4 Luglio 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

 

Oggi parliamo di………….

 

DALL’ACCERTAMENTO DI UNA SOSTANZIALE UNITARIETA’ DELLA STRUTTURA IMPRENDITORIALE, COMPOSTA SOLO FORMALMENTE DA SOGGETTI GIURIDICI DISTINTI, NE DERIVANO CONSEGUENZE DECISIVE IN MATERIA DI LICENZIAMENTO COLLETTIVO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 12034 DEL 13 APRILE 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 12034 del 13 aprile 2022, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento collettivo qualora la verifica degli esuberi non tenga conto di tutta la platea di lavoratori in forza ad un unico complesso aziendale, seppur costituito da società formalmente distinte, e in mancanza di comprovati presupposti per la delimitazione del perimetro dei licenziandi esclusivamente all’organico dipendente di una sola delle società coinvolte.

La pronuncia trae origine dal ricorso avverso la dichiarazione di illegittimità del licenziamento collettivo attivato dall’allora compagnia aerea Meridiana Fly, in crisi sin dal 2011; a sua difesa, la compagnia deduceva, in primo luogo, di rappresentare essa stessa ramo aziendale distinto rispetto ad Air Italy (le due società, infatti, avevano mantenuto strutture autonome, dotate di propri beni, risorse e licenze di esercizio) e, in secondo luogo, che la contitolarità del rapporto di lavoro non potesse prescindere dall’accertamento dell’uso promiscuo della prestazione del singolo lavoratore all’interno della complessiva struttura aziendale.

La Suprema Corte, in accoglimento di quanto stabilito dai Giudici di merito sulla base delle numerose prove acquisite, è pervenuta alla qualificazione della sostanziale unicità della struttura aziendale, solo apparentemente costituita da una pluralità di soggetti giuridici distinti, ma operante come centro decisionale unico.

L'accertamento della sostanziale unitarietà della struttura imprenditoriale comporta, di conseguenza, l’irrilevanza di una verifica circa la concreta, effettiva, utilizzazione da parte di entrambe le società delle prestazioni rese dal dipendente; difatti, l’attività di quest’ultimo deve comunque ritenersi condotta nell'interesse -indifferenziato- del gruppo.

In conclusione, si rileva che in assenza di comprovate ragioni alla base dei criteri di scelta del personale eccedente, le procedure di licenziamento collettivo devono coinvolgere indistintamente l’intero organico del complesso aziendale, pur essendo quest’ultimo costituito da società formalmente distinte.

 

IN CASO DI MANCANZA DELL’AVVISO DI RICEZIONE DELL’ATTO INTERRUTTIVO LA CARTELLA DEVE CONSIDERARSI PRESCRITTA A TUTTI GLI EFFETTI

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 15782 DEL 17 MAGGIO 2022

La Corte di Cassazione, con la sentenza n.15782 del 17/05/2022, ha statuito che il procedimento da seguire per la notifica, anche e soprattutto di atti tributari, in caso di irreperibilità relativa del destinatario, è quello disciplinato dall'art. 140 c.p.c. (id: irreperibilità o rifiuto di ricevere la copia). Tale procedura, in particolare, prevede la necessità che venga prodotta in giudizio, come prova del perfezionamento del procedimento “notificatorio”, l'avviso di ricevimento ovvero di compiuta giacenza, della raccomandata informativa che dà atto dell'avvenuto deposito dell'atto da notificare presso la casa comunale.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno rigettato le doglianze dell'Agenzia delle Entrate, confermando la decisione con cui la CTR aveva dichiarato la prescrizione dei tributi portati in nove differenti cartelle di pagamento notificate ad un contribuente, in quanto, in tutti questi casi, la relata di notifica del plico recava menzione del debitore come "sconosciuto" o "temporaneamente assente", con conseguente avviso di deposito degli atti ex art. 140 c.p.c. e spedizione di raccomandata, il cui avviso di ricevimento risulta tuttavia vuoto.

Gli Ermellini, con la sentenza de qua, hanno ribadito che gli atti tributari devono essere notificati al contribuente persona giuridica presso la sede della stessa, entro l'ambito del domicilio fiscale, secondo la disciplina dell'art. 145, comma 1, c.p.c., e laddove tale modalità risulti impossibile, si applica l'art. 145, comma 3, c.p.c. e la notifica dovrà essere eseguita ai sensi degli art. 138, 139 e 141 c.p.c., alla persona fisica legale rappresentate. Nel caso, poi, d'impossibilità di procedere anche secondo questa modalità, la notifica dovrà essere eseguita secondo le forme dell'art. 140 c.p.c., ma se l'abitazione, l'ufficio o l'azienda del contribuente non si trovano nel Comune del domicilio fiscale, la notifica dovrà effettuarsi ai sensi dell'art. 60, c. 1, lett. e, del D.P.R. n. 600/1973, e si perfezionerà nell'ottavo giorno successivo a quello dell'affissione del prescritto avviso di deposito nell'albo del Comune.

