4 Settembre 2017
Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….
Oggi parliamo di………….
COEFFICIENTE ISTAT MESE DI LUGLIO 2017
E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Luglio 2017. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Luglio 2017 è pari a 1,398430 e l’indice Istat è 101,00.
NELL'AMBITO DELLE PROCEDURE DI LICENZIAMENTO COLLETTIVO I CRITERI DI SCELTA DEVONO ESSERE IMPRONTATI ALL'OGGETTIVITA' PONDERANDO TUTTI GLI INDICI RICHIESTI DALLA LEGGE OVVERO CONCORDATI IN SEDE DI CONSULTAZIONE SINDACALE.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 18666 DEL 27 LUGLIO 2017.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 18666 del 27 luglio 2017, ha, per l'ennesima volta, statuito che nelle procedure di licenziamento collettivo – ex lege n° 223/91 – il datore di lavoro deve effettuare la scelta dei lavoratori da espellere dal contesto produttivo utilizzando criteri di scelta oggettivi e verificabili effettuando una attenta ponderazione di tutti gli indici previsti dalla norma ovvero concordati con le OO.SS. in sede di consultazione.
Nel caso de quo, due lavoratori venivano licenziati all'esito della procedura prevista per i licenziamenti collettivi. Gli stessi adivano la Magistratura ritenendo che l'intera procedura, posta in essere dal datore di lavoro, fosse fondata sulla volontà di “allontanare” alcuni soggetti poco graditi alla proprietà aziendale. I dipendenti licenziati paventavano, inoltre, l'illegittimità degli atti di recesso per l'arbitrarietà dei criteri di scelta utilizzati in quanto fondati esclusivamente su esigenze di carattere tecnico-organizzativo.
Soccombenti in entrambi i gradi di merito, i lavoratori ricorrevano in Cassazione.
Orbene, gli Ermellini, nel rigettare il ricorso in quanto fondato esclusivamente su una rivisitazione dei fatti non consentita in sede di legittimità, hanno comunque evidenziato che i criteri di scelta da utilizzare nell'ambito delle procedure di licenziamento collettivo non possono essere fondati esclusivamente su indici collegati alle esigenze tecnico-organizzative ma devono tenere in debita considerazione altri elementi, facendo riferimento alla norma vigente ovvero a diversi indicatori pattuiti fra le parti nell'ambito della procedura di consultazione sindacale.
Pertanto, atteso che nel caso de quo i dipendenti non avevano fornito prova, nei giudizi di merito, dell'intento “discriminatorio” della procedura di licenziamento, i Giudici di Piazza Cavour hanno respinto il ricorso non potendo effettuare una nuova valutazione dei fatti essendo, tale attività, “riservata” ai primi due gradi di giudizio.
L'INDENNITA' DI DISOCCUPAZIONE E' DOVUTA ANCHE QUANDO IL LAVORATORE NON RESIDENTE RIENTRA NEL PROPRIO PAESE D'ORIGINE.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 16997 DEL 10 LUGLIO 2017.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 16997 del 10 luglio 2017, ha stabilito, in relazione al diritto del lavoratore a percepire l'indennità di disoccupazione, che la circostanza del rientro in patria non legittima la sospensione della provvidenza economica.
Nel caso in esame, il Tribunale di Torino confermava la statuizione di primo grado che aveva riconosciuto ad un lavoratore il diritto di fruire dell'indennità di disoccupazione anche in relazione ai periodi in cui questi era rientrato nel proprio Paese di origine.
Contro tale parere, l'Inps ha proposto ricorso in Cassazione eccependo che un'interpretazione del genere oblitererebbe il principio, più volte affermato dalla giurisprudenza, secondo cui, dato che lo scopo dell'indennità di disoccupazione involontaria è di assicurare un reddito per un periodo di disoccupazione involontaria trascorso in Italia, vale a dire in un periodo in cui l'assicurato, pur essendo disponibile a lavorare nel nostro Paese, non riesce nondimeno a trovare occupazione, i periodi di allontanamento dal territorio nazionale non potrebbero intrinsecamente ricevere tutela, essendo il sistema assicurativo improntato al principio di territorialità e non essendo giustificabile alcuna esportazione della prestazione previdenziale.
Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha, prima facie, ribadito che le prestazioni assicurate dal sistema di sicurezza sociale obbediscono all'obiettivo di assicurare al singolo un sostegno reale e monetario in dipendenza di determinati eventi che influiscono negativamente sulla propria capacità di lavoro e/o di guadagno ed altresì allo scopo di sostenere la domanda interna rispetto alle flessioni negative provocate dalla perdita di reddito degli assicurati in dipendenza della perdita di lavoro. E' pur vero, hanno continuato gli Ermellini che, laddove si consentisse agli assicurati/beneficiari l'esportazione all'estero delle prestazioni loro riconosciute, dal momento che la spesa per consumi che esse mirano a garantire, rivolgendosi a territori esteri, non eserciterebbe alcun effetto benefico sulla domanda interna. Tuttavia, hanno precisato i Giudici, spetta al legislatore trovare un punto di equilibrio fra l'eventuale esigenza del singolo a dimorare altrove e la necessità di garantire la spesa per i consumi; punto di equilibrio il quale non può che essere ancorato ai requisiti soggettivi e oggettivi che presiedono al riconoscimento del diritto all'indennità di disoccupazione. Il punto di riferimento, in questo caso, è dato dall'articolo 4 del D.lgs 181/00 (come sostituito dall'articolo 5 del D.lgs 297/02 e applicabile ratione temporis), il quale, nel fissare l'adozione di procedure uniformi in materia di accertamento dello stato di disoccupazione, stabilisce che la perdita dell'indennità consegue solo alla mancata presentazione dell'assicurato, senza giustificato motivo, alla convocazione del servizio competente oppure in caso di rifiuto senza giustificata motivazione di una congrua offerta di lavoro a tempo pieno e indeterminato o determinato, o di lavoro temporaneo ai sensi della legge 196/97. Tutte circostanze, queste ultime, di cui l'Inps non è stato in grado di fornire la prova.
ILLEGITTIMA LA CARTELLA PER OMESSO VERSAMENTO IRAP SE L’IMPOSTA NON È DOVUTA, PUR SE COMPILATO IL QUADRO DEL TRIBUTO IN DICHIARAZIONE.
CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 16747 DEL 7 LUGLIO 2017
La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 16747 del 7 luglio 2017, ha statuito l’illegittimità della cartella di pagamento emessa all’esito del controllo formale della dichiarazione IRAP per un professionista, la cui dichiarazione presentava imposta a debito, ma non versata per mancanza del presupposto oggettivo dell’autonoma organizzazione.
IL FATTO
L’Agenzia delle Entrate aveva emesso a carico di un professionista una cartella di pagamento a seguito di un controllo automatizzato della dichiarazione dell’IRAP, presentata dallo stesso con imposta a debito, ma non versata.
Il professionista ricorreva alla giustizia tributaria difendendosi con l’assunto che era stato costretto dal proprio programma di software alla compilazione del quadro IRAP nonostante l'imposta non fosse dovuta per l’assenza del presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione.
I Giudici tributari di merito dichiaravano la legittimità della cartella di pagamento, affermando che:
“a prescindere dall’assoggettabilità dell’IRAP da parte del contribuente, dalla documentazione prodotta, egli avrebbe dovuto versare l'IRAP indicata in dichiarazione per poi richiedere il rimborso, provando di non essere tenuto al versamento”.
Da qui, il ricorso per Cassazione da parte del professionista.
Orbene, gli Ermellini con la sentenza de qua hanno accolto il ricorso del professionista, affermando il principio secondo il quale: “l’impugnazione della cartella esattoriale, emessa in seguito a procedura di controllo automatizzato della dichiarazione non è preclusa dal fatto che l’atto impositivo sia fondato sui dati evidenziati dal contribuente nella propria dichiarazione, in quanto tale conclusione presupporrebbe la irretrattabilità delle dichiarazioni del contribuente che, invece, avendo natura di dichiarazioni di scienza, sono ritrattabili in ragione della acquisizione di nuovi elementi di conoscenza o di valutazione” (Cass. n. 9872/2011).
