generici.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto  il ricorso ribadendo, in ordine alla ripartizione dell'onere della prova ed alla presunzione legale nascente ex art. 32, comma 1, n.2, DPR n°600/73, che questa  può essere vinta dal contribuente soltanto se offre la prova liberatoria che dei movimenti sui conti bancari egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che gli accrediti e gli addebiti registrati sui conti non si riferiscono ad operazioni imponibili, occorrendo all'uopo che vengano indicati e dimostrati dal contribuente la provenienza e la destinazione dei singoli pagamenti con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti attivi e passivi, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti e dei prelievi.

Nel caso in specie, hanno continuato gli Ermellini, la prova della riferibilità delle movimentazioni in uscita dal conto corrente alle dedotte esigenze di gestione della tabaccheria era stata tratta, da plurimi e circostanziati elementi costituiti: a) dai modesti importi dei prelevamenti variabili tra euro 200,00 e euro 500,00; b) dal fatto che il contribuente versava in conto settimanalmente in un'unica soluzione una somma corrispondete alla sommatoria dei prelievi effettuati nello stesso periodo; c) dalla indicazione della banca, dopo aver aggiornato il proprio software informatico negli ultimi mesi del periodo di imposta, della causale "prelevamento moneta" o "prelievo spiccioli".

Da ultimo, hanno concluso gli Ermellini, stante la cadenza giornaliera dei prelievi di modesto importo è pressocché impossibile pretendere che il contribuente possa fornire in modo analitico la prova della destinazione di ciascuna operazione.

 

PER LA CASSAZIONE IN CASO DI CRISI DI LIQUIDITÀ A CAUSA DI RILEVANTI INSOLUTI DEI CLIENTI, NON C’È REATO PER EVASIONE IVA

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N.19651 DEL 19 MAGGIO 2022

La Corte di Cassazione, con la sentenza n.19651 del 19/05/2022, ha statuito che l'omesso versamento dell'Iva, dipeso dal mancato incasso di crediti, non esclude la sussistenza del dolo richiesto dall'art. 10-ter del Dlgs. n. 74/2000, trattandosi di inadempimento riconducibile all'ordinario rischio d'impresa, sempre che tali insoluti siano contenuti entro una percentuale da ritenersi fisiologica, ed in tale contesto, è da considerare sicuramente non fisiologica una percentuale di insoluti per oltre il 40% del fatturato, cui segua una gravissima crisi di liquidità. Ne consegue che se il mancato incasso si attesta in una percentuale particolarmente rilevante, può essere esclusa la colpevolezza dell'imputato.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno accolto le doglianze di un imprenditore accusato di non aver versato l'Imposta sul Valore Aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale presentata per conto della società, per un ammontare complessivo di oltre 940mila euro, che, tra l’altro, lamentava vizi della motivazione in relazione alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato o dell'esimente della forza maggiore.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno evidenziato che nel reato considerato, ai fini dell'esclusione dell'elemento soggettivo del reato, è irrilevante la crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, a meno che non venga dimostrato che siano state adottate tutte le iniziative possibili per provvedere alla corresponsione del tributo, anche attingendo al patrimonio personale.

In nuce, per la S.C., la richiesta di accertamento dell'esistenza della crisi economica in cui versava la società, l'entità e consistenza degli sforzi effettuati per fronteggiarla e la presenza di insoluti per un importo particolarmente rilevante da parte dei principali clienti, sono circostanze che, alla luce dei principi giurisprudenziali di orientamento, devono essere considerate ai fini della valutazione della colpevolezza dell'imputato.

 

I TURNI DI REPERIBILITÀ CHE VINCOLINO IN MANIERA RILAVANTE LA DISPONIBILITÀ DI TEMPO LIBERO DEL LAVORATORE SONO DA CONSIDERARSI ORARIO DI LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 16582 DEL 23 MAGGIO 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 16582 del 23 maggio 2022, statuisce che quando i turni di reperibilità pongano vincoli di una tale intensità da incidere in maniera rilevante sul tempo libero del lavoratore, tali periodi siano assimilabili ad orario di lavoro.

Nel caso in esame, i lavoratori dipendenti assegnati alla direzione "Protezione civile" di un ente locale, adivano il Tribunale al fine di ottenere il risarcimento del danno per le ore di reperibilità superiori alle dodici ore giornaliere, nonché per il superamento delle sei giornate di reperibilità in un mese e per la mancata fruizione del riposo compensativo dopo i turni di reperibilità, quando effettuati nella giornata di riposo settimanale. Sia il Tribunale, che la Corte d’Appello, avevano accertato tali diritti, escludendo però il diritto al pagamento delle indennità di disagio e di disponibilità.

Contro la sentenza di merito, l’ente locale interessato proponeva ricorso  in Cassazione.

Secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, nei casi in cui il servizio di reperibilità sia effettuato nel giorno di riposo settimanale e di mancata fruizione del riposo compensativo spetta al lavoratore un adeguato risarcimento per il danno da usura. A ciò si aggiunge che spetta al datore di lavoro garantire il riposo compensativo della reperibilità, predisponendo i relativi turni.

Tali principi si ritengono coerenti con l’interpretazione data dalla Corte di Giustizia Europea con riferimento alla direttiva 2003/88/CE, secondo la quale può essere qualificato "orario di lavoro" il tempo di reperibilità, anche nel caso in cui manchi un obbligo del dipendente di permanere sul luogo di lavoro, in ragione delle conseguenze che il complesso dei vincoli imposti al lavoratore comporta per la sua facoltà di gestire liberamente il tempo "di attesa". Qualora si tratti di vincoli di intensità tale da incidere in maniera significativa sulla sua facoltà di gestire il suo tempo libero, allora tale periodo di tempo è qualificabile come orario di lavoro. La valutazione deve essere effettuata prendendo in considerazione il termine di cui dispone il lavoratore per riprendere le proprie attività professionali, a partire dal momento in cui il datore di lavoro lo richieda, nonché la frequenza media degli interventi che il dipendente è effettivamente chiamato a garantire durante detto periodo.

 

IL COMPORTAMENTO ANTIECONOMICO DI UN’AZIENDA VA SEMPRE VALUTATO, ANCHE NELL’IMMINENZA DI UNA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO

CORTE DI CASSAZIONE –ORDINANZA 17187 del 27/05/2022

La vendita sottocosto di alcuni prodotti, anche nell’imminenza di una crisi d’impresa, ed anche se tesa al mantenimento della clientela, non può giustificare il disconoscimento delle risultanze di un Processo Verbale di Constatazione.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione nell’esaminare il ricorso dell’Agenzia delle Entrate avverso una sentenza favorevole al contribuente emessa dalla Commissione Tributaria Regionale dell’Umbria.

Nel caso in esame un contribuente si era visto recapitare un PVC da parte dell’Agenzia delle Entrate, con il quale veniva rideterminato il reddito imponibile del contribuente nell’anno precedente la messa in liquidazione (a cui fece seguito il fallimento) dell’impresa.

Il contribuente aveva eccepito, e la Commissione Tributaria Regionale aveva accolto, la tesi secondo cui le vendite effettuate in quel periodo d’imposta erano state effettuate mediante la vendita sottocosto al solo fine di conservare la clientela e proseguire la gestione caratteristica dell’impresa.

Nel PVC però erano analiticamente indicati i costi del venduto (ovvero il semplice costo dei prodotti venduti, escluso quindi il margine imprenditoriale), che indicavano una percentuale di ricavi, rispetto al costo dei prodotti, di appena il 44%, ovvero per meno della metà del valore dei beni venduti.

L’accoglimento del ricorso del contribuente, stante tale abnorme differenza tra il costo del venduto ed i ricavi non era stata adeguatamente motivata dai Giudici d’Appello, che avrebbero invero dovuto procedere alla considerazione dell’intrinseca antieconomicità della gestione, la cui giustificazione non può risiedere solo sul convincimento che tale condotta avrebbe potuto portare maggiori vendite negli esercizi successivi, giacché “l’irragionevolezza del dato contabile medesimo onera il giudice del merito di specificare le ragioni per le quali ritiene che l'antieconomicità del comportamento imprenditoriale del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie, con particolare riferimento ad una persistente perdita del profitto negli anni di esercizio e a un reddito di esercizio negativo (Cass., Sez. V, 14 ottobre 2020, n. 22185; Cass., Sez. VI, 3 giugno 2021, n. 15344)”.

Specifica infatti la Corte di Cassazione che nell’analisi dei componenti positivi di reddito fa da contraltare l’analisi sistematica dei costi sostenuti per produrre i beni ceduti, che nel caso di specie “ha mostrato un risultato privo di ogni logica imprenditoriale, in quanto ha mostrato un andamento dei ricavi inferiore al suddetto (parziale) costo di produzione, conseguente al costo dei fattori produttivi concretamente individuati dall’Ufficio direttamente utilizzati per la vendita dei beni e dei sevizi. I ricavi delle vendite non sono stati, pertanto, in grado di remunerare neanche alcuni dei fattori produttivi”.

In tali circostanze il Giudice d’Appello avrebbe invece dovuto maggiormente motivare il convincimento che tali scelte imprenditoriali non siano state invece frutto di un comportamento elusivo, ed in violazione delle norme tributarie.

La Corte di Cassazione censura quindi il comportamento della Commissione Tributaria Regionale e rinvia la questione alla stessa Corte, in diversa composizione, per la disanima della questione.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
    Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 27 Giugno 2022