26 Luglio 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….
Oggi parliamo di………….

 

LA CONTABILIZZAZIONE DI FATTURE SOGGETTIVAMENTE INESISTENTI PER IMPORTI CONTENUTI NON GIUSTIFICA IL RICORSO ALL'ACCERTAMENTO INDUTTIVO PURO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 20149 DEL 15 LUGLIO 2021.
La Corte di Cassazione, ordinanza n° 20149 del 15 luglio 2021 – ha confermato, in tema di rettifica dei redditi d'impresa, che l'accertamento con metodo induttivo puro può essere applicato nei casi di assoluta inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili.
Nel caso de quo, l'Agenzia delle Entrate aveva contestato ad una società contribuente di avere effettuato acquisti da soggetto inesistente, ragione per la quale, sulla base di un accertamento induttivo e in ragione della conseguente inattendibilità complessiva delle scritture contabili, giungeva alla rideterminazione del reddito ai fini Ires, oltre che ad una maggiore imposta Iva ed Irap.  La C.t.p. di Napoli e la C.t.r. Campania avevano rigettato il ricorso del contribuente ritenendo che legittimamente l'Ufficio aveva utilizzato il metodo induttivo puro, in presenza dei requisiti di legge, ovvero quale conseguenza dell'appostazione in contabilità di costi inesistenti.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società deducendo che l'amministrazione finanziaria avrebbe solo dovuto disconoscere la deducibilità dei costi risultati inesistenti, con conseguenze di gran lunga minori rispetto a quelle alle quali era pervenuta con l'accertamento induttivo.
Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, evidenziando, ai sensi del D.P.R. n°600 del 1973, art. 39, comma 2, lettera d), che la determinazione del reddito di impresa secondo il metodo induttivo puro può essere compiuta dall'amministrazione finanziaria soltanto al ricorrere di precise condizioni caratterizzate da irregolarità estremamente gravi e, in tali circostanze,  i verificatori hanno facoltà di prescindere, in tutto o in parte, dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili e di utilizzare, oltre che prove dirette, anche elementi indiziari connotati da una valenza dimostrativa non particolarmente pregnante, vale a dire presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, c.d. presunzioni semplicissime.
Nel caso di specie, hanno continuato gli Ermellini, la sola circostanza che la società, nell'esercizio della sua ordinaria attività, avesse effettuato alcuni acquisti soggettivamente inesistenti, presso un solo fornitore e per un importo contenuto (per una percentuale del solo 0,54% dell'importo complessivo), non poteva assolutamente giustificare il ricorso ad un accertamento integralmente induttivo, ma avrebbe potuto al massimo comportare il disconoscimento della deducibilità del solo costo in questione. La stessa limitatezza dei costi in questione e la circostanza che nessun'altra infrazione era stata accertata a carico della società avrebbero dovuto, quindi, indurre la C.t.r. a ritenere che non fosse giustificato il ricorso all'accertamento induttivo, non sussistendone i presupposti.

 

ANCHE CHI AFFIDA LA DICHIARAZIONE DEI REDDITI AL PROFESSIONISTA È SEMPRE OBBLIGATO A CONSERVARNE UNA COPIA FIRMATA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 25530 DEL 6 LUGLIO 2021
La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 25530 del 6 luglio 2021, ha statuito che il contribuente è sempre tenuto a conservare una copia firmata della dichiarazione dei redditi ancorché si affidi ad un commercialista, altrimenti, potrebbe rispondere di evasione fiscale, e quantomeno dovrebbe contattare il professionista per sapere se la trasmissione telematica è andata a buon fine.
Nel caso di specie, gli Ermellini, confermando e rendendo definitiva la sentenza dei Giudici Territoriali, hanno respinto in toto le doglianze di un imprenditore accusato di non aver presentato la dichiarazione e di aver per questo evaso le relative imposte.
Con la sentenza de qua, i Giudici di piazza Cavour hanno precisato che l'obbligo della presentazione della dichiarazione dei redditi incombe direttamente sul contribuente e, in caso di persone giuridiche, su chi ne abbia la legale rappresentanza, tenuto a sottoscrivere la dichiarazione a pena di nullità. Il fatto che il contribuente possa avvalersi di persone incaricate della materiale predisposizione e trasmissione della dichiarazione non vale a trasferire su queste ultime l'obbligo dichiarativo che fa carico direttamente al contribuente il quale, in caso di trasmissione telematica della dichiarazione, è comunque obbligato alla conservazione della copia sottoscritta della dichiarazione. L'adempimento formale fa così carico al contribuente, il quale deve essere a conoscenza delle relative scadenze e può anche giovarsi, a fini penali, del termine di novanta giorni concesso dalla legge in caso di infruttuoso superamento del termine. Ne consegue che il solo fatto di aver affidato ad un professionista il compito di predisporre e trasmettere la dichiarazione dei redditi non è circostanza che giustifica di per sé la violazione dell'obbligo o possa escludere la consapevolezza della inutile scadenza del termine.
In nuce, la S.C. ha inoltre ribadito come nel caso specifico, non risultavano intervenuti ulteriori contatti col professionista, se non altro per verificare l'invio della dichiarazione, ovvero per accertare l'esistenza di ulteriori adempimenti, ciò a riprova del dolo specifico necessario ai fini della punibilità per omessa dichiarazione.

