31 Agosto 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI LUGLIO 2020

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Luglio 2020. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Luglio 2020 è pari a 0,875 e l’indice Istat è 102,30.

L’ATTIVITA’ PROFESSIONALE DI COMMERCIALISTA E’ INCOMPATIBILE CON QUELLA DI SINDACO, CON L’EFFETTO CHE IL PROFESSIONISTA RISPONDE DEL DANNO CAGIONATO AI CREDITORI SOCIALI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 11884 DEL 18 GIUGNO 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 11884 del 18 giugno 2020, ha (ri)statuito la incompatibilità della carica di Presidente del Collegio sindacale da parte di un professionista che, contemporaneamente, è anche il commercialista della società stessa.

Più in dettaglio, era risultato dai gradi di merito che il Collegio sindacale non aveva vigilato sulla scelta degli amministratori di destinare le risorse finanziarie della società (poi fallita) ad impieghi diversi rispetto a quelli relativi alla soddisfazione di debiti tributari, con la conseguenza che gli interessi e le sanzioni scaturiti (€ 186.779,78#) avevano finito con il danneggiare i creditori sociali.

La Cassazione, in particolare, si è soffermata per stigmatizzarla, sulla partecipazione del soggetto che, anche come commercialista, aveva preso parte – nella qualità di Presidente del Collegio sindacale (ruolo incompatibile con quello di consulente societario) – alla gestione dell’attività di amministratore della società fallita e sul fatto che il mancato controllo rivestiva una tale evidenza ed eclatanza che non poteva non essere rilevata dal collegio dei sindaci nel corso degli anni ed in occasione dell'approvazione dei diversi bilanci ove i costi di tali anomalie gestionali erano stati puntualmente registrati.

A fortiori, hanno concluso gli Ermellini, l'odierno ricorrente è stato attinto da una severa condanna penale nell'ambito del giudizio diretto ad accertare fatti di bancarotta fraudolenta.

Pertanto, dopo aver dichiarato la inammissibilità del ricorso, è stata confermata la sentenza di condanna per responsabilità, quale sindaco della società fallita, per i danni cagionati ai creditori per atti di mala gestio e di mancato controllo.

 

LA MANCATA PRESENTAZIONE DELLA DICHIARAZIONE DEI REDDITI NON CONSENTE LA RIPARTIZIONE DEI REDDITI TRA I PARTECIPANTI ALL’IMPRESA FAMILIARE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 9506 DEL 22 MAGGIO 2020

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria , sentenza n° 9506 del 22 maggio 2020, ha statuito che il regime fiscale di imputazione del reddito dell’impresa familiare si applica a condizione che siano rispettati tutti i presupposti giuridici previsti dalla legge, compresa l'attestazione, nella dichiarazione annuale di ciascuno dei partecipanti, di aver lavorato per l'impresa familiare.

Di conseguenza, se uno dei partecipanti all’impresa omette di presentare la dichiarazione dei redditi, l’impresa non sarà più qualificata fiscalmente come “impresa familiare”, con l’attribuzione dell’intero reddito accertato al titolare.

Nel caso in specie, l’Agenzia delle Entrate emetteva avviso di accertamento ai fini delle imposte a carico di un imprenditore per omessa presentazione della dichiarazione dei redditi. Con l’atto impositivo de qua, l’Agenzia delle Entrate aveva imputato per intero in capo al titolare il maggior reddito derivante dall’attività di farmacista, esercitata in forma di impresa familiare, unitamente al fratello.

Avverso il summenzionato avviso di accertamento l’imprenditore presentava ricorso alla giustizia tributaria, chiedendo che il reddito accertato non gli fosse attribuito integralmente, ma imputato pro-quota tra i partecipanti dell'impresa familiare secondo il regime previsto dall’articolo 5 del TUIR.
Il ricorso veniva rigettato sia dalla C.T.P che da quella regionale.

In particolare, i Giudici d’Appello ritenevano infondata la doglianza dell’imprenditore perché, ai fini dell’imputazione in capo a ciascun familiare del reddito derivante dalle imprese familiari è necessario che ciascuno di essi attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte dell’imprenditore.

