19 Luglio 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI GIUGNO 2021

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Giugno 2021. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Giugno 2021 è pari a 1,849707 e l’indice Istat è 103,80

 

IL RAMO D’AZIENDA CEDUTO DEVE ESSERE PREESISTENTE ED AUTONOMAMENTE FUNZIONANTE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 18948 DEL 5 LUGLIO 2021.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 18948 del 5 luglio 2021, ha (ri)affermato la necessità della preesistenza del ramo di azienda al momento della cessione dello stesso.

La vicenda trae origine da una cessione di ramo di azienda, operata dalla Banca MPS ad una società, impugnata dai dipendenti oggetto della cessione sul presupposto che il ramo, finalizzato alla erogazione dei servizi amministrativi di "back office" in favore delle diverse società del Gruppo Monte dei Paschi e costituito all'interno della Divisione attività amministrative contabili ed ausiliarie connesse alla cd. "attività di governo”, fosse stato “creato” pattiziamente dalle parti solo in sede di trasferimento, senza che prima avesse una sua autonomia.

Il Tribunale riconosceva la legittimità della cessione, mentre i Giudici distrettuali ne disconoscevano la sussistenza. Da questo contrasto, prendeva l’avvio il giudizio della Suprema Corte.

L’organo nomofilattico, nel prendere atto dei rilievi di merito della Corte d’Appello consistenti nel fatto che nel caso in oggetto non era stata trasferiti tutti i servizi di back office, nella loro iniziale consistenza ed interezza, atteso che alcuni servizi della stessa non erano stati trasferiti.  Non erano stati, poi, ceduti i softwares applicativi per l'espletamento delle attività oggetto della cessione, rimasti in proprietà della BMPS che li aveva concessi in uso alla società cessionaria.

Per l’effetto, gli Ermellini hanno affermato il seguente principio di diritto: “anche successivamente all'entrata in vigore dell'art. 32 del D.lgs. 276/2003, la nozione di ramo d'azienda di cui all'art. 2112 c.c. è rimasta immutata e fedele alle direttive europee in materia (direttive 1998/50/CE e 2001/23/CE): per ramo d'azienda si intende ogni entità economica organizzata che, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, sul presupposto di una preesistenza, potendosi conservare solo qualcosa che già esista. Non si configura, quindi, un ramo d'azienda suscettibile di cessione in difetto di preesistenza di una realtà produttiva autonoma e funzionante, qualora sia stata creata ad hoc una struttura produttiva in occasione del trasferimento o come tale identificata dalle parti (cedente e cessionario) nel negozio”.


LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA DI DIRITTO COMUNE HA EFFICACIA VINCOLANTE LIMITATAMENTE AGLI ISCRITTI ALLE ASSOCIAZIONI STIPULANTI E A COLORO CHE ESPLICITAMENTE O IMPLICITAMENTE ABBIANO PRESTATO CONSENSO AL CONTRATTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 16376 DEL 10 GIUGNO 2021.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 16376 del 10 giugno 2021, ha (ri)confermato che nell'ipotesi di contratto di lavoro regolato da contratto collettivo non corrispondente a quello dell'attività svolta, il lavoratore non può richiedere l'applicazione di un contratto collettivo diverso, se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale.

Nel caso de quo, un lavoratore con mansioni di autista con inquadramento al III livello S del CCNL Trasporti, aveva richiesto ed ottenuto, con decreto ingiuntivo, il pagamento della somma relativa alla mancata corresponsione degli aumenti contrattuali previsti dal rinnovo del CCNL Trasporto Merci Industria per il periodo dall'1.6.2013 al 30.9.2014.

Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Genova, in sede di gravame, avevano respinto il ricorso in opposizione della società datrice, applicando alla questione controversa i principi generali civilistici in materia di efficacia dei contratti in capo alle parti stipulanti senza considerare che il rinnovo contrattuale in questione, del 2013, non era stato sottoscritto da parte dell'associazione sindacale che rappresentava la società datrice, e solo con successivo accordo del 2015 era intervenuta una accettazione da parte di quei sindacati dei lavoratori e quelli datoriali che non avevano ancora aderito; a seguito dell'adesione era stata altresì prevista l'una tantum per il periodo scoperto, tra l'altro puntualmente erogata dalla società.

Secondo i Giudici di appello, fermo restando il principio dell'autonomia negoziale delle parti, sul piano del rapporto individuale di lavoro opera la tutela assicurata dall'art. 36 Cost., volta a garantire l'adeguatezza della retribuzione, laddove il parametro più attendibile per la quantificazione della giusta retribuzione è il contratto collettivo, diretto a riflettere il livello di retribuzione più adeguato in relazione alla situazione economica contingente, pertanto, il riferimento al mancato pagamento  degli aumenti contrattuali, poteva trovare legittimo accoglimento, quantomeno per la differenza tra l'importo spettante e quello stabilito dalla successiva una tantum già corrisposta.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ricordando che la questione giuridica esaminata è stata risolta dalle Sezioni Unite, con la pronuncia n° 2665/1997, attraverso l'enunciazione del seguente principio: "l'art. 2070 c.c., comma 1 (in base al quale l'appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell'applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l'attività effettivamente esercitata dall'imprenditore) non opera nei riguardi della contrattazione collettiva di diritto comune, che ha efficacia vincolante limitatamente agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti e a coloro che, esplicitamente o implicitamente, al contratto abbiano prestato adesione; con la conseguenza che il lavoratore non può aspirare all'applicazione di un contratto collettivo diverso, se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma solo eventualmente richiamare tale disciplina come termine di riferimento per la determinazione della retribuzione ex articolo 36 Cost., deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato".