 

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DELLA DIPENDENTE CUI SIA STATO CONTESTATO UN COMPORTAMENTO POSTO IN ESSERE PER ASSECONDARE LE DISPOSIZIONI DEI SUPERIORI GERARCHICI

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 19585 DEL 9 LUGLIO 2021
La Corte di Cassazione, sentenza n° 19585 del 9 luglio 2021, ha statuito illegittimità del licenziamento del lavoratore cui sia stato contestato un comportamento illecito posto in essere per assecondare le disposizioni del superiore gerarchico.
Nel caso in esame, una lavoratrice adiva il Tribunale per impugnare il licenziamento intimato a seguito dell’accertamento di alcune omissioni nella registrazione di operazioni di acquisto, verificatesi nello svolgimento delle sue mansioni di addetta al bar.
Durante il giudizio di primo grado era stato rilevato che il comportamento posto in essere dalla dipendente era stato richiesto dai responsabili del punto vendita, al fine di utilizzare quelle somme di denaro per simulare l’acquisto di prodotti in promozione, la cui vendita avrebbe dato diritto a premi sia per il punto vendita, che per i direttori.
I giudici di prime cure avevano, quindi, dichiarato illegittimo il licenziamento e disposto la reintegra della dipendente, in quanto la condotta, comune a diversi lavoratori, non aveva come fine il furto di denaro, pertanto, il comportamento, pur essendo contestabile secondo le disposizioni del CCNL andava punito con una sanzione conservativa e non con il licenziamento.
Tuttavia, la sentenza veniva parzialmente riformata in secondo grado, laddove la Corte distrettuale aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro condannando il datore di lavoro al pagamento di una mera indennità economica in luogo della reintegra.
Per questo motivo la lavoratrice ricorreva in Cassazione.
La Suprema Corte, pur accogliendo la ricostruzione dei fatti effettuata dal Giudice di primo grado, ha affermato che con riferimento alla tutela prevista per il licenziamento illegittimo, quando vi sia sproporzione tra la sanzione irrogata e l’infrazione commessa sarà applicata la tutela risarcitoria se la condotta accertata non coincide con nessuna delle fattispecie previste dai contratti collettivi o i codici disciplinari prevedono la sanzione conservativa, mentre la tutela reintegratoria sarà applicabile quando il fatto contestato sia espressamente previsto come punibile con sanzione conservativa da una fonte vincolante per il datore di lavoro. L’interpretazione che porta all’applicazione di una o dell’altra tutela deve tenere conto dei tradizionali canoni di ermeneutica, al fine di indagare il significato delle parole contenuto nel codice disciplinare. Questo tipo di interpretazione non è stata effettuata dai Giudici della Corte distrettuale e pertanto la Suprema Corte ha cassato la sentenza, rinviando alla Corte d’Appello in diversa composizione.

 

DIMISSIONI PER GIUSTA CAUSA DURANTE IL PERIODO DI PROVA: NON SPETTA L’INDENNITA’ DI MANCATO PREAVVISO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 17423 DEL 17 GIUGNO 2021
La Corte di Cassazione, ordinanza n° 17423 del 17 giugno 2021, ha stabilito che le dimissioni del lavoratore, rassegnate durante il periodo di prova per giusta causa, non integrano un recesso legittimo e, pertanto, non trova applicazione il comma 3 dell’art. 2096 c.c.
Nel caso in trattazione, un lavoratore, a seguito di un comportamento ingiurioso ad opera dell’amministratore della società datrice, rassegnava le dimissioni per giusta causa durante il periodo di prova ed agiva in giudizio per ottenere il risarcimento del danno, patrimoniale e non, chiedendo la condanna della società alla corresponsione dell’indennità di mancato preavviso per anticipata risoluzione del rapporto di lavoro dirigenziale, richiamando la contrattazione collettiva di settore.
Il Tribunale accoglieva in parte il ricorso, condannando la società datoriale al risarcimento del solo danno all’immagine e, successivamente, la Corte di Appello, accogliendo parzialmente il gravame, accordava al lavoratore il risarcimento del danno biologico e del danno retributivo, quantificato nella retribuzione che avrebbe percepito sino alla scadenza del periodo di prova.
Per la Cassazione di tale sentenza faceva ricorso lo stesso lavoratore lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 2096, 2119 e 2118 c.c., nonché della contrattazione collettiva di riferimento. Egli, infatti, riteneva che i Giudici di Appello avessero erroneamente assimilato le conseguenze del recesso illegittimo esercitato dal datore durante la prova, con quelle di un recesso legittimo del lavoratore durante il periodo di prova. Ciò aveva portato la Corte a quantificare il risarcimento nella misura delle retribuzioni eventualmente spettanti sino alla scadenza del periodo di prova, invece che nell’indennità di preavviso prevista dal CCNL di settore.
La Corte di Cassazione, richiamando la sentenza di Cassazione n. 204/1976, ha ricordato che il periodo di prova non può essere qualificato come rapporto a tempo indeterminato, ma ha natura di rapporto a termine, con la conseguenza che al recedente per giusta causa non spetta l’indennità sostitutiva del preavviso, regolata dall’art. 2119 comma 1 c.c.. I Giudici hanno anche evidenziato che nel caso specifico le dimissioni per giusta causa, rassegnate durante il periodo di prova, non integravano un recesso legittimo e, pertanto, non poteva trovare applicazione il comma 3 dell’art. 2096 c.c.: il datore, infatti, impedendo, con la sua condotta, al dipendente di portare a termine la prova, aveva posto in essere un inadempimento contrattuale, fonte di responsabilità contrattuale e di una specifica obbligazione di risarcire il danno.
Il ricorrente, inoltre, sosteneva che il suo recesso si fosse determinato non a causa del mancato superamento della prova, bensì dalla lesione del vincolo fiduciario, con conseguente applicazione della norma del CCNL che prevede il riconoscimento dell’indennità da mancato preavviso. Su questo punto la Corte ha ritenuto, invece, che il recesso durante il periodo di prova sia discrezionale e non debba essere motivato, ben potendo essere determinato nel mancato gradimento, da parte del dipendente, di comportamenti datoriali: le dimissioni per giusta causa vanno assimilate ad un datoriale ingiustificato recesso ante tempus dal contratto a termine, con conseguente risarcimento del danno retributivo, commisurato all’entità dei compensi che sarebbero stati percepiti sino alla prevista scadenza contrattuale.