Orbene, con la sentenza de qua i Giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto inammissibili i motivi di doglianza e rigettato il ricorso proposto dal contribuente, ribadendo che “in tema di imposte sui redditi, i proventi derivanti dall’esercizio di un’impresa familiare vanno imputati ai singoli partecipanti a condizione che sussistano i presupposti giuridici indicati dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, comma 4, per la qualifica di questi ultimi come collaboratori familiari, ossia l’indicazione nominativa dei familiari partecipanti all’attività di impresa, le quote loro attribuite nonché l’attestazione, nella dichiarazione annuale di ciascuno dei partecipanti, di aver lavorato per l’impresa familiare (Cass. n. 7995/2017; Cass. n. 2472/2017, Cass. n. 23170/2010).

Pertanto, hanno concluso gli Ermellini, nel caso de quo avendo pacificamente il contribuente omesso di presentare la dichiarazione dei redditi, non era possibile fare applicazione dell’imputazione del reddito tra i partecipanti dell’impresa familiare, mancando l’indicazione imposta dall’art. 5, comma 4, lett. c)che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività dell’impresa di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente”;

In nuce, l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi non consente di qualificare fiscalmente l’impresa come “impresa familiare” ma come mera ditta individuale a cui non può farsi applicazione il regime previsto dal citato articolo 5. Di conseguenza i familiari collaboratori non possono essere considerati contitolari dell’impresa familiare e i redditi a loro imputati sono “redditi di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa” (cfr. Cassazione n. 2472/2017), e ciò nonostante i partecipanti siano stati indicati come tali nella scrittura privata tra loro sottoscritta ai sensi dell’articolo 230-bis c.c.

 

IL RIFIUTO DEL DIPENDENTE A SOTTOPORSI AD ACCERTAMENTI SANITARI, VOLTI A VERIFICARNE LO STATO DI SALUTE, E’ LEGITTIMO E NON PUO’ COSTITUIRE GIUSTA CAUSA DI LICENZIAMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 16251 DEL 29 LUGLIO 2020

La Corte di Cassazione sentenza n° 16251 del 29 luglio 2020, ha statuito l’illegittimità del licenziamento comminato per giusta causa nei confronti di un lavoratore che si era rifiutato di sottoporsi ad accertamento tecnico preventivo ex art. 445 bis c.p.c., volto a determinare la veridicità delle malattie che molto spesso lo costringevano ad assentarsi dal lavoro, sovente in concomitanza del fine settimana e nei mesi estivi.

Nel caso in specie, infatti, la società datrice di lavoro, a seguito di numerose assenze per malattia, spesso in concomitanza di week end ed in concomitanza a periodi di ferie e permessi, aveva promosso, nei confronti del lavoratore, un accertamento tecnico preventivo, come previsto dal codice di procedura civile art. 445-bis, per accertarne lo stato di salute.

Al rifiuto del dipendente aveva fatto seguito una contestazione disciplinare e, successivamente, il licenziamento per giusta causa, dichiarato legittimo dal Tribunale che qualificava il rifiuto a sottoporsi all’accertamento come rilevante violazione dei doveri di correttezza e buona fede gravanti sul lavoratore.

Di parere contrario, invece, la Corte d’Appello di Milano che, in totale riforma della sentenza impugnata, dichiarava illegittimo il licenziamento ed ordinava di reintegrare il reclamante nel precedente posto di lavoro, con le medesime o equivalenti mansioni e corrispondergli l’indennità risarcitoria.

La Suprema Corte ha confermato l’illegittimità ricordando che il rifiuto del lavoratore non può costituire violazione degli obblighi di correttezza e buona fede in quanto questi costituiscono un metro di valutazione in ordine all’adempimento o meno degli obblighi contrattuali ma non sono idonei a far sorgere nuovi obblighi contrattuali (ex aliis, Cass. n. 28974 del 04/12/2017, Cass. n. 6501 del 14/03/2013). L’accertamento tecnico preventivo, previsto dal richiamato art. 445 bis c.p.c., inoltre, è uno strumento nato per deflazionare il contenzioso in materia previdenziale, non idoneo certo a consentire al datore di lavoro il controllo dello stato di salute dei dipendenti, tanto più che secondo quanto previsto  dall’art. 5 L.300/70  “sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente”, “il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda” ed “il datore di lavoro ha (inoltre) facoltà di far controllare la idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico”.

