24 Luglio 2023

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

È DIFFAMAZIONE INVIARE UNA MAIL OFFENSIVA AD UN COLLEGA SE TRA I DESTINATARI CI SONO ALTRI DIPENDENTI

CORTE DI CASSAZIONE, SENTENZA N. 22631 DEL 14 APRILE 2023

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22631 del 14 aprile 2023, ha affermato che l’invio di una mail ad una pluralità di colleghi, incluso il destinatario dell’offesa contenuta nel testo, integra il reato di diffamazione.

Occasione della controversia è stata la richiesta di annullamento della sentenza del Tribunale che dichiarava il lavoratore imputato colpevole del delitto di cui all'art. 595 c.p. (reato di diffamazione), per aver offeso la reputazione di un collega nell'ambito di una comunicazione via mail intrattenuta con più dipendenti, ivi compreso l'offeso. Il ricorrente deduceva che la fattispecie in concreto accertata si sarebbe dovuta sussumere nel reato di ingiuria ex art. 594 c.p., poiché non poteva escludersi che il destinatario dell’offesa fosse presente in tempo reale al momento che la mail venne inviata, letta e ricevuta da tutti i riceventi.

La Cassazione, nel confermare la pronuncia di merito, ha rilevato che l’invio di una mail dal contenuto offensivo ad una pluralità di destinatari integra il reato di diffamazione anche nell'eventualità che tra questi vi sia l'offeso, stante la non contestualità del recepimento del messaggio nelle caselle di posta elettronica di destinazione. Diversa, continua la sentenza, è l’ipotesi in cui l’offesa sia perpetrata nel corso di una riunione "a distanza" (o "da remoto"), tra più persone contestualmente collegate, alla quale partecipa anche l'offeso. In tale circostanza, infatti, per i Giudici di legittimità ricorre la diversa fattispecie dell'ingiuria commessa alla presenza di più persone, ormai depenalizzata.

Su tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’imputato e confermato la condanna per il reato di diffamazione ascrittogli.

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CHE ESPRIMA CRITICHE NEI CONFRONTI DEL DATORE DI LAVORO ALL’INTERNO DI SCRITTI DIFENSIVI

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 19621 DELL’11 LUGLIO 2023

La Corte di Cassazione, sentenza n. 19621 dell’11 luglio 2023, afferma l’illegittimità del licenziamento del lavoratore che abbia criticato il datore di lavoro in uno scritto difensivo.

Nel caso esaminato, la Corte d’Appello confermava la sentenza dei Giudici di primo grado, con la quale era stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato al dipendente per l’utilizzo di espressioni ritenute diffamatorie, all’interno di scritti difensivi relativi al ricorso giudiziario proposto da quest’ultimo per ottenere differenze retributive che assumeva gli spettassero. Avverso la sentenza, il datore di lavoro proponeva ricorso in Cassazione.

I Giudici di Legittimità, rigettando il ricorso, affermano che il diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro deve rispettare i limiti di continenza formale, il cui superamento, rimesso alla valutazione del Giudice di merito, rappresenta condotta idonea a ledere il rapporto fiduciario tra le parti e quindi a giustificare il licenziamento per giusta causa.

Tuttavia, con riferimento alle dichiarazioni contenute in un documento giudiziario riferibile all’esercizio del diritto di difesa, si applica la causa di non punibilità prevista dall’art. 598 c.p. Si tratta, a parere dei Giudici di legittimità, dell’applicazione del principio posto dall’art. 51 c.p., che esclude la punibilità della condotta posta in essere nell’esercizio di un diritto o nell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, riferibile quindi anche alle critiche mosse dal dipendente negli scritti difensivi che erano strettamente connessi all’esercizio del diritto di difesa in giudizio, non avendo alcuna finalità di diffondere notizie idonee a screditare pubblicamente il datore di lavoro.

LA MANCATA IMPUGNAZIONE DEI BILANCI SUCCESSIVI A QUELLO GIA’ IMPUGNATO DAL SOCIO NON EQUIVALE A CESSATA MATERIA DEL CONTENDERE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.14334 DEL 24 MAGGIO 2023

La Corte di Cassazione – ordinanza n°14334 del 24 maggio 2023 – ha statuito, in tema di impugnazione del bilancio di esercizio, ex artt. 2377 e 2379 c.c., da parte del socio di srl, che la manca impugnazione dei bilanci successivi alla prima impugnativa, non equivale alla carenza di interesse del socio a coltivare l’impugnazione.

