11 Settembre 2017

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE E' DA RITENERSI LEGITTIMO ANCHE NEL CASO IN CUI LA SOPPRESSIONE DEL REPARTO AL QUALE LO STESSO ERA ADIBITO E' MOTIVATA ESCLUSIVAMENTE DALLA VOLONTA’ DI INCREMENTARE I PROFITTI AZIENDALI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 19655 DEL 7 AGOSTO 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 19.655 del 7 agosto 2017, ha statuito che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo del dipendente è da ritenersi legittimo anche se la soppressione del reparto produttivo al quale lo stesso era adibito avviene esclusivamente al fine di incrementare i profitti aziendali.

Nel caso de quo, un lavoratore veniva licenziato per non meglio indicate ragioni inerenti l'organizzazione aziendale e per la conseguente soppressione di alcune posizioni lavorative. Il prestatore adiva la Magistratura paventando l'illegittimità dell'atto di recesso a causa della genericità delle motivazioni addotte a suo fondamento e per il connesso mancato assolvimento dell'obbligo di repechage.

Soccombente in appello, il datore di lavoro ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nel rigettare il ricorso in quanto fondato esclusivamente su una rivisitazione dei fatti non consentita in sede di legittimità, hanno comunque evidenziato che, in ossequio al principio della libertà imprenditoriale, sancito dalla nostra Carta Costituzionale, il licenziamento è da ritenersi pienamente legittimo anche nel caso in cui l'atto di recesso sia motivato dalla soppressione del posto di lavoro al solo fine di incrementare i profitti dell'imprenditore. Ovviamente è necessario che la comunicazione evidenzi, in modo puntuale e dettagliato, le ragioni poste a fondamento del licenziamento e l’avvenuto corretto assolvimento dell'obbligo di ripescaggio.

Pertanto, atteso che nel caso de quo il datore di lavoro non aveva fornito prova esaustiva della soppressione del reparto produttivo, né tantomeno del corretto assolvimento dell'obbligo di repechage, i Giudici di Piazza Cavour hanno respinto il ricorso non potendo effettuare una nuova valutazione dei fatti essendo tale attività “riservata” ai primi due gradi di giudizio.

 

IN CASO DI PRESTAZIONI DI NATURA INTELLETTUALE AI FINI DELLA QUALIFICAZIONE DEL RAPPORTO COME SUBORDINATO IL PRIMARIO PARAMETRO DEVE ESSERE ACCERTATO MEDIANTE IL RICORSO AD ELEMENTI SUSSIDIARI EMERGENTI DALLO SVOLGIMENTO DEL RAPPORTO

CORTE DI CASSAZIONE –  SENTENZA N. 16681 DEL 6 LUGLIO 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 16681 del 6 luglio 2017, ha statuito, in tema di qualificazione del rapporto di lavoro di natura intellettuale, come subordinato oppure autonomo, che non è decisivo il nomen iuris adottato dalle parti bensì, rileva, il concreto svolgimento del rapporto dal quale possano emergere i tratti essenziali della subordinazione.

Nel caso de quo, la Corte di Appello di Lecce aveva accolto il gravame di una docente di materie letterarie di un istituto scolastico e, diversamente dal primo Giudice, dichiarava la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso. In particolare, la Corte aveva accertato l'esercizio del potere direttivo da parte del datore di lavoro nelle modalità tipiche del rapporto di insegnamento quali: rispetto degli orari, accompagnamento degli alunni in viaggi e gite scolastiche su richiesta della presidenza, partecipazione alle riunioni dei docenti ed ai colloqui con i genitori in orari prestabiliti, sostituzione dei colleghi assenti e mancava, invece, la assunzione da parte della lavoratrice di qualsiasi rischio di impresa.

Contro la decisione ha proposto ricorso per cassazione la società datrice eccependo l'errore commesso dal Giudice dell'Appello nella individuazione degli indici della subordinazione con specifico riferimento alle prestazioni di tipo intellettuale ed alla attività di insegnamento, consistenti nell'esercizio da parte del datore di lavoro di un potere direttivo inerente allo svolgimento intrinseco della prestazione.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ribadendo la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso. In particolare, gli Ermellini hanno constatato, in punto di interpretazione ed applicazione della norma di cui all’art. 2094 c.c., la corretta applicazione, da parte della Corte d’Appello, quale criterio di qualificazione del rapporto di causa, l'inserimento nell’organizzazione del datore di lavoro per diversi anni della docente. Talché, in caso di prestazioni che, per la loro natura intellettuale, mal si adattano ad essere eseguite sotto la direzione del datore di lavoro, ai fini della qualificazione del rapporto come subordinato oppure autonomo, sia pure con collaborazione coordinata e continuativa, il primario parametro distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere necessariamente accertato mediante il ricorso ad elementi sussidiari fattuali emergenti dal concreto svolgimento del rapporto, che il Giudice deve individuare in concreto.

