7 Settembre 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….


SANZIONI CIVILI SUI CONTRIBUTI PREVIDENZIALI DOVUTE SOLO IN CASO DI REINTEGRAZIONE DEL LAVORATORE PER NULLITA’ O INEFFICACIA DEL LICENZIAMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 11894 DEL 18 GIUGNO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 11894 del 18 giugno 2020, ha statuito, in tema di sanzioni civili per mancato versamento dei contributi previdenziali, che occorre distinguere fra reintegrazione del lavoratore disposta per nullità o inefficacia del licenziamento ovvero per annullabilità dello stesso.

La vicenda giudiziaria in esame è particolarmente interessante atteso che sovente il datore, condannato alla reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, si trova a dover comprendere, al fine di determinare correttamente il c.d. “firing cost”, la tipologia di sanzione previdenziale, omissione ovvero evasione, cui va incontro.

In particolare, gli Ermellini, richiamando la statuizione a Sezioni Unite del 18 settembre 2014 n° 19665, hanno (ri)affermato il principio di diritto in base al quale: “"in tema di reintegrazione del lavoratore per illegittimità del licenziamento, ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, anche prima delle modifiche introdotte dalla L. 28 giugno 2012, n. 92 (nella specie, inapplicabile "ratione temporis"), occorre distinguere, ai fini delle sanzioni previdenziali, tra la nullità o inefficacia del licenziamento, che è oggetto di una sentenza dichiarativa, e l'annullabilità del licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, che è oggetto di una sentenza costitutiva: nel primo caso, il datore di lavoro, oltre che ricostruire la posizione contributiva del lavoratore "ora per allora", deve pagare le sanzioni civili per omissione della L. 23 dicembre 2000, n. 388, ex art. 116, comma 8, lett. a; nel secondo caso, il datore di lavoro non è soggetto a tali sanzioni, trovando applicazione la comune disciplina della "mora debendi" nelle obbligazioni pecuniarie, fermo che, per il periodo successivo all'ordine di reintegra, sussiste l'obbligo di versare i contributi periodici, oltre al montante degli arretrati, sicché riprende vigore la disciplina ordinaria dell'omissione e dell'evasione contributiva".

Nel caso di specie, in nuce, la Suprema Corte, rilevato che il licenziamento era stato dichiarato illegittimo per difetto di giusta causa, ex art. 18 comma 4 della L. 300/70, dichiarava inammissibile il ricorso dell'INPS che richiedeva la condanna al pagamento delle sanzioni civili.

LA LEGITTIMITA' DEL LICENZIAMENTO PER G.M.O. NON RICHIEDE LA NECESSARIA INDICAZIONE DELLA INUTILIZZABILITA' ALIUNDE DEL LAVORATORE TRATTANDOSI DI ELEMENTO IMPLICITO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 16795 DEL 6 AGOSTO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 16795 del 6 agosto 2020, ha statuito, in tema di legittimità del licenziamento per g.m.o., che il datore di lavoro ha l'obbligo di comunicare per iscritto i motivi del recesso ma non è necessaria l'indicazione della impossibilità di ricollocare il dipendente in altre mansioni.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Milano, confermando la sentenza emessa dal Tribunale di Como, aveva respinto la domanda di annullamento del licenziamento intimato ad un lavoratore a seguito della perdita dell'appalto da parte della società datrice.

In particolare, il lavoratore era stato licenziato per g.m.o. da parte dell'impresa "uscente" rispetto alle esigenze tecnico-produttive; era stata altresì dimostrata l'esigenza di mantenere in azienda una figura con maggiore professionalità rispetto a quella di un impiegato addetto a mansioni di ordine.

Il lavoratore aveva proposto, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione invocando, tra l'altro, violazione e falsa applicazione della Legge n° 604 del 1966, art. 2, avendo, la Corte territoriale, trascurato la violazione dei requisiti formali della lettera di licenziamento, sprovvista della motivazione posta a supporto del licenziamento, anche in ordine al necessario assolvimento dell'obbligo di repêchage.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso, evidenziando che  il datore di lavoro ha l'obbligo di comunicare per iscritto i motivi del recesso, ma non è tenuto ad esporre specificamente tutti gli elementi di fatto e di diritto a base del provvedimento, essendo invece sufficiente che indichi la fattispecie di recesso nei suoi tratti e circostanze essenziali, così che in sede di impugnazione non possa invocare una fattispecie totalmente diversa e, a fortiori, non è certamente tenuto a fornire, in sede di esposizione dei motivi, anche la prova degli indicati motivi.