Nel caso in specie, con atto di citazione la socia di una s.r.l., titolare della quota pari al 25% del capitale sociale, conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Nola la società partecipata per dichiarare nulla ovvero annullare la delibera dell'assemblea ordinaria dei soci di approvazione del bilancio dell'esercizio chiuso al 31.12.2008, sia per vizi "derivati" dai precedenti bilanci (già oggetto di impugnativa in altri giudizi), sia per vizi "propri". Il Tribunale di Nola accoglieva la domanda e per l'effetto dichiarava la nullità della delibera di approvazione del bilancio chiuso al 31.12.2008, con condanna della società convenuta al pagamento delle spese del grado.

Avverso la predetta sentenza proponeva appello la s.r.l. e la Corte di appello di Napoli, rigettava il gravame, confermando pertanto la sentenza impugnata. In particolare, la società appellante aveva censurato la sentenza impugnata nella parte in cui non aveva accolto l'eccezione di carenza di interesse della socia ad impugnare, in ragione della mancata impugnazione dei bilanci di esercizio successivi a quello del 2008, con conseguente intangibilità dei saldi di tali bilanci, per il principio di continuità dei valori di bilancio.

La ricorrente, aveva sostenuto che, alla mancata impugnazione dei bilanci "intermedi", conseguirebbe la definitiva cristallizzazione ed irretrattabilità' delle poste e dei saldi in essi riportati, con la conseguenza che a tale "cristallizzazione" farebbe seguito la giuridica impossibilità' di apportare modifiche alle poste degli esercizi successivi a quelli impugnati, siccome il principio di continuità dei bilanci imporrebbe che "ogni bilancio segua il precedente e preceda il successivo in un rapporto di stretta continuità e interdipendenza" in quanto il saldo di chiusura dell'esercizio precedente costituirebbe il saldo di apertura dell'esercizio successivo.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso evidenziando che è per il bilancioriferito all'esercizio nel corso del quale viene dichiarata la nullità del bilancio precedentemente impugnato – che sorge l'onere a carico degli amministratori di tener conto delle ragioni della stessa, senza che, tuttavia, tale onere di adeguamento sia condizionato, in senso assoluto, all'impugnazione anche di tale bilancio e di quelli medio tempore intervenuti tra l'impugnazione proposta e la sentenza che l'ha accolta.

Ne discende pertanto l'assoluta infondatezza delle doglianze articolate dalla ricorrente, hanno concluso gli Ermellini, ed invero, la mancata impugnazione da parte della socia dei bilanci medio tempore approvati non determinava e non determina alcuna sua sopravvenuta carenza di interesse a far valere la nullità del bilancio impugnato, prima, e non dopo, di quelli successivi, con conseguenziale improponibilità anche dell'eccezione di cessazione della materia del contendere.

LA RETRIBUZIONE DOVUTA NEL PERIODO DI GODIMENTO DELLE FERIE DEVE INCLUDERE LE SOMME A TITOLO DIN INCENTIVO COLLEGATE ALLE MANSIONI SVOLTE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 19663/2023 DEL 11 LUGLIO 2023

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 19663, depositata l’11 luglio 2023, ha affermato che la retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali, per come interpretata dalla Corte di Giustizia, comprende qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all'esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo status personale e professionale del lavoratore

