12 Luglio 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….


I VERBALI DI CONCILIAZIONE CONCLUSI IN SEDE SINDACALE NON SONO IMPUGNABILI A CONDIZIONE CHE L'ASSISTENZA PRESTATA DAI RAPPRESENTANTI SINDACALI SIA STATA EFFETTIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 16154 DEL 9 GIUGNO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n°16154 del 9 giugno 2021, ha confermato, in materia di atti abdicativi di diritti del lavoratore subordinato, che le rinunce e le transazioni contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l'assistenza prestata dai rappresentanti sindacali sia stata effettiva.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Milano rigettava l'appello proposto da un lavoratore subordinato avverso la sentenza di primo grado, che aveva dichiarato improcedibili, in quanto oggetto di un verbale di conciliazione sindacale, le domande di ricalcolo delle somme dovutegli per incentivo all'esodo con inclusione del lavoro straordinario prestato. In particolare, la Corte territoriale aveva escluso la nullità della conciliazione invocata, in difetto di deduzione di alcun vizio specifico in tale senso, dovendo essere disattesa la denunciata mancata assistenza all'accordo di un rappresentante sindacale neppure conosciuto dal lavoratore, sul rilievo della sottoscrizione dell'accordo, senza alcuna eccezione alla presenza del sindacalista delegato (comportante implicito conferimento di un mandato) e della sua accettazione finale.

Il lavoratore ricorreva per cassazione deducendo errata applicazione degli artt. 410, 411 c.p.c. e art. 2113 c.c. da parte della Corte territoriale che aveva ritenuto valido l'accordo sindacale tra le parti, in mancanza di una propria tutela effettiva da parte del rappresentante sindacale, essendo insufficiente la sola sua presenza, senza neppure essersi personalmente conosciuti prima, né avere ricevuto informazione sul contenuto dell'accordo.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso confermando che le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l'assistenza prestata dai rappresentanti sindacali sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura. Premessa l'essenzialità dell'assistenza effettiva dell'esponente sindacale, la compresenza del predetto e dello stesso lavoratore al momento della conciliazione, hanno continuato gli Ermellini,  lasciava presumere l'adeguata assistenza del sindacalista, chiamato a detto fine a prestare opera di conciliatore (mercé  il conferimento di un mandato implicito del lavoratore necessariamente sottostante all'attività svolta dal primo), tutto ciò,  in assenza di alcuna tempestiva deduzioneprova da parte del dipendente a ciò onerato, che il rappresentante sindacale, pur presente, non avesse prestato assistenza di sorta.

La Corte territoriale, hanno concluso gli Ermellini, ha pertanto correttamente applicato i su enunciati principi, avendo di fatto accertato l'adeguatezza dell'assistenza sindacale del lavoratore in sede conciliativa davanti al Giudice, con argomentazione congrua in ragione della sua sottoscrizione dell'accordo alla presenza del sindacalista delegato, senza alcuna eccezione e dell'accettazione finale dello stesso, pertanto insindacabile in sede di legittimità.

 

NULLA LA CARTELLA DI PAGAMENTO NON RECANTE UNA ADEGUATA MOTIVAZIONE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZE N. 16853 E 16854 DEL 15GIUGNO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanze n.ri 16853 e 16854 del 15 giugno 2021, ha statuito che senza un’adeguata motivazione anche la cartella di pagamento è da considerare nulla, trattandosi di un atto impositivo e, pertanto, al pari dell'avviso di accertamento, deve essere motivata in relazione ai presupposti di fatto e di diritto che hanno originato la pretesa. Ex adverso, quando la cartella si riferisce alla liquidazione delle imposte dovute sulla base dei dati forniti dal contribuente o rinvenibili negli archivi dell'anagrafe tributaria, l'onere motivazionale dell'ufficio può ritenersi assolto mediante un richiamo alla dichiarazione stessa o agli estremi del procedimento sottostante.

Nel caso di specie, una società contribuente aveva impugnato due cartelle di pagamento, emesse dall'Amministrazione Finanziaria a seguito di un diniego di condono a carico della società stessa, seppur con riferimento a due diverse annualità, in quanto non erano sufficientemente motivate poiché dall'esame delle stesse “non si comprendeva l'iter seguito per la determinazione dei valori riportati ed inoltre, sempre secondo la tesi difensiva, “la chiarezza è elemento essenziale per instaurare sia un valido contraddittorio sia un altrettanto valido ricorso introduttivo.”

I Giudici di piazza Cavour, con le ordinanze de qua, confermando l'annullamento delle cartelle di pagamento disposte dalla sentenza di appello, hanno respinto le doglianze dell'Agenzia delle Entrate che aveva invece sostenuto come nel caso di una iscrizione a ruolo derivante dal controllo dei dati forniti dal contribuente, l'esigenza di motivazione dell'atto doveva ritenersi ben più limitata e quindi assolta.

