17 Luglio 2017
Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….
Oggi parliamo di………….
LA NOZIONE DI GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO DEL LICENZIAMENTO COMPRENDE ANCHE L’IPOTESI DEL RIASSETTO ORGANIZZATIVO PER UNA EFFETTIVA NECESSITA’ DI RIDUZIONE DEI COSTI.
CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 14871 DEL 15 GIUGNO 2017.
La Corte di Cassazione, ordinanza n° 14871 del 15 giugno 2017, ha statuito che la nozione di licenziamento cd. economico, ovvero per giustificato motivo oggettivo, comprende l’ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa.
Nel caso de quo, la Corte di Appello di Cagliari aveva accolto il gravame di una lavoratrice dipendente di una Congregazione e, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo alla stessa intimato a causa della soppressione del posto di lavoro (id: Responsabile della gestione di una residenza sanitaria assistita) e affidamento delle relative mansioni ad una religiosa già operante nella struttura e, per la parte residua dei compiti già svolti dalla lavoratrice licenziata, a consulenti esterni e ad alcuni dipendenti già in forza. Il Giudice di Appello aveva altresì condannato la Congregazione alla reintegrazione dell'appellante nel posto di lavoro e al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella dell'effettiva reintegra.
Contro la decisione ha proposto ricorso per cassazione la Congregazione eccependo la mancata considerazione che non è di ostacolo alla sussistenza di un giustificato motivo oggettivo l'affidamento ad altri lavoratori in servizio dell'attività (o di una parte di essa) in precedenza espletata da lavoratori licenziati, né l'affidamento a terzi di segmenti produttivi, e che nella nozione di giustificato motivo oggettivo può essere ricondotta anche l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa.
Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ed ha precisato che, "ai fini della configurabilità' dell'ipotesi di soppressione del posto di lavoro, integrante giustificato motivo oggettivo di licenziamento, non e' necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite secondo insindacabili scelte imprenditoriali relative all'organizzazione imprenditoriale, senza che con ciò venga meno l'effettività di tale soppressione”.
In particolare, hanno rimarcato gli Ermellini dando continuità a precedenti orientamenti giurisprudenziali (id: Cass. 21282/2006), nella nozione di g.m.o. di licenziamento è riconducibile anche l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall'imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo un'effettiva necessità di riduzione dei costi. Tale motivo oggettivo è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il Giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost., mentre al Giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore, con la conseguenza che non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato, non essendo, peraltro, necessario, ai fini della configurabilità del giustificato motivo, che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite.
NON COMMETTE REATO L'AMMINISTRATORE CHE OMETTA IL VERSAMENTO DEI CONTRIBUTI ENASARCO PER GLI AGENTI DI COMMERCIO.
CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 31900 DEL 3 LUGLIO 2017.
La Corte di Cassazione – III Sezione Penale -, sentenza n° 31900 del 3 luglio 2017, ha statuito, in tema di omissione di contributi Enasarco a favore di agenti e rappresentanti di commercio, che l'omissione da parte della casa mandante non costituisce reato ma costituisce comportamento sanzionato in via amministrativa.
Nel caso in esame, a parere del Tribunale di Brescia, l’amministratore che non ha provveduto al versamento Enasarco delle ritenute previdenziali operate sulle fatture provvisionali degli agenti di commercio, vìola l’obbligo di versamento delle ritenute istituito dall’art. 2 del decreto legge 463/1983 . Tuttavia, poiché il reato è stato depenalizzato in relazione ad importi inferiori a 10mila euro annui (in base al decreto legislativo 8/2016), il Giudice ha trasmesso gli atti all’Inps per le irregolarità non ancora prescritte.
L'amministratore, insoddisfatto, ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza.
Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ed ha annullato la sentenza senza rinvio perché il fatto non sussiste per mancanza dell'elemento oggettivo del reato contestato. In particolare, gli Ermellini hanno ricordato che gli agenti di commercio non sono lavoratori dipendenti ma, a seconda dei casi, autonomi o parasubordinati e pertanto, non si applica l’obbligo previsto dall’articolo 2 del D.L. 463/1983 che si riferisce solo ai lavoratori dipendenti.