Nel caso in esame, i lavoratori ricorrevano giudizialmente per veder riconosciuti, nel computo della retribuzione dovuta durante le ferie, i compensi spettanti a titolo di incentivo per indennità di condotta e indennità di riserva previsti dall’ art. 54 del contratto aziendale, sospesi dal datore al fine di evitare che i dipendenti fruissero delle ferie. La Corte di Appello di Milano, evidenziando che i dipendenti avevano fornito le prove necessarie, depositando prospetti paga, i contratti collettivi e i conteggi analitici delle somme richieste, confermava la sentenza di primo grado. La Corte nel giudicato richiamava sia la giurisprudenza della Cassazione sia la direttiva europea 2003/88/CE, che definisce la retribuzione come qualsiasi importo pecuniario legato all'esecuzione delle mansioni e correlato allo status personale e professionale del lavoratore. Era stato, inoltre, accertato che la retribuzione erogata durante le ferie includeva solo la parte fissa prevista dal contratto collettivo, mentre gli altri compensi, come gli incentivi per l'attività di condotta e l'indennità di riserva, erano esclusi. La corte Territoriale nel valutare se la retribuzione corrisposta durante le ferie potesse costituire un deterrente all'utilizzo effettivo delle stesse, constatava che una diminuzione della retribuzione compresa tra il 13,50% e il 19% potrebbe effettivamente dissuadere i dipendenti dal fruirne. Escludeva, inoltre, che gli incentivi per l'attività di condotta e di riserva fossero stati incorporati nella voce premiale denominata "patto di competitività", poiché erano distintamente presenti nei prospetti paga mensili depositati. I Giudici, infine, escludevano la prescrizione delle somme richieste, sottolineando che, in base alle modifiche apportate alla legge n. 92 del 2012, la prescrizione non decorre durante il rapporto di lavoro.

La Corte di Cassazione, adita da parte datoriale, confermando la sentenza d’Appello, ribadiva che la nozione di retribuzione da applicare durante il periodo di godimento delle ferie è fortemente influenzata dalla interpretazione data dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha più volte sostenuto che il lavoratore deve percepire in tale periodo di riposo la retribuzione ordinaria (cfr. Cass. N. 13425 del 17/05/2019). La corte ribadiva, inoltre, che le sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione Europea hanno efficacia vincolante sull'ordinamento nazionale ed è necessario seguire l'interpretazione fornita dalla Corte Europea.

In conclusione, la Corte Suprema, rigettando il ricorso della società datrice di lavoro, confermava che gli incentivi retributivi collegati alle mansioni devono essere corrisposti anche durante i giorni di ferie e che la retribuzione utilizzata come parametro deve includere tutti gli importi pecuniari collegati all'esecuzione delle mansioni e correlati allo "status" personale e professionale del lavoratore.

PER IL MINIMALE CONTRIBUTIVO SI TIENE IN CONSIDERAZIONE IL CCNL LEADER

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 13840 DEL 19 MAGGIO 2023

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 13840 del 19 maggio 2023, ha affermato che il trattamento retributivo da porre a base del minimale contributivo non può che essere quello negoziato dalle organizzazioni e dalle associazioni comparativamente più rappresentative.

Il fatto affrontato riguarda l’opposizione giudiziale da parte di una cooperativa all’avviso di addebito con cui l’INPS aveva richiesto euro 55.930,57 a titolo di contributi, per avere la società individuato come retribuzione imponibile quella indicata da un contratto collettivo sottoscritto da associazioni non risultanti tra quelle comparativamente più rappresentative. La Corte d’Appello rigettava la predetta domanda, sul presupposto che la retribuzione da prendere come imponibile fosse soltanto quella prevista dal c.d. "contratto leader".

La Cassazione, nel confermare la pronuncia di merito, ha rilevato che la scelta della fonte collettiva ai fini della determinazione della misura dell'obbligo previdenziale, fra tutte quelle astrattamente applicabili (anche di diverso livello), non è devoluta all'autonomia datoriale, essendo una scelta che il legislatore riserva a sé.

Secondo i Giudici di legittimità, l’obiettivo del legislatore è quello di garantire ai lavoratori di conseguire quel trattamento pensionistico (obbligatorio) “adeguato” cui fa espresso riferimento l'articolo 38 della Costituzione. Per la sentenza, ne consegue che è necessario scegliere il contratto trainante (definito, per ciò stesso "leader"), perché meglio degli altri appare in grado di rappresentare le caratteristiche soggettive dell'impresa nonché la storia contributiva dei lavoratori interessati alla definizione del minimale contributivo.

Inoltre, nel caso di specie, accertato l’elemento intenzionale nell’applicazione erronea del CCNL -che postula l’occultamento di una parte della base imponibile ai fini previdenziali- i Giudici hanno confermato la sussistenza della responsabilità a titolo di evasione con la conseguente irrogazioni di sanzioni civili più onerose rispetto ai parametri di legge fissati per l’omissione contributiva.

Ad maiora

Il Presidente
Fabio Triunfo

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Gennaro Salzano, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino

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Modificato: 25 Settembre 2023