Da ultimo, hanno concluso gli Ermellini, i Giudici di merito avevano ancorato la presunzione di inadeguatezza della retribuzione corrisposta nel periodo di cui si tratta esclusivamente sulla base degli aumenti retributivi stabiliti dal CCNL Trasporto Merci Industria rinnovato nel 2013, non applicabile però al rapporto in esame, perché la parte datoriale non era affiliata ad alcuna delle organizzazioni stipulanti, senza alcuna considerazione, invece, della volontà espressa dalle parti collettive nel negoziare il successivo  accordo del 2015, direttamente applicabile al rapporto in controversia.


I COSTI DA REATO SONO PIENAMENTE DEDUCIBILI SOLO SE EFFETTIVAMENTE SOSTENUTI E INERENTI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 15860 DELL’8 GIUGNO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 15860 dell’8 giugno 2021, ha statuito che per i costi da reato, la deducibilità deve essere riconosciuta solo se effettivamente sostenuti e inerenti, a condizione però, che non si tratti di spese per “beni o prestazioni di servizi utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo”, ex art. 14, comma 4 bis, Legge n. 537/1993, anche se l'acquirente era consapevole del carattere fraudolento delle operazioni.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, ribaltando in toto la sentenza della CTR Campania, hanno accolto le doglianze di una società contribuente che vertevano su un avviso di accertamento per l'anno 2006 con il quale l’Amministrazione Finanziaria aveva ripreso a tassazione costi indebitamente dedotti ai fini Ires e Irap, oltre che ai fini Iva, relativi a fatture emesse da una cartiera (id: impresa produttrice di semplici carte contabili per indebiti vantaggi) e afferenti operazioni ritenute inesistenti soggettivamente.

Dal canto loro, i Giudici del Territorio avevano accertato che la società in parola non avesse provato la sua estraneità alla partecipazione nella frode e che l’Agenzia delle Entrate, aveva invece fornito attendibili riscontri sull'inesistenza soggettiva delle operazioni fatturate, sicché in tale caso “era onere della contribuente-cessionaria dimostrare l'esistenza dei requisiti per la deduzione dei costi”, annotando anche che i costi all'esame non soggiacevano “al generale divieto di indeducibilità afferente i c.d. costi da reato”.

Ex adverso, con l’ordinanza de qua, i Giudici di Legittimità hanno invece ribadito che oltre “agli elementi presuntivi emersi, a seguito di accesso mirato nei confronti della ditta fornitrice, della mancanza da parte di quest'ultima di una struttura aziendale idonea alla commercializzazione dei prodotti e del mancato adempimento da parte della stessa degli obblighi fiscali”, non fosse stato assolto da parte dell'ufficio finanziario l'ulteriore onere probatorio relativo all'accertamento della consapevolezza del meccanismo fraudolento a cui la società avrebbe partecipato, ribaltando erroneamente su di essa l'onere di provare “la totale inconsapevolezza della falsità delle fatture”.

In nuce, la S.C., ha comunque evidenziato che, per quanto fosse stato provato il mancato esercizio dell'azione penale da parte del Pubblico Ministero, obbligatorio ai fini dell'applicabilità del citato art. 14, c. 4 bis, Legge n.537/1993, la società non avesse provato “i requisiti della certezza, dell'inerenza e competenza degli stessi”, non essendo sufficiente il solo pagamento delle fatture da parte della società contribuente. Con ciò uniformandosi al recente indirizzo della giurisprudenza di legittimità che ne ammette la deducibilità, in presenza di tali requisiti, anche se vi è consapevolezza della frode, sempre a condizione che non si tratti “di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo, in quanto la norma sull'indeducibilità dei costi da reato, non può prescindere dall'esercizio dell'azione penale da parte del P.M., il quale, a norma dell'art. 36, c. 4 del DPR n.600/1973, ne deve dare comunicazione al comando della Guardia di Finanza di competenza.


LA DEROGA AL DIVIETO DI LICENZIAMENTO DELLA LAVORATRICE IN MATERNITA’ OPERA SOLO IN CASO DI CESSAZIONE DELL’INTERA ATTIVITÀ AZIENDALE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 13861 DEL 20 MAGGIO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 13861 del 20 maggio 2021, ha “riaffermato” l’illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice in periodo tutelato per maternità a causa della cessazione dell’attività del datore di lavoro, quando sia limitata ad un singolo reparto e non all’intera attività aziendale.