Gli Ermellini, hanno evidenziato che, anche la cartella di pagamento, in quanto atto impositivo capace di incidere sulla sfera patrimoniale del contribuente, deve essere adeguatamente motivata in relazione sia ai presupposti di fatto che di diritto, sulla base dei quali la pretesa stessa trae origine, ricordando anche che la verifica dell'osservanza dell'obbligo dell'ufficio di indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche degli atti deve essere riscontrata non in astratto, bensì alla luce delle finalità che tale obbligo è chiamato ad assolvere. Infatti, l'obbligo di motivazione deve, da un lato, mettere a conoscenza del contribuente l'an e il quantum della pretesa fiscale in modo tale da consentirgli, eventualmente, di difendersi in modo adeguato e, dall'altro, di delimitare le ragioni dell'ufficio in tale ambito contenzioso.

In nuce, quando viene richiesto alla S.C. una pronuncia sull'adeguatezza o meno, della motivazione di un atto tributario, la parte richiedente deve farsi carico di trascrivere o riportare in maniera adeguata, il contenuto dell'atto stesso allo scopo di consentire la valutazione della fondatezza della censura avanzata, in assenza di ciò, il ricorso è da giudicarsi inammissibile.

 

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DELLA DIPENDENTE ASSEGNATA PROVVISORIAMENTE E DA POCO TEMPO AL RUOLO IN ESUBERO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 14990 DEL 28 MAGGIO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 14990 del 31 maggio 2021, ha statuito l’illegittimità del licenziamento, intimato al termine di una procedura di mobilità ex l. 223/91, di una dipendente assegnata da pochi mesi alla mansione dichiarata in esubero dall’azienda.

Nel caso in commento, una dipendente inserita in una procedura di mobilità riguardante l’esubero di sette unità lavorative e conclusasi con un accordo sindacale, contestava la procedura ed impugnava il licenziamento, sostenendo di avere prima subito la soppressione della mansione a lei assegnata da anni e di essere stata poi “adibita a mansioni dequalificanti” allo scopo di allontanarla dalla compagine aziendale per poi licenziarla nell’ambito di un licenziamento collettivo. Secondo la tesi della ricorrente, infatti, il licenziamento era illegittimo in quando, essendo stata assegnata temporaneamente alla mansione di “addetta all’archivio” non doveva essere conteggiata tra i profili in esubero. Conseguenziale, pertanto, la richiesta di reintegra e risarcimento del danno.

Il Tribunale adito dichiarava illegittimo il licenziamento per violazione dei criteri di scelta, chiarendo che ciò derivava dalla collocazione presso l’archivio solo provvisoria, e condannava la resistente alla reintegra nel posto di lavoro ed al pagamento dell’indennità risarcitoria nel limite massimo di 12 mensilità della retribuzione globale di fatto percepita, detratto l’eventuale aliunde perceptum. La società datrice proponeva inutilmente ricorso in Appello dove si vedeva rigettare il ricorso.

Per la cassazione di tale sentenza la società proponeva ricorso denunciando la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, art. 5, comma 1 e art. 24, comma 1, osservando che la dichiarata illegittimità della procedura non derivava dalla soppressione della mansione di addetta agli archivi, che doveva pertanto ritenersi legittima, indipendentemente dal tempo di adibizione alla stessa, atteso che sarebbe precluso al Giudice di sindacare il merito delle scelte imprenditoriali. La Suprema Corte chiariva che i Giudici di prime cure non avevano certamente inteso mettere in discussione la legittimità o meno della soppressione della posizione di addetto agli archivi, ma avevano evidenziato l’abuso compiuto dalla società nel licenziare un dipendente che, fino a pochi mesi prima del licenziamento, era addetto a mansioni diverse da quelle considerate in esubero e che era stato assegnato a queste ultime solo pochi giorni prima del recesso.

In conclusione, la Cassazione confermava l’illegittimità del licenziamento in quanto la lavoratrice, assegnata alla posizione in esubero solo temporaneamente e, per giunta da pochi mesi, non poteva essere licenziata.
 

ESCLUSA LA RESPONSABILITÀ DATORIALE IN CASO DI INFORTUNIO SUL LAVORO, SE SONO STATI PREDISPOSTI I SISTEMI DI PROTEZIONE COLLETTIVA

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 24908 DEL 30 GIUGNO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 24908 del 30 giugno 2021, ha statuito l’esclusione della responsabilità del datore di lavoro per infortunio sul lavoro, quando sia dimostrato che quest’ultimo abbia reso disponibili tutti i dispositivi di protezione collettiva.

Nel caso in oggetto la Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva rideterminato la sanzione pecuniaria irrogata alla società datrice di lavoro ed aveva confermato la condanna dell’amministratore della stessa per la morte di un dipendente, scivolato e caduto da una notevole altezza mentre svolgeva le sue mansioni.

I Giudici distrettuali avevano, infatti, ritenuto colpevole il datore di lavoro per non aver predisposto all’interno del cantiere di lavoro le cosiddette linee vita, ritenendo priva di rilevanza la circostanza che fossero state predisposte piattaforme meccaniche per lo svolgimento delle attività in quota.