Inoltre, hanno continuato gli Ermellini, non è necessaria l'indicazione della inutilizzabilità aliunde nella motivazione del licenziamento per soppressione del posto, trattandosi di elemento implicito da provare direttamente in giudizio.

Il suddetto principio è stato confermato anche a seguito delle modifiche intervenute della Legge n° 604/1966, art.2  (novellato dalla Legge n°92/2012, art. 1, comma 37 che impone la specificazione dei motivi contestuale al licenziamento scritto) posto che la ratio della previsione legislativa sull'onere della forma era ed è sempre quella che la motivazione del licenziamento sia specifica ed essenziale e consenta al lavoratore di comprendere le effettive ragioni del recesso (che, con riguardo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, si sostanziano nella ragione inerente l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, come richiesto dalla citata Legge n°604/1966), discendendo dai principi di immutabilità della motivazione e dall'orientamento consolidato della Corte, in ordine alla delineazione dell'obbligo di repêchage quale elemento costitutivo del licenziamento, l'obbligo del datore di lavoro di dimostrare in giudizio l'impossibilità di adibire il lavoratore in altre mansioni.

LE ASSENZE INGIUSTIFICATE DEL LAVORATORE A SEGUITO DI RIPRISTINO DEL RAPPORTO DI LAVORO E RIAMMISSIONE IN SERVIZIO IN UNA SEDE DIVERSA LEGITTIMANO IL PROVVEDIMENTO ESPULSIVO DATORIALE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 13905 DEL 6 LUGLIO 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 13905 del 6 luglio 2020, ha statuito, in tema di fondatezza del licenziamento disciplinare, che le assenze ingiustificate del lavoratore a seguito di riammissione in servizio in una sede diversa, integrano la legittimità del provvedimento espulsivo.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Lecce, in accoglimento dell'appello proposto da una lavoratrice, dichiarava illegittimo il licenziamento datoriale e ordinava l'immediata reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro con condanna della società al risarcimento del danno. Osservava la Corte d'Appello che il licenziamento era stato intimato per assenza arbitraria dal posto di lavoro, in quanto la dipendente non si era presentata presso l'Ufficio di Lecce al quale era stata assegnata con precedente provvedimento di reintegra per nullità di un contratto a tempo determinato. Tale sede, diversa da quella presso cui la lavoratrice era stata assunta con contratto a tempo determinato, era stata individuata dalla società all'atto del ripristino del rapporto per mancanza di posti disponibili in quella originaria.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso eccependo la legittimità della condotta aziendale che, in ottemperanza alla sentenza che aveva disposto il ripristino del rapporto di lavoro, aveva tempestivamente comunicato alla lavoratrice il trasferimento ad altra unità produttiva giustificando le ragioni tecniche, produttive ed organizzative sottese al provvedimento.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso evidenziando che l'ottemperanza del datore di lavoro all'ordine giudiziale di riammissione in servizio, a seguito di accertamento della nullità dell'apposizione di un termine al contratto di lavoro, implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell'attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie; a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva e sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive: in mancanza delle quali è configurabile una condotta datoriale illecita.

Gli Ermellini hanno altresì puntualizzato che, ove il trasferimento risulti adottato in violazione dell'art. 2103 c.c., l'inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell'art. 1460 c.c., comma 2 (id: eccezione d'inadempimento), alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede e sia accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria, con valutazione rimessa al Giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se espressa con motivazione adeguata ed immune da vizi logico-giuridici.

I BUONI PASTO NON COSTITUISCONO EMOLUMENTI AVENTI NATURA RETRIBUTIVA E PERTANTO SONO SEMPRE REVOCABILI DAL DATORE DI LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 16135 DEL 28 LUGLIO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 16135 del 28 luglio 2020, ha statuito che i buoni pasto non hanno natura retributiva ma è un’agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale, e che, di conseguenza, la loro erogazione può essere unilateralmente e liberamente interrotta da parte del datore di lavoro.

Nel caso in specie, un lavoratore adiva la giustizia al fine di sentir dichiarare l’illegittimità della deliberazione con la quale la società datrice di lavoro aveva unilateralmente deciso di interrompere l’erogazione dei buoni pasto in favore dei propri dipendenti, ma in entrambi i giudizi di merito ne usciva soccombente, da qui il ricorso per Cassazione.