In nuce, gli Ermellini hanno precisato che tutto ciò, oltre che avallare il rifiuto opposto dal lavoratore, rende illegittimo il licenziamento comminato.

 

I GIORNI FESTIVI SONO CONSIDERATI DI CONGEDO PARENTALE SOLO SE RIENTRANO SENZA SOLUZIONE DI CONTINUITA’ NEL PERIODO DI FRUIZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 15633 DEL 22 LUGLIO 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 15633 del 22 luglio 2020, ha statuito che nella fruizione del congedo parentale, ex art. 32 del D.lgs. 151/2001, i giorni festivi vengono computati soltanto se rientrano interamente e senza soluzione di continuità nel periodo di fruizione.

In particolare, l’art. 32 del D.lgs. 151/2001 prevede che la fruibilità del congedo parentale possa essere anche frazionata, ciò con il preciso fine di una migliore modulabilità delle cure da dedicare ai figli.

Il caso in questione riguardava il caso di un lavoratore rientrato in servizio il giorno precedente ad altro festivo e, poi, aveva ripreso a godere della astensione nel giorno immediatamente successivo il festivo.

Ebbene, il datore di lavoro aveva computato anche il giorno festivo nel periodo di astensione.

La Cassazione, nel rigettare il ricorso datoriale, ha rilevato che, nel momento in cui il legislatore ha previsto i congedi parentali, ha fatto una scelta ben precisa, ossia di "attribuire al lavoratore un diritto di carattere potestativo”, facendo così prevalere l'interesse del lavoratore ad assentarsi per l'assistenza e la cura dei figli.

Inoltre, è stato affermato che non potessero computarsi a titolo di congedo parentale i giorni festivi e/o non lavorativi quando gli stessi fossero preceduti da un periodo di congedo parentale e anche da un solo giorno di ripresa dell'attività lavorativa, non valendo in tal caso la presunzione di continuità, con conseguente riaffermazione del principio secondo cui il diritto potestativo di astenersi da una prestazione lavorativa che sarebbe altrimenti dovuta non può riferirsi a giornate in cui tale prestazione non è comunque dovuta."

 

OBBLIGO DI ISCRIZIONE ALLA GESTIONE SEPARATA PER IL COMMERCIALISTA CHE SVOLGE ANCHE ALTRO LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 12821 DEL 26 GIUGNO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 12821 del 26 giugno 2020, ha statuito nuovamente che il commercialista, non tenuto al versamento dei contributi alla propria Cassa previdenziale, per mancato raggiungimento del limite reddituale minimo, deve iscriversi alla Gestione separata istituita presso l’Inps, atteso che tale autonoma gestione rappresenta la modalità di attuazione della universalità della copertura previdenziale.

In particolare, nel caso in esame, la Corte di Appello di Milano, riformando la pronuncia di primo grado, aveva dichiarato il professionista tenuto al pagamento di contributi dovuti alla Gestione separata, di cui alla L. n. 335 del 1995, art. 2, comma 26, in relazione all'attività libero-professionale di commercialista svolta in concomitanza con l'attività di lavoro dipendente per la quale egli era iscritto presso altra gestione assicurativa obbligatoria.

La Cassazione, a conferma della sentenza di Appello, ha precisato che "i dottori commercialisti iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie i quali, non avendo raggiunto la soglia reddituale che rende obbligatoria l'iscrizione alla Cassa dei dottori commercialisti ed alla stessa versino esclusivamente un contributo integrativo di carattere solidaristico, in quanto iscritti all'albo professionale, cui non segue la costituzione di alcuna posizione previdenziale a loro beneficio, sono tenuti comunque ad iscriversi alla gestione separata presso l'INPS, in virtù del principio di universalizzazione della copertura assicurativa, cui è funzionale la disposizione di cui alla L. n. 335 del 1995, art. 2, comma 26, secondo cui l'unico versamento contributivo rilevante ai fini dell'esclusione di detto obbligo di iscrizione è quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione previdenziale" (Cass.n. 32508/2018).

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Giusi Acampora e Michela Sequino

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Modificato: 31 Agosto 2020