Nel caso de quo, una lavoratrice adiva il Tribunale contro il provvedimento di rigetto della domanda di indennità di maternità inoltrata all’INPS per i periodi di astensione facoltativa per puerperio, in seguito al licenziamento intimatole dal datore di lavoro per cessazione dell’attività del reparto presso cui svolgeva le sue mansioni.

Sia i Giudici di primo grado, che la Corte d’Appello avevano rigettato il ricorso della dipendente.

La lavoratrice ricorreva pertanto in Cassazione, dolendosi della mancata considerazione di un precedente giurisprudenziale secondo il quale l'operatività del divieto di licenziamento è estesa anche ai casi di cessazione dell'attività limitata ad un ramo d'azienda o ad un reparto autonomo cui la lavoratrice è addetta.

Gli Ermellini, confermando la sentenza dei Giudici di merito, hanno affermato che correttamente è stata interpretata la norma relativa al divieto di licenziamento della lavoratrice in periodo tutelato con riferimento al consolidamento del diritto all’indennità di maternità; infatti, la fattispecie derogatoria al divieto di licenziamento prevista dall’art. 54 comma 3 lett. b) del D.lgs. n. 151/2001, nel quale viene disposto che il suddetto divieto non opera in caso di cessazione attività, si riferisce al solo caso di cessazione dell’intera attività aziendale e trattandosi di fattispecie normativa di stretta interpretazione, non soggetta ad interpretazione analogica o estensiva, ancorché si tratti di reparto dotato di una sua autonomia funzionale.

Nel caso in oggetto la lavoratrice non aveva allegato al ricorso le prove delle circostanze di fatto che rendevano applicabile il dettato normativo, né tantomeno le ragioni del recesso dal rapporto di lavoro da cui si evidenziava la chiusura aziendale, pertanto, per le ragioni esposte la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della lavoratrice.


IL PERIODO DI PREAVVISO NON LAVORATO PER IL QUALE SIA CORRISPOSTA L’INDENNITÀ SOSTITUTIVA DI PREAVVISO VA COMPUTATO AI FINI DEL COMPUTO DELL’INDENNITÀ DI DISOCCUPAZIONE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 17606 DEL 21 GIUGNO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 17606 del 21 giugno 2021, ha ribadito che l’importo corrisposto al dipendente a titolo di indennità sostitutiva del preavviso viene assoggettato a contribuzione, ergo costituisce reddito imponibile ai fini previdenziali e retribuzione pensionabile maturata durante il rapporto di lavoro. 

Nel caso in commento, la Corte d’Appello, in riforma della sentenza del Tribunale di Primo Grado, rigettava la domanda di un lavoratore di corresponsione dell’indennità di disoccupazione per difetto della contribuzione necessaria: la Corte, infatti, in ragione del carattere obbligatorio e non reale del preavviso non lavorato, riteneva non computabili le cinque settimane relative all’indennità sostitutiva del preavviso, senza le quali non si realizzava il requisito minimo delle 52 settimane di contribuzione nel biennio precedente la cessazione del rapporto.

Avverso tale sentenza il lavoratore ricorreva in Cassazione, lamentando che la Corte non aveva tenuto conto del periodo di preavviso non lavorato ed indennizzato, sul cui importo era stata regolarmente versata la contribuzione dovuta.

La Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso. Gli Ermellini, infatti, pur considerando “la natura obbligatoria del preavviso (affermata dalle S.U. con sentenza n. 7914 del 1994) e l’immediata cessazione del rapporto di lavoro (Cass. Sez. L, Sentenza n. 15495 del 11/06/2008, Rv. 603695-01)” hanno ribadito l’autonomia del rapporto previdenziale rispetto a quello lavorativo evidenziando che, mentre il rapporto di lavoro cessa immediatamente, il periodo di preavviso continua ad avere rilevanza ai fini dell’aspetto previdenziale, tant’è che il pagamento dell’indennità di mancato preavviso differisce la decorrenza dell’indennità di disoccupazione all’ottavo giorno successivo a quello della scadenza del periodo corrispondente per mancato preavviso ragguagliata a giornate.

La Corte, inoltre, rilevava che, come precisato dalla sentenza Cass. n. 12095 del 17/05/2013, il datore di lavoro paga la contribuzione sull’indennità sostitutiva del preavviso e, tale indennità, costituisce retribuzione pensionabile maturata durante il rapporto di lavoro: la liquidazione del trattamento pensionistico, pertanto, tiene conto della somma ricevuta a titolo di indennità sostitutiva del preavviso e dei relativi contributi. I Giudici, dunque, sono pervenuti alla conclusione che se l’indennità sostitutiva è sottoposta a contribuzione valevole ai fini pensionistici, il tempo coperto dal preavviso deve essere utilmente computato anche ai fini del raggiungimento del requisito minimo per beneficiare del trattamento di disoccupazione.

In conclusione, la Corte, ritenendo che il periodo di preavviso non lavorato per il quale sia corrisposta l’indennità sostitutiva di preavviso vada computato ai fini del raggiungimento del requisito dei due anni di iscrizione all’AGO contro la disoccupazione involontaria per la corresponsione dell’indennità di disoccupazione, cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa alla Corte d’Appello per un nuovo esame.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 19 Luglio 2021