Tra essi, hanno concluso gli Ermellini, assumono rilevanza elementi quali l'obbligo di comunicare l'assenza per consentire la sostituzione in aula dei docenti, la partecipazione dei docenti ai consigli di classe o ai colloqui con i genitori, lo stabile inserimento nell'organizzazione aziendale con obbligo di osservare gli orari, l'incidenza del rischio economico, la continuità delle prestazioni, elementi pertanto correttamente valorizzati dal Giudice del merito. Essi infatti denotano l'inserimento dell'attività del singolo docente in un quadro complessivo nel quale questi rimane vincolato dalla organizzazione scolastica.
 

NON E’ SOGGETTO A IRAP IL PROFESSIONISTA CHE OCCASIONALMENTE SI AVVALE DELLA COLLABORAZIONE PROFESSIONALE DI UN COLLEGA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 17463 DEL 14 LUGLIO 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 17463 del 14 luglio 2017, ha statuito che è illegittimo l’avviso di accertamento ai fini IRAP a carico della professionista che, nei primi mesi di vita del figlio, per poterlo accudire, si è avvalsa occasionalmente di un collega per l’espletamento di alcune pratiche, ed adempimenti di cancelleria e attività di ricerca. 

Nel caso in specie, l’Agenzia delle Entrate aveva provveduto ad emettere a carico di una avvocatessa avviso d’accertamento per Irap non pagata per l’anno d’imposta 2005.

La professionista ricorreva prontamente alla giustizia tributaria risultando vincitrice in primo grado e soccombente in appello, in quanto la C.T.R., in riforma della decisione di primo grado, aveva dichiarato la pretesa erariale fondata, giacché la contribuente si era avvalsa della collaborazione di una collega, per l’espletamento di pratiche specifiche, adempimenti di cancelleria e attività di ricerca, con versamento di un compenso pari alla somma di 3.600 euro, e aveva utilizzato beni strumentali ammortizzabili per 6.144 euro

Da qui, il ricorso per Cassazione da parte della professionista.

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, hanno accolto in toto i motivi di gravame proposti dalla ricorrente, sulla scorta delle seguenti considerazioni:

  1. l'art. 2 del D.lgs. n. 446/97 prevede quale presupposto per l'applicazione dell'IRAP “l'esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi”.

In particolare, gli Ermellini hanno ricordato che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 156 del 2001, ha ritenuto legittima l'imposta in quanto non colpisce il lavoro autonomo in sé, ma la capacità produttiva che deriva dalla «autonoma organizzazione», ed alla luce della suddetta pronuncia successivamente, nella giurisprudenza di legittimità si è consolidato il principio secondo cui il requisito dell'autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al Giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente:

  1. sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse;
  2. impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui.
  1. Il Giudice di Appello, in relazione alla rilevanza del fattore lavoro ai fini della configurabilità del presupposto impositivo dell'autonoma organizzazione, aveva osservato che la contribuente si era avvalsa della collaborazione di una collega nell'espletamento dell'attività professionale, come dimostrato dalle fatture prodotte a deduzione dei costi, dalle quali emergeva l'indicazione delle pratiche espletate dalla collaboratrice, tralasciando qualsivoglia riferimento al fatto storico che la contribuente, nel marzo 2004, aveva avuto un figlio, con conseguente necessità di accudire il bambino, in particolare nel primo periodo di vita, per cui si era avvalsa occasionalmente del lavoro altrui (alcuni mesi del 2005).

La sentenza impugnata, pertanto, è stata cassata e la causa rinviata ad altra sezione della C.T.R. per nuovo esame.
 

PER LA DEDUCIBILITÀ DEI COSTI CARBURANTE È NECESSARIO CHE LA SCHEDA CARBURANTE SIA COMPLETA DI OGNI DATO RICHIESTO PER LA COMPILAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 16809 DEL 7 LUGLIO 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 16809 del 7 luglio 2017, ha statuito che per la piena deducibilità dei costi carburante è necessaria l’apposizione della firma sulla scheda da parte del gestore dell’impianto di distribuzione carburanti, l’indicazione del numero dei chilometri percorsi e di ogni altro dato richiesto.