Inoltre, l'art. 33 comma 1, della legge n°12/1973 prevedeva in via autonoma il reato di omesso versamento dei contributi per gli agenti o rappresentanti di commercio, poi depenalizzato, ed ora ai sensi dell'art. 36, comma 1, del regolamento Enasarco l'omissione dei pagamenti è sanzionata in via amministrativa con una sanzione, in ragione d'anno, pari al Tasso Ufficiale di Riferimento maggiorato di 5,5 punti. Conseguentemente, i Supremi Giudici hanno affermato il seguente principio di diritto: “l’omesso versamento dei contributi Enasarco per gli agenti di commercio non configura il reato di cui all’art. 2, D.L. 2 settembre 1983, n. 463, previsto solo per le omissioni dei pagamenti relativi alle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e non anche per altre omissioni relative a lavoratori non dipendenti, ma è sanzionato in via amministrativa dall’art. 36 del regolamento Enasarco”.
L’ASSEGNO BANCARIO A SALDO DEI COMPENSI DEI PROFESSIONISTI RILEVA, AI FINI REDDITUALI, ALLA DATA DEL VERSAMENTO SUL CONTO CORRENTE INDIPENDENTEMENTE DALLA DATA DELLA VALUTA.
CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 15439 DEL 21 GIUGNO 2017.
La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 15439 del 21 giugno 2017, ha statuito che, in base al principio di cassa, l’assegno bancario incassato da un professionista rileva ai fini reddituali alla data in cui viene percepito indipendentemente dalla data di valuta.
IL FATTO
Un professionista, a seguito di una prestazione eseguita, riceveva un assegno bancario incassato a fine anno 2004, ma provvedeva ad emettere fattura solo nel 2005 e, quindi, a dichiarare il compenso in quest’ultimo anno.
L’Agenzia delle Entrate provvedeva a riprendere a tassazione l’operazione, ritenendo che il compenso andava dichiarato nel 2004.
La C.T.P. accoglieva il ricorso del contribuente, mentre, i Giudici di secondo grado, ritenevano legittima la ripresa a tassazione operata dall’Ufficio con riferimento a compensi percepiti dal professionista nel 2004, ma fatturati nell’anno successivo. In particolare la C.T.R. riteneva di non applicare le sanzioni, in quanto il professionista, in perfetta buona fede, aveva comunque fatturato il compenso e corrisposto le imposte dovute.
Avverso detta pronuncia l’Agenzia delle Entrate ricorreva per Cassazione.
Il contribuente, dal canto suo, resisteva con controricorso e ricorso incidentale, insistendo nell’affermazione della legittimità del proprio comportamento, in ragione del fatto che il compenso, corrisposto a mezzo di assegno bancario, versato sul conto corrente di pertinenza del contribuente, era stato reso disponibile proprio nel 2005, anno d’imputazione del reddito, con valuta 10 gennaio.
Di opposto avviso l’Amministrazione finanziaria, secondo cui la valuta individua solo il momento della decorrenza degli interessi e non già la disponibilità della somma che, “in caso di pagamento a mezzo di assegno bancario, va fissata al momento della percezione del titolo di credito da parte del prenditore dell'assegno”, ciò che è avvenuto pacificamente il 30 dicembre 2004.
Orbene, i Giudici di Piazza Cavour nel respingere il ricorso incidentale del contribuente e accogliendo integralmente quello dell’Amministrazione finanziaria, nelle motivazioni di sentenza hanno specificato quanto segue: “Il fatto che la dazione dell’assegno bancario sia "salvo buon fine" non impedisce di commisurare alla data della percezione del titolo la disponibilità della somma, laddove, come nella fattispecie in esame, non sia in contestazione l’esistenza della provvista sufficiente al regolare pagamento del titolo”.
