13 Luglio 2020
Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….
Oggi parliamo di………….
LA CLAUSOLA DEL CONTRATTO INDIVIDUALE DI LAVORO CHE PREVEDE UN PERIODO DI PROVA DI DURATA MAGGIORE RISPETTO A QUANTO STABILITO DAL CCNL PUO' ESSERE LEGITTIMA SE CONSEGUE ALLA COMPLESSITA' DELLE MANSIONI.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 9789 DEL 26 MAGGIO 2020.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 9789 del 26 maggio 2020, ha statuito, in tema di legittimità del patto di prova, che la durata maggiore rispetto a quanto stabilito dalla contrattazione collettiva è legittima se il prolungamento comporta una posizione di favore per il lavoratore, con onere probatorio gravante sul datore di lavoro.
Nel caso de quo, la Corte di Appello di Bologna confermava la sentenza del Giudice del lavoro del Tribunale di Parma che aveva respinto la domanda proposta da un lavoratore nei confronti della società datrice di lavoro avente ad oggetto l'accertamento della nullità del patto di prova della durata di sei mesi apposto al contratto di lavoro prima della partenza del lavoratore in un Paese extra comunitario. In particolare, ai fini del rilascio dell'autorizzazione ministeriale per l'assunzione del lavoratore all'estero, l'azienda aveva formalizzato apposita domanda in cui era stato specificato che i rapporti di lavoro sarebbero stati regolamentati "sulla falsariga del c.c.n.l. 19 aprile 2010 imprese edili e affini" che prevedeva, per la qualifica e mansioni del lavoratore, un periodo di prova della durata massima di 5 mesi. Sul punto, la Corte aveva argomentato concludendo che nel contratto oggetto dell'autorizzazione ministeriale la maggiore durata del periodo di prova appariva giustificabile in relazione alle maggiori difficoltà di inserimento del dipendente in un contesto lavorativo di un Paese diverso e distante dall'Italia e che, quindi, la clausola derogatoria introdotta fosse sorretta da motivazioni plausibili e non fosse di per sé peggiorativa rispetto le previsioni del c.c.n.l..
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il lavoratore eccependo che, non sussisteva alcuna ragione che potesse giustificare un periodo di prova di sei mesi, maggiore rispetto a quello previsto dalla contrattazione collettiva per gli impiegati di sesto livello, come il ricorrente.
Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ricordando che l'assunzione autorizzata dal Ministero del Lavoro prevede, ai sensi della Legge n°398/87 (applicabile ratione temporis) che il "trattamento economico-normativo offerto" deve essere "complessivamente non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di lavoro vigenti in Italia per la categoria di appartenenza del lavoratore". L'istituto di cui si discute (patto di prova), hanno continuato gli Ermellini, è di carattere normativo e non economico e non presenta connotati tali da non potere essere applicato allo stesso modo sia in Italia che nel Paese estero.
Invero, la clausola del contratto individuale di lavoro con cui sia previsto un periodo di prova di durata maggiore di quella massima prevista dal contratto collettivo applicabile al rapporto – fermo restando il limite di sei mesi di cui alla legge n°604/66, art. 10 – può ritenersi legittima solo nel caso in cui la particolare complessità delle mansioni di cui sia convenuto l'affidamento al lavoratore renda necessario, ai fini di un valido esperimento e nell'interesse di entrambe le parti, un periodo più lungo di quello ritenuto congruo dalle parti collettive per la normalità dei casi; il relativo onere probatorio ricade sul datore di lavoro, a cui la maggiore durata del periodo di prova attribuisce una più ampia facoltà di licenziamento per mancato superamento della prova.
Atteso che la clausola con cui il patto di prova è fissato in un termine maggiore deve ritenersi più sfavorevole per il lavoratore, salvo che il prolungamento sia stato posto a favore del lavoratore, con onere probatorio a carico del datore di lavoro, la sentenza è stata cassata con rinvio alla Corte di Bologna in diversa composizione per il riesame del merito.
L’ACCERTAMENTO INDUTTIVO DEL MAGGIOR REDDITO, DA PARTE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE, IMPONE DI CONSIDERARE NELLA DETERMINAIZONE DEL REDDITO IMPONIBILE ANCHE I COSTI SIA PURE DETERMINATI INDUTTIVAMENTE.
CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 13119 DEL 30 GIUGNO 2020
La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 13119 del 30 giugno 2020, ha statuito che in caso di accertamento induttivo, l’Agenzia delle Entrate ha l’obbligo anche di considerare nella determinazione del reddito imponibile i costi sia pure determinati induttivamente, in ossequio al parametro costituzionale della capacità contributiva (art. 53 Cost.).
IL FATTO
L’Agenzia delle Entrate provvedeva ad emettere un avviso di accertamento in materia di Irpef, Iva e Irap, nei confronti di un soggetto esercente l’attività di commercio di generi alimentari, determinando il reddito imponibile induttivamente basandosi sui ricavi dichiarati nel triennio precedente, attesa la mancata presentazione della dichiarazione dei redditi.
Il contribuente ricorreva prontamente alla giustizia tributaria, ma sia la C.t.p. che la C.t.r. accoglievano parzialmente il ricorso riducendo la pretesa fiscale dell’Amministrazione finanziaria. In particolare la C.t.r. riteneva la determinazione del reddito su base induttiva, “giustificata dall’inattendibilità delle scritture contabili nel loro complesso e, in quanto presunto, non era suscettibile di riduzioni e/o riconoscimento di costi”, atteso che, non avendo il contribuente fornito la documentazione richiesta dall’ufficio, era stata esclusa ogni possibilità di controllo del reddito conseguito nel periodo d’imposta accertato.
Da qui il ricorso per Cassazione con il quale il contribuente deduceva la violazione degli artt. 3 e 53 Cost.
Orbene, gli Ermellini, nell’accogliere il ricorso e rinviare la causa al Giudice di secondo grado per un nuovo giudizio, hanno riaffermato il principio di diritto in base al quale:
“in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l’amministrazione finanziaria, i cui poteri trovano fondamento non già nell'art. 38 (accertamento sintetico) o nell'art. 39 (accertamento induttivo), bensì nell'art. 41 del D.P.R. n. 600/73 (cd. accertamento d'ufficio), può ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva, senza che possano operare le limitazioni previste dall'art. 75 (ora 109) del D.P.R. n. 917/86 in tema di accertamento dei costi, disciplinando tale norma la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorché infedele, sia comunque sussistente” (Cfr. ex plurimis Cass. n. 19191/2019; Cass. n. 1506/2017; Cass n. 28028/2008; Cass. n. 3995/2009).
LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DI UN DIPENDENTE CHE PER MANCANZA DI DILIGENZA E SCARSO IMPEGNO COMMETTE ERRORI RILEVANTI NELL'ESEGUIRE LA SUA MANSIONE PRINCIPALE.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 13625 DEL 2 LUGLIO 2020
La Corte di Cassazione, sentenza n° 13625 del 2 luglio 2020, ha statuito che è legittimo licenziare un dipendente responsabile di svariate inadempienze e incurie nell'espletamento di un compito centrale delle sue mansioni dopo un periodo di formazione progressiva.
Il caso di specie riguarda il licenziamento intimato da una società a un dipendente per giustificato motivo soggettivo, disponendo contestualmente la restituzione dell'indennità versata in esecuzione della sentenza di primo grado, in quanto il lavoratore aveva commesso plurime inadempienze e trascuratezze in relazione alla redazione del piano finanziario, competenza attribuita fin dal momento dell'assunzione e in base a una formazione progressiva, tanto che nel tempo è diventata la sua mansione principale.
Con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour, confermando la sentenza di appello, hanno dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo legittimo l'individuazione di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento trattandosi di "inadempimento e neghittosità rilevanti sotto il profilo di una affidabile resa lavorativa, in quanto determinate da mancanza di diligenza e impegno professionale".
Inoltre, gli Ermellini hanno categoricamente escluso, tra le doglianze del ricorso, la sussistenza di condotte vessatorie sistematiche perpetrate in danno del dipendente da un superiore, trattandosi "al più di isolato e circoscritto dissidio sorto solo durante uno stato avanzato del lavoro e, in ragione dei pochi elementi a disposizione, privo di apprezzabile continuità."
In nuce, la S.C., integra, senza alcun dubbio, giustificato motivo soggettivo l'inadempimento del lavoratore riconducibile a trascuratezza e incuria, perché si ripercuote inevitabilmente sul suo rendimento lavorativo.