L’amministratore della società ricorreva pertanto in Cassazione deducendo, quale vizio di motivazione della sentenza di secondo grado, l’affermazione dell’impossibilità dei dispositivi di protezione collettiva, rappresentati in questo caso dalle piattaforme meccaniche, di assolvere agli obblighi di garanzia della sicurezza rispetto ai DPI, che pur presenti sul cantiere erano stati ritenuti insufficienti.

I Giudici di legittimità, ritenendo fondato il motivo del ricorso, hanno affermato che l’art. 111 del D.Lgs. n. 81/2008, dal quale deriva lo specifico obbligo di predisporre sistemi di protezione individuale richiamato nella sentenza di merito, deve essere interpretato seguendo il preciso schema logico indicato dal legislatore.

Dalla lettura della disposizione ed alla luce della formulazione non casuale dell’articolo, infatti, si evince la priorità della predisposizione di sistemi di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale, la ratio di tale disposizione risiede nel fatto che i dispositivi di protezione collettivi sono idonei ad eliminare o ridurre i rischi di infortunio sul lavoro, nonostante un eventuale comportamento omissivo del lavoratore, che non utilizzi i DPI. I dispositivi di protezione collettiva rappresentano quindi lo strumento di maggiore garanzia, questione che non è stata affatto posta in risalto dalle sentenze di merito nelle quali al contrario era stata sviluppata in via prioritaria la questione della carenza di DPI, omettendo di verificare se le scelte operate dal datore di lavoro in merito ai dispositivi di protezione collettiva avesse reso effettiva la riduzione del rischio per i lavori in quota. Sulla base delle motivazioni esposte, la Suprema corte ha annullato la sentenza, rinviando alla Corte d’Appello in diversa composizione.

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL COLLABORATORE SCOLASTICO A CAUSA DELLA SCARSA PULIZIA DELLE AULE E DEGLI AMBIENTI COMUNI

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 17602 DEL 21 GIUGNO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 17602 del 21 giugno 2021, ha statuito la legittimità del licenziamento per “scarso rendimento” intimato a seguito delle lamentele di docenti ed alunni circa la scarsa pulizia di aule ed ambienti comuni.

Nel caso in commento, ad un collaboratore scolastico con contratto a tempo determinato veniva addebitato un comportamento poco professionale, posto in evidenza da professori e studenti lamentatisi per la pessima pulizia, tale da determinare un «licenziamento disciplinare per insufficiente rendimento».

Il lavoratore contestava il provvedimento e proponeva reclamo avverso la sentenza di primo grado, confermativa del licenziamento, sostenendo che bisognasse tener conto di quanto previsto dal D.lgs n. 75/2017 e, a tal fine, richiedere “la valutazione negativa della perfomance del dipendente in ciascun anno dell’ultimo triennio”. I Giudici ribattevano che, trattandosi di un contratto a tempo determinato, la richiamata normativa non era applicabile. Inoltre, l’assunzione della prova dell’inadempimento non era necessaria in quanto quest’ultimo era provato non solo dalle continue segnalazioni di professori ed alunni che lamentavano la mancata di pulizia di aule ed ambienti comune, ma anche dall’ammissione del lavoratore stesso che aveva dichiarato di non avere mai effettuato le pulizie in quanto non di sua competenza. Legittimo, pertanto il licenziamento in quanto il rifiuto a svolgere la prestazione lavorativa “era reiterato ed assolutamente ingiustificato” e tale da costituire “violazione grave, influente sull’organizzazione dell’attività del plesso scolastico”.

Per la cassazione di tale sentenza il lavoratore proponeva ricorso sostenendo che il contratto del comparto scuola prevede solo genericamente, ed in via subordinata, tra i compiti del collaboratore scolastico l’esecuzione delle pulizie dei locali, degli spazi scolastici e degli arredi, senza affermare che dette mansioni gli competano obbligatoriamente.

I Giudici della Suprema Corte hanno chiarito che i compiti del personale ATA sono costituiti dalle attività e mansioni espressamente previste dall’area di appartenenza nonché da incarichi specifici che, nei limiti delle disponibilità e nell’ambito dei profili professionali, comportano l’assunzione di responsabilità ulteriori. Tra i compiti del personale ATA rientrano, oltre alla accoglienza e sorveglianza degli alunni e del pubblico e la custodia dei locali scolastici, come asserito dal proponente, anche quelli di pulizia dei locali, degli spazi comuni e degli arredi. I Giudici hanno affermato, inoltre, che la possibilità ricorrere a contratti di fornitura non può costituire un obbligo del dirigente scolastico né, pertanto, esonera il collaboratore dallo svolgimento di dette mansioni.

In conclusione, la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento a causa del suo persistente insufficiente rendimento.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

Condividi:

Modificato: 12 Luglio 2021