Tra i vari motivi di gravame, il lavoratore lamentava l’erronea revocabilità unilaterale dei buoni pasto, in considerazione della loro funzionalità ad un rapporto contrattuale integrativo e della “legittima aspettativa” dei lavoratori, a seguito di una reiterata e generalizzata prassi aziendale; ragion per cui tali elementi andavano considerati componente della retribuzione e, conseguentemente, soggetti al principio di irriducibilità della stessa.

Orbene, i Giudici del Palazzaccio, con la sentenza de qua, hanno respinto in toto il ricorso del lavoratore dichiarando pienamente legittima la sentenza d’Appello che aveva riconosciuto “la natura dei buoni pasto alla stregua, non già di elemento della retribuzione ‘normale’, ma di agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale (Cass. 21 luglio 2008, n. 20087; Cass. 8 agosto 2012, n. 14290; Cass. 14 luglio 2016, n. 14388), pertanto non rientranti nel trattamento retributivo in senso stretto (Cass. 19 maggio 2016, n. 10354; Cass. 18 settembre 2019, n. 23303); sicché, il regime della loro erogazione può essere variato anche per unilaterale deliberazione datoriale, in quanto previsione di un atto interno, non prodotto da un accordo sindacale”.

Infine, i Giudici delle Leggi hanno evidenziato che l’interpretazione contrapposta dal lavoratore, di erogazione dei buoni pasto “in funzione di un rapporto contrattuale”, anche sulla base di una reiterazione nel tempo tale da integrare una prassi aziendale (pure viziata da una connotazione di novità, non parlandone la sentenza impugnata, né avendone il ricorrente offerto indicazione di una sua prospettazione negli atti dei precedenti gradi), non inficia il presupposto della natura non retributiva dell’erogazione.

IN TEMA DI APPALTI, LA RESPONSABILITA’ SOLIDALE DEL COMMITTENTE RIGUARDA ANCHE I PREMI INAIL DOVUTI IN RELAZIONE AL PERIODO DI ESECUZIONE DEL CONTRATTO DI APPALTO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 18139 DEL 31 AGOSTO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 18139 del 31 agosto 2020, ha statuito che la responsabilità in solido del committente, prevista dall’art. 29 comma 2 del D.lgs 276/2003, riguarda anche i premi INAIL dovuti nel periodo di esecuzione del contratto di appalto, anche con riferimento ai periodi precedenti all’entrata in vigore del D.L. n. 5/2012.

Nel caso di specie, infatti, una società risultava vittoriosa in Corte d'Appello avverso una cartella esattoriale con la quale le veniva richiesto il pagamento di premi Inail, in quanto committente solidalmente responsabile con l'impresa subappaltatrice.

La Corte distrettuale accoglieva integralmente il ricorso ritenendo che la solidarietà si riferisse solo ai contributi previdenziali e non anche ai premi Inail, in difetto di espressa previsione in tal senso, introdotta solo con la riforma del 2012.

Avverso tale pronuncia l’INAIL proponeva ricorso in Cassazione sostenendo che, con la locuzione “contributi previdenziali” contenuta nel testo del D.lgs n. 276/2003, art. 29, ante riforma 2012, il legislatore intendesse ricomprendere sia i contributi previdenziali INPS che i premi INAIL.

Secondo i Giudici della Suprema Corte il ricorso era fondato e la tesi della Corte territoriale, secondo la quale la formulazione dell'art. 29 anteriore alla detta riforma del 2012 non si riferirebbe ai premi Inail, non era corretta in quanto non poteva ritenersi una volontà del legislatore di far venire meno la responsabilità solidale del committente per i premi Inail, non potendo ravvisarsi tra gli obiettivi della delega conferita con la L. n. 30/2003 quello di indebolire la tutela dell'Istituto assicuratore pubblico.

Il legislatore del 2003, hanno precisato i Giudici di Piazza Cavour, ha piuttosto utilizzato il termine “contributi previdenziali” in maniera atecnica, con formula ampia idonea a ricomprendere anche i premi INAIL, atteso che diversamente si creerebbe una inspiegabile lacuna di garanzia per i premi assicurativi nel periodo dal 2003 al 2012 quando, nel testo di legge, sono stati precisati con chiarezza i contorni della responsabilità solidale del committente ricomprendente anche i premi Inail ed i limiti dell’obbligazione solidale a quanto relativo al periodo di esecuzione del contratto di appalto.

In breve anche per il periodo anteriore all'entrata in vigore del D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 aprile 2012, n. 35, la responsabilità solidale del committente prevista dall'art. 29, D.lgs n. 276/2003 aveva ad oggetto anche i premi Inail dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

 

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Giusi Acampora e Michela Sequino

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Modificato: 7 Settembre 2020