 

LEGITTIMO L’ACCERTAMENTO TRIBUTARIO BASATO SU MOVIMENTI RILEVANTI E RIPETUTI SUL CONTO CORRENTE ED IRRELEVANZA DELL’ ASSOLUZIONE PENALE FONDATA SU FATTI DIFFERENTI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA 19827 DEL 12 LUGLIO 2021
La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 19827 del 12 luglio 2021, nel confermare la irrilevanza delle risultanze del processo penale in quello tributario, ha statuito la piena legittimità dell’accertamento dell’Agenzia delle Entrate fondata sulle movimentazioni bancarie che, come noto, assurgono a vere e proprie presunzioni legali, ancorché di natura relativa (id: ammissione della prova contraria).
Il caso di specie riguardava un contribuente che veniva sottoposto ad attività accertativa a seguito del versamento, sul proprio conto corrente, di rilevanti somme di denaro contante. L’Amministrazione Finanziaria aveva dedotto che tali movimenti integrassero i presupposti di un’attività commerciale svolta dal contribuente, avvalorata anche dalla circostanza per cui il contribuente era stato accusato di aver sottratto beni alla ditta di cui era dipendente, ed aveva quindi proceduto ad accertare redditi d’impresa e operazioni rilevanti ai fini IVA ai danni del contribuente.
Più in dettaglio, gli Ermellini hanno precisato che, in tema di accertamento dell'IVA, l'art. 51, secondo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 consente all'amministrazione finanziaria di rettificare, su basi presuntive, la dichiarazione del contribuente utilizzando i dati relativi ai movimenti su conti bancari; si tratta di una presunzione legale di carattere relativo, in quanto è ammessa la prova liberatoria da parte del contribuente, al quale resta garantito il diritto di difesa, potendo egli far valere le sue ragioni in sede contenziosa a norma dell'art. 32 del d.lgs. 546/1992, depositando documenti e memorie.
Nel caso de quo, inoltre, risultava agli atti come l’Ufficio avesse invitato il contribuente nella fase procedimentale (id: risposta ad invito) a fornire dati, notizie e chiarimenti in ordine ai versamenti nel proprio conto corrente di rilevanti somme in contanti (circa 300.000 euro in un anno) scaglionate periodicamente, ed avesse poi anche attivato il contraddittorio articolato in più incontri onde consentire al contribuente il massimo diritto di difesa. All’esito delle giustificazioni prodotte, aveva ritenuto trattarsi di proventi da una attività commerciale "in nero" svolta dal contribuente, spiegando le ragioni da cui aveva desunto che si trattasse di esercizio abituale di attività commerciale, donde gravava su quest'ultimo l'onere di fornire la prova contraria, a nulla rilevando le controdeduzioni del contribuente basate sul fatto che le somme versate in contanti costituivano risparmi della madre, a lui affidati ad uso investimento.
Il contribuente, inoltre, provava a confutare gli addebiti dell’Agenzia confidando sulla sua assoluzione in ambito penale. A tale prospettazione, i Giudici nomofilattici hanno chiarito che, a prescindere dal fatto che nel grado di merito impugnato si era già dato contezza dell’assoluzione penale, la non rilevanza penale, se pure fosse passata in giudicato, non avrebbe avuto alcuna efficacia vincolante, ai sensi dell'art. 654 cpp, nel processo tributario, in quanto quest’ultimo si basava su fatti differenti da quelli per i quali l’Amministrazione Finanziaria aveva promosso l'accertamento (verifica sui conti correnti, verifica non condotta nella sede penale).

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO


(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.
Ha collaborato alla redazione il Collega
Luigi Carbonelli

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Modificato: 26 Luglio 2021