Inoltre i Giudici di Piazza Cavour hanno evidenziato come la ratio decidendi della sentenza impugnata non fosse conforme al consolidato principio di giurisprudenza di legittimità esistente in materia secondo il quale il requisito della “autonoma organizzazione”, presupposto impositivo ai fini IRAP, sussiste quando il professionista:
- sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse;
- impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui; al riguardo, si è più recentemente chiarito come il detto requisito dell’autonoma organizzazione non ricorre quando il contribuente responsabile dell’organizzazione si avvalga di lavoro altrui non eccedente l’impiego di un dipendente con mansioni esecutive. (ex plurimis, Cass. n. 3676, n. 3673, n. 3678, n. 3680 del 2007; Cass. sezioni unite 10 maggio 2016, n. 9451).
Per le motivazioni di cui sopra i Giudici delle Leggi hanno accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata.
LO IUS SUPERVENIENS NON CONSENTE L’APPLICAZIONE IN AUTOMATICO DELLE PIU’ FAVOREVOLI SANZIONI PER IL CONTRIBUENTE.
CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 16128 DEL 28 GIUGNO 2017
La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n°16128 del 28 giugno 2017, ha statuito che le sanzioni fiscali più basse introdotte dalla riforma attuata con il D.Lgs. n. 158/2015 non possono essere applicate in maniera automatica, senza cioè valutare la gravità delle infrazioni commesse in concreto dal contribuente.
Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, con un’inversione di rotta rispetto a un recente orientamento favorevole al contribuente (sentenza n° 15978/2017 commentata sul numero 28/2017 di questa rubrica), hanno chiaramente sostenuto che la modifica normativa in esame (D.Lgs. n. 158/2015), invero, non opera in maniera generalizzata in favor rei, con la conseguenza che la mera affermazione di uno ius superveniens più favorevole, non consente di operare sic et simpliciter la trasformazione della sanzione irrogata in sanzione illegale, anche e soprattutto in assenza di specifica deduzione dell’applicabilità in concreto di una sanzione tributaria inferiore rispetto a quella applicata, nel caso in esame mancata con riferimento sia ai margini edittali della sanzione inflitta che alla valutazione della gravità della violazione.
In nuce per la S.C. deve escludersi che la mera deduzione di uno ius superveniens più favorevole, senza alcuna altra precisazione con riferimento al caso concreto, sia tale da imporre il rinvio della causa al Giudice di merito, a ciò ostandovi non soltanto il principio di necessaria specificità dei motivi di ricorso in cassazione ma anche e soprattutto il principio costituzionale di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 della Costituzione.
LA INSUSSISTENZA ED INDISPONIBILITA’ DI MANSIONI DIVERSE VA SEMPRE PROVATA DAL DATORE DI LAVORO.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 18506 DEL 26 LUGLIO 2017
La Corte di Cassazione, sentenza n° 18506 del 26 luglio 2017, ha statuito che, qualora il lavoratore – a seguito di inidoneità sopravvenuta – chieda di essere adibito a mansioni diverse, compete al datore l’onere di provare la indisponibilità delle posizioni.
Nel caso in commento, la Corte di Appello di Firenze, a parziale conferma della statuizione di primo grado del Tribunale di Lucca, condannava la società al pagamento del danno biologico ed esistenziale cagionato al dipendente perché non riammesso tempestivamente in servizio, all’esito di un giudizio di temporanea inidoneità allo svolgimento della mansione.
In particolare, benché il subordinato avesse richiesto l’adibizione a mansioni “sedentarie”, a cagione della temporanea inabilità, la società datrice, adducendo di dover attendere la conclusione di un piano di ristrutturazione, aveva glissato sulla richiesta, riammettendolo al lavoro soltanto dopo 9 mesi, senza – peraltro – provare come l’attività di “sportello” potesse essere incompatibile con la temporanea inabilità del lavoratore.
Gli Ermellini, nel confermare l'iter logico giuridico dei Giudici dell'Appello, hanno statuito che il lavoratore assegnato a mansioni diverse, a seguito di inidoneità parziale, è sufficiente che si limiti ad una richiesta di assegnazione a determinate mansioni; nel mentre, è onere del datore di lavoro provare l’indisponibilità di altre posizioni utili, senza che il lavoratore sia in alcun modo obbligato ad indicare specifiche posizioni aziendali.
Ad maiora
IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO
(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!
Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.
Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro
Modificato: 4 Settembre 2017