In nuce, per la S.C., la notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi va eseguita ai sensi dell'art. 140 c.p.c. solo ove sia conosciuta la residenza o l'indirizzo del destinatario che, per temporanea irreperibilità, non sia stato rinvenuto al momento della consegna dell'atto, mentre va effettuata ex art. 60, quando il messo notificatore non reperisca il contribuente perché trasferitosi in luogo sconosciuto, sempre che abbia accertato, previe ricerche, attestate nella relata, che il trasferimento non sia consistito nel mero mutamento di indirizzo nell'ambito dello stesso Comune del domicilio fiscale.

 

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE PER RIFIUTO DI TRASFORMAZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO DA PART-TIME A TEMPO PIENO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 15999 DEL 18 MAGGIO 2022

La Corte di Cassazione, sentenza n° 15999 del 18 maggio 2022, ha statuito che è illegittimo il licenziamento del lavoratore basato sul rifiuto di accettare la trasformazione del rapporto di lavoro da part-time a tempo pieno, posto che la legge prevede – sia nel settore pubblico che in quello privato – la modifica unilaterale dell’orario di lavoro solo in favore del dipendente.

Il caso in esame ha riguardato la vicenda di un lavoratore licenziato dall’Università datrice per assenza ingiustificata conseguente alla trasformazione -disposta nel 2017- del suo rapporto di lavoro da part-time -autorizzato nel 2009- a full time.

I Giudici di piazza Cavour, al fine di pervenire ad una corretta determinazione della disciplina applicabile, hanno preliminarmente operato una ricognizione delle norme in materia di trasformazione del rapporto di lavoro alle dipendenze della PA da full time a part time.

Inizialmente sussisteva un regime di trasformazione automatica, che si perfezionava entro 60 giorni dalla richiesta e in assenza di conflitto di interessi con la nuova attività lavorativa e/o di grave pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione (art. 1, comma 58, della Legge 23 dicembre 1996, n. 662). Successivamente, si è passati ad un regime di tipo “autorizzativo”, vale a dire soggetto alla discrezionalità della Pubblica Amministrazione: la trasformazione poteva essere concessa entro 60 giorni dalla domanda e sempre in assenza di conflitto di interessi con la nuova attività lavorativa e/o di grave pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione (art. 73 del D.L. 25 giugno 2008 n. 112 in modificazione proprio dell’art. 1, comma 58).

Tuttavia, sebbene il 4 novembre del 2010 sia stata emanata la Legge n. 83 che concedeva un termine di 180 giorni -decorrenti dall’entrata in vigore della stessa- per rivalutare le trasformazioni automatiche dei rapporti di lavoro perfezionatesi prima dell’entrata in vigore dell’art. 73, la Corte è pervenuta alla conclusione che tale regime transitorio non attribuiva e non attribuisce alla Pubblica Amministrazione la potestà di revocare l’autorizzazione al part time, una volta concessa – e di ripristinare il regime a tempo pieno del rapporto di lavoro dei propri dipendenti – senza soggiacere ad alcun limite temporale.

Occorre dunque individuare il riferimento normativo nel D. Lgs. 81/2015 che, in ultimo, è intervenuto sulla disciplina della trasformazione del rapporto di lavoro. Difatti, all’art. 8 si prevede che “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”.

Per la sentenza, ne consegue che la PA datrice – pur se esistesse una norma che le attribuisse la potestà di modificare il regime dell'orario di lavoro da part time a tempo pieno – non potrebbe adottare la sanzione del licenziamento per effetto del rifiuto del dipendente ad ottemperare ad una disposizione unilaterale di trasformazione del rapporto, tanto più in considerazione del fatto che il Legislatore –recependo le indicazioni pervenute in materia dall’Unione Europea– ha previsto l’unilateralità del rientro dal part time al full time solo nell’interesse del lavoratore.

 

NON SPETTA IL BUONO PASTO ALLA LAVORATRICE MADRE CHE USUFRUISCE DEL PERMESSO PER ALLATTAMENTO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 16929/2022 DEL 25 MAGGIO 2022

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 16929 del 25 maggio 2022, ha statuito che non spettano i buoni pasto alla lavoratrice madre che, usufruendo dei permessi per l'allattamento, non raggiunga le sei ore di lavoro nella giornata. Irrilevante, precisano i giudici, che ai fini della retribuzione vi sia l'assimilazione delle ore di permesso concesse dall'azienda a quelle di lavoro.

Nel caso in esame sette lavoratrici, ritenendo di averne diritto, agivano nei confronti dell’Agenzia delle Dogane per l’ottenimento dei buoni pasto per i giorni di lavoro in cui avevano usufruito dei permessi per l’allattamento. I Giudici di merito ritenevano fondata la richiesta sostenendo che le ore di permesso riconosciute alle lavoratrici siano da considerarsi ore lavorative agli effetti della retribuzione del lavoro, senza che rilevi l'assenza di una pausa destinata alla consumazione del pasto. Osservavano, inoltre, che il permesso per allattamento prevede il diritto di uscire dall'azienda e quindi, “non può l'esercizio di tale diritto comportare la perdita del beneficio dei buoni pasto”, anche se ne è derivata l'assenza di pausa.