LA VIOLAZIONE DEL DIVIETO DI FUMARE, CONSIDERATA GIUSTA CAUSA DI LICENZIAMENTO DAL CCNL, NON SUPERA IL VAGLIO DI LEGITTIMITA’ PERCHE’ SPETTA AL GIUDICE E NON AL CONTRATTO STABILIRE SE C’E’ LESIONE IRREPARABILE DEL VINCOLO DI FIDUCIA.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 12481 DEL 26 GIUGNO 2020
La Corte di Cassazione, sentenza n° 12841 del 26 giugno 2020, ha statuito che il concetto di giusta causa ha natura legale, donde le previsioni di cui al codice disciplinare allegato al CCNL non vincolano il Giudice.
Nel caso preso in esame dalla sentenza in commento, infatti, un lavoratore sorpreso a fumare una sigaretta sul luogo di lavoro era stato licenziato per giusta causa, avendo contravvenuto al divieto di fumo nei locali dell’azienda datrice di lavoro.
Detto licenziamento aveva superato il vaglio del Tribunale che, per l’effetto, lo aveva qualificato legittimo perché intimato per giusta causa sulla scorta della previsione contenuta nel CCNL Pulizie-multiservizi, applicato in azienda, che, all’art. 48, lett.b), prevede il licenziamento nei casi in cui il lavoratore sia trovato a "fumare dove può provocare pregiudizio all’incolumità delle persone o alla sicurezza degli impianti".
La sentenza di prime cure, invece, veniva riformata dalla Corte distrettuale proprio perché non sembrava sussistente, nella fattispecie, il pregiudizio alla incolumità di soggetti o attrezzature, donde la sussunzione della diversa previsione dell’art. 47 del medesimo CCNL (senza pregiudizio all’incolumità), con la conseguente declaratoria di illegittimità del licenziamento ed applicazione della tutela reintegratoria di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. n. 92 del 2012.
La Suprema Corte, nel confermare la sentenza di Appello, ha (ri)affermato che la giusta causa di licenziamento è nozione legale e che il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo, onde lo stesso può escludere che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, atteso che la scala valoriale espressa dal contratto collettivo deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c..
Peraltro, nella fattispecie, era emerso, nel grado di appello, non censurabile nel merito nel giudizio di legittimità, che la violazione commessa non avesse comportato alcuna situazione di pericolo per le persone o per gli impianti, in quanto posta in essere in un luogo dove vigeva astrattamente il divieto (operante nell’intero stabilimento), ma di fatto sprovvisto di impianti, libero da persone e privo di attrezzature pericolose, sì da non configurare – in concreto – alcun pericolo, nemmeno potenziale, donde – pur applicando il CCNL – non si configurava l’ipotesi del licenziamento per giusta causa.
DATORE DI LAVORO SEMPRE RESPONSABILE PER L’INFORTUNIO RICADENDO SULLO STESSO L’OBBLIGO DI ADOTTARE OGNI MISURA IDONEA E LA CULPA IN VIGILANDO
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 12446 DEL 24 GIUGNO 2020.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 12446 del 24 giugno 2020, ha statuito che il datore di lavoro è sempre responsabile per l’infortunio occorso al proprio dipendente, salvo il c.d. “rischio elettivo”, che ricorre soltanto nel caso in cui il subordinato compia atti che volontariamente eccedano la normale attività, essendo la colpa -da imperizia – ininfluente ai fini della esimente datoriale.
In particolare, la Suprema Corte è intervenuta nel caso di un infortunio verificatosi presso un autolavaggio a causa della condotta imprevista, derivata da imperizia, del lavoratore.
In particolare, il lavoratore, privo di permesso di soggiorno e non assicurato, svolgeva modeste attività di asciugatura delle macchine per cui non era richiesta alcuna specializzazione o particolare formazione.
La Cassazione, con il dispositivo di sentenza, ha ricordato che il titolare della posizione di garanzia è tenuto a valutare i rischi e a prevenirli e la sua condotta non è scriminata, in difetto della necessaria diligenza, prudenza e perizia, da eventuali responsabilità dei lavoratori.
In pratica, secondo la Suprema Corte, il datore di lavoro non può essere considerato esente da responsabilità nel caso in cui il lavoratore tenga una condotta che, anche se inutile ed imprudente, rientri comunque nelle sue attribuzioni e non risulti eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate, nell'ambito del ciclo produttivo.
Quale responsabile della sicurezza, il datore di lavoro ha, pertanto, l'obbligo non solo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro, così come ampiamente disciplinato dall’art. 2087 c.c..
Ad maiora
IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO
(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!
Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.
Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Giusi Acampora e Michela Sequino
Modificato: 13 Luglio 2020