Pertanto, gli Ermellini hanno ritenuto fondato il ricorso principale dell’Agenzia delle Entrate con il quale si denunciava violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 5 del D.Lgs. 472/1997, osservando come “l’esclusione dell’applicazione delle sanzioni nella fattispecie in esame da parte del Giudice tributario d’Appello si ponesse in contrasto col fondamento del regime sanzionatorio, basato sulla colpa”.
In conclusione, i Giudici di legittimità hanno osservato che la “perfetta buona fede” rilevata dalla C.T.R. “risultava contraddetta dalla violazione da parte del contribuente del principio di cassa rispetto al disposto dell’art. 6 del D.P.R. n. 633/1972 circa la fatturazione, in relazione al quale non è configurabile alcun margine di incertezza normativa.”
LA MATERNITA’ NON PAGATA E CHIESTA A RIMBORSO NON COSTITUISCE REATO SE INFERIORE A EURO 3.999,60.
CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 30291 DEL 16 GIUGNO 2017
La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 30291 del 16 giugno 2017, ha statuito che non deve essere contestato il reato, né la sanzione ex D.Lgs. 231/2001 per la responsabilità amministrativa della società, se il datore ha simulato di pagare la maternità alla lavoratrice soltanto al fine di ottenere dall’INPS il conguaglio sulle somme dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, quando la somma “incriminata” è modesta. Infatti, essendo la soglia di rilevanza penale fissata a 3.999,60 euro, non risulta posta in essere la truffa aggravata ma l’indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato e, pertanto, si configura soltanto un illecito amministrativo, che esclude l’applicabilità della sanzione prevista a carico della società in base agli artt. 5 e 24 del D.Lgs. n. 231/2001.
Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno accolto il ricorso del difensore dell’amministratore e della società avverso le conclusioni del sostituto procuratore generale.
Per la S.C., quando il datore espone, contrariamente al vero, di aver versato al lavoratore somme a titolo di malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni e ottiene il conguaglio INPS, percepisce indebitamente le relative erogazioni, che non devono consistere in una somma di denaro: si configura così il delitto ex art. 316-ter C.P. e non la truffa aggravata contestata o l’indebita compensazione ex art. 10-quater del D.Lgs. n. 74/2000. Pertanto, se la somma percepita indebitamente resta sotto i 3.999,60 euro, si configura esclusivamente un illecito amministrativo.
IL VERBALE DI ACCERTAMENTO INPS, ANCHE SE PRIVO DEL QUANTUM DEBEATUR, COSTITUISCE ATTO INTERRUTTIVO DELLA PRESCRIZIONE.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 16676 DEL 6 LUGLIO 2017
La Corte di Cassazione, sentenza n° 16676 del 6 luglio 2017, ha statuito che il verbale di accertamento Inps, con indicazione delle omissioni contributive, costituisce atto interruttivo dei termini prescrizionali.
Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Venezia, a conferma della pronuncia di primo grado, rigettava la domanda di annullamento dell’opposizione avverso il ruolo relativo alla cartella di pagamento per il recupero dei contributi INPS, riferito a tre dipendenti agricoli.
I Giudici dell’Appello ritenevano che il verbale regolarmente notificato interrompesse i termini prescrizionali, ancorché non contenesse la quantificazione del credito.
Nel caso de quo, gli Ermellini, nel confermare tutto l'iter logico giuridico dei Giudici dell'Appello, hanno ricordato che in tema di omissioni contributive, il verbale di accertamento dell’omissione contributiva vale a costituire in mora il debitore ai sensi dell’art. 2943 del c.c. e, quindi, ad interrompere il termine prescrizionale.
In particolare, la messa in mora non necessità di particolare formalità, ovvero di quantificazione del credito, avendo la sola finalità di porre a conoscenza del debitore il relativo credito vantato.
In conclusione, il verbale di accertamento notificato ritualmente, pur carente della quantificazione del credito, ma contenete tutti gli elementi utili a quantificare (giornate, minimali ecc.), come è stato poi accertato, costituisce atto interruttivo dei termini prescrizionali.
Ad maiora
IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO
(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!
Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.
Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro
Modificato: 17 Luglio 2017