L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, avverso la decisione della Corte di Appello, proponeva ricorso per cassazione lamentando violazione e falsa applicazione del D. Lgs. n.151 del 2001. La Corte Suprema, confermando l’orientamento prevalente della Corte, richiamava il principio secondo cui in tema di pubblico impiego, l'attribuzione del buono pasto è condizionata all'effettuazione della pausa pranzo che, a sua volta, presuppone, come regola generale, che il lavoratore osservi un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore (oppure altro orario superiore minimo indicato dalla contrattazione collettiva). Di conseguenza, i buoni pasto non potevano essere attribuiti alle lavoratrici che, beneficiando delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, avevano osservato un orario di lavoro inferiore alle suddette sei ore, né poteva valere l'equiparazione dei periodi di riposo alle ore lavorative, che vale ai soli effetti della durata e della retribuzione del lavoro, in quanto, precisavano i Giudici, “l'attribuzione dei buoni pasto non riguarda né la durata, né la retribuzione del lavoro ma è finalizzata a compensare l'estensione dell'orario lavorativo disposta dalla pubblica amministrazione, con una agevolazione di carattere assistenziale diretta a consentire il recupero delle energie psico-fisiche dei lavoratori”.

Riguardo alla non necessaria coincidenza tra buono pasto ed esistenza nell'orario di lavoro di una pausa pranzo asserita dalle lavoratrici, la Corte riteneva che il contratto collettivo di riferimento subordina il diritto al buono pasto all'effettuazione di un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la relativa pausa al cui interno va consumato il pasto, risultando irrilevante che i permessi consentano l'uscita dal luogo di lavoro, in quanto ciò non significa che essi abbiano la natura di pausa pranzo.

In conclusione, i Magistrati accogliendo l'azione proposta dall'Agenzia delle Dogane, sancivano che le lavoratrici, nei giorni in cui avevano usufruito dei permessi per allattamento, avessero lavorato solo 5 ore e 12 minuti e, pertanto, non avessero diritto ai buoni pasto.

 

LA SUSSUNZIONE ALLE DISPOSIZIONI DEL CCNL DELLA FATTISPECIE CHE CONSENTE IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE NON PRECLUDE L'AUTONOMA E DIVERSA VALUTAZIONE DEL GIUDICE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.17288  DEL 27 MAGGIO 2022.

La Corte di Cassazione – ordinanza n°17288 del 27 maggio 2022 – ha (ri)confermato che la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce solo uno dei possibili parametri cui fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c. (id: recesso per giusta causa).

Nel caso de quo, la Corte d'appello di Catania aveva respinto il ricorso di una società datrice avverso la sentenza di primo grado che aveva accertato la illegittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore con mansioni di cassiere, stabilendo la conseguente reintegra nel posto di lavoro; in particolare, la Corte di merito aveva confermato la valutazione di non proporzionalità della sanzione in relazione al fatto oggetto di addebito, rappresentato dall'avere il dipendente prelevato uno snack dall'espositore adiacente alla cassa ove operava e di averlo mangiato, senza pagare il corrispettivo di euro 0,70. Il giudice di appello aveva fondato la valutazione di non proporzionalità della sanzione espulsiva osservando che: a) il lavoratore in modo visibile e senza allontanarsi dalla sua postazione lavorativa non aveva posto in essere alcun particolare accorgimento atto ad occultare il suo gesto tant'è che era stato prontamente ripreso dal responsabile; b) non era riscontrabile alcuna particolare ostinazione da parte del lavoratore nella negazione del fatto ed all'eventualità dell'addebito, imputato al suo bisogno continuo di assumere sostanze zuccherine perché soggetto a frequenti crisi ipoglicemiche; c) i precedenti disciplinari richiamati dal datore di lavoro afferivano a condotte tra loro eterogenee, insuscettibili di assurgere ad indici sintomatici della pervicacia del lavoratore nell'ignorare i suoi doveri fondamentali.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società datrice censurando la mancata sussunzione della fattispecie accertata nella previsione collettiva che, invero, sanzionava l'appropriazione di beni aziendali sul luogo di lavoro con la sanzione espulsiva.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto  il ricorso ribadendo che il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta rientra nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito, attività da svolgere avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, in relazione alla quale la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce solo uno dei possibili parametri cui fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale ex art. 2119 c.c..

In questa prospettiva, hanno continuato gli Ermellini, le previsioni dei contratti collettivi hanno valenza esemplificativa e non precludono l'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore, con il solo limite, nello specifico insussistente, che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
    Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 4 Luglio 2022