IL FATTO

Con avviso di accertamento, l’Agenzia delle Entrate contestava ad una società costi non inerenti relativi a spese per acquisto carburante, in quanto documentati mediante schede irregolari, poiché prive della firma di convalida della fornitura da parte del gestore della stazione di servizio, nonché dell’annotazione, per ciascun veicolo rifornito, dei chilometri rilevabili a fine mese o trimestre. Avverso il suddetto avviso di accertamento la società ricorreva alla giustizia tributaria, risultando soccombente in primo grado e vincitrice in appello.

L’Agenzia delle Entrate ricorreva allora in Cassazione per violazione e falsa applicazione degli artt. 19, 22 e 109 del D.P.R. 633/72 e artt. 1, 3 e 4 D.P.R. n. 444/97, con riguardo alla ritenuta deducibilità dei costi carburante, nella parte in cui la C.T.R. non aveva considerato necessaria l’apposizione della firma sulla scheda da parte del gestore dell’impianto di distribuzione carburanti e l’indicazione del numero dei chilometri percorsi.

Orbene, con la sentenza de qua, gli Ermellini nell’accogliere il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, hanno ricordato che, ”con riferimento alle modalità di documentazione degli acquisti di carburante per autotrazione, il Regolamento approvato con il D.P.R. n. 444/97 prescrive l’istituzione di apposite schede carburante conformi al modello allegato al Regolamento (art. 1), le quali devono contenere tutti i dati indicati nell’art.2, devono recare la firma di convalida dell’addetto al distributore apposta all’atto di ogni rifornimento (art. 3), devono contenere l’annotazione del numero dei chilometri percorsi dal veicolo alla fine del mese o del trimestre (art. 4). L’adempimento di tali prescrizioni costituisce condizione imprescindibile sia per la deducibilità del costo ai fini della determinazione del reddito di impresa o di lavoro autonomo, sia ai fini della detraibilità dell’IVA assolta sugli acquisti di carburante; gli adempimenti prescritti non ammettono equipollenti e non possono essere sostituito dalla mera contabilizzazione delle operazioni nelle scritture contabili dell’impresa. (Cass. n. 26862/2014).

Per le motivazioni suddette la sentenza d’appello impugnata è stata cassata con nuovo rinvio alla C.T.R. in diversa composizione per la determinazione delle spese di lite.


IL TITOLARE DELL’IMPRESA FAMILIARE È SEMPRE RESPONSABILE PER LA SICUREZZA SUL LAVORO ANCHE SE NON È MATERIALMENTE UN DATORE DI LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 20406 DEL 25 AGOSTO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 20406 del 25 agosto 2017, ha statuito che il titolare dell’impresa familiare è comunque responsabile in tema di sicurezza sul lavoro anche se non riveste la “qualifica” di datore di lavoro, e deve sempre adottare le misure di sicurezza di cui al D.lgs  n. 81/2008.

Il caso di specie ha riguardato la titolare di una impresa familiare che, dopo la morte del coniuge collaboratore dell’impresa, avvenuta a causa di una caduta dall’alto mentre si trovava al lavoro, ha richiesto all’INAIL la corresponsione in proprio favore della rendita ai superstiti.  L’Istituto, pur riconoscendo la legittimità della richiesta, ha contestualmente avviato un’azione di rivalsa nei confronti della stessa titolare dell’impresa familiare (ex artt. 10 e 11 del T.U. n. 1125/1965), in quanto non avrebbe predisposto adeguate misure di sicurezza.

I Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, confermando quanto già stabilito dai Giudici territoriali, hanno accolto le doglianze dell’INAIL, in quanto il titolare dell’impresa familiare, anche se non riveste i panni di Datore di Lavoro, non essendoci un rapporto di subordinazione, deve adottare nei confronti dei collaboratori le misure di Sicurezza sul Lavoro previste dall’art. 21 del D.lgs 81/08.  Pertanto, in caso di infortunio, l’INAIL ha diritto ad esercitare l’azione di rivalsa anche se non c’è alcun rapporto di subordinazione.

In nuce, la S.C., pur riconoscendo il diritto alla rendita in quanto coniuge superstite, hanno accolto la richiesta dell'INAIL sul diritto di rivalsa, per mancata predisposizione delle adeguate misure di sicurezza.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 11 Settembre 2017