6 Settembre 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CHE, MEDIANTE L’UTILIZZO IMPROPRIO DEL BADGE, ATTESTI FALSAMENTE LA PROPRIA PRESENZA AL LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 20560 DEL 19 LUGLIO 2021

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 20560/21, depositata il 19 luglio, ha statuito che attestare in maniera fraudolenta la propria presenza al lavoro costituisce comportamento di gravità tale da minare irrimediabilmente il rapporto fiduciario tra datore e prestatore di lavoro e idoneo a legittimare il licenziamento.

Nel caso in commento un dipendente del Ministero della Giustizia, inquadrato come cancelliere, impugnava il licenziamento disciplinare intimatogli per avere, insieme ad altri due colleghi, attestato falsamente la propria presenza in ufficio mediante l’irregolare utilizzo del badge. I Giudici di prime cure ritenevano eccessivo il provvedimento espulsivo ma l’adita Corte d’Appello, in totale riforma della sentenza di primo grado, ritenendo evidente che la condotta in esame, soprattutto in considerazione del ruolo rivestito e dell'artificio ideato, fosse di gravità tale da ledere irrimediabilmente il vincolo di fiducia col Ministero, rigettava l’impugnativa di licenziamento. Secondo i Giudici, infatti, il cancelliere non era stato in grado di circostanziare la sua presenza presso il Tribunale in tre delle giornate contestate e, soprattutto, l’illiceità del sistema rilevava non solo nella falsa attestazione della presenza ma anche nel caso in cui l’artificio era utilizzato per coprire ritardi o assenze intermedie per ritardati rientri dalla pausa pranzo.

Avverso tale decisione il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione lamentando in primis che la registrazione delle presenze mediante l’utilizzo del badge non consentiva la rilevazione delle ore di lavoro prestate presso altri uffici, tant’è che vi erano molte ore in più del dovuto in parte non registrate dal sistema. Affermava, inoltre, che non vi era stata “dimostrazione dei fatti” in quanto la Corte d'Appello non avrebbe potuto fondare l'accertamento della sussistenza dell'addebito sulla sentenza penale di patteggiamento, sia perché successiva al licenziamento, sia perché inidonea a fornire elementi di valutazione sulla sussistenza del fatto e sulla sua gravità.

La Suprema Corte ribatteva che la questione relativa alle ore di lavoro svolte dal cancelliere presso il Tribunale ma non rilevate a causa dell’utilizzo del badge era stata considerata ma, al contempo, si era preso atto che il lavoratore non aveva saputo indicare, per tre giorni specifici, le motivazioni della sua presenza in Tribunale. La Corte riteneva, pertanto, che fosse “accertata l’utilizzazione delle false attestazioni per i ritardi o per le assenze intermedie”. Riguardo, invece, all'utilizzo della sentenza penale di patteggiamento, i magistrati chiarivano che la circostanza che la sentenza penale fosse successiva all'irrogazione della sanzione disciplinare del licenziamento era ininfluente, non essendovi ragione alcuna perché l'efficacia di giudicato possa subire variazioni a seconda del momento in cui la sentenza sia stata pronunciata, e ciò tanto più a fronte di un principio generale secondo cui “il principio dell'immutabilità della contestazione attiene ai fatti posti a fondamento del licenziamento disciplinare, non anche ai mezzi di prova dei quali il datore di lavoro si avvalga per dimostrare giudizialmente la fondatezza dell'addebito, per questo motivo il datore era legittimato a chiedere in giudizio l'acquisizione di prove non emerse nel procedimento disciplinare e ad avvalersi del giudicato penale di condanna, anche se successivo all’impugnazione della sanzione, al fine di dimostrare la sussistenza del fatto ascritto.

Per quanto riguarda, infine, la proporzionalità del licenziamento, gli Ermellini ritenevano corretta la valutazione compiuta in Appello centrata sulla gravità dell'infrazione, consistente nella creazione di un artificio utile ad eludere i controlli della pubblica amministrazione sul rispetto degli orari, commessa, per di più, da un dipendente che rivestiva un ruolo di responsabilità.

La Corte, pertanto, respingeva il ricorso e dichiarava legittimo il licenziamento.

Inevitabile, pertanto, la rottura del vincolo fiduciario tra il lavoratore e il Ministero ed il conseguente licenziamento.

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CHE RIFIUTI L’INVITO DEL DATORE DI LAVORO A PRESENTARSI PRESSO LA SEDE DI LAVORO AL TERMINE DEL PERIODO DI MALATTIA.

 

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 22819 DEL 12 AGOSTO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 22819 del 12 agosto 2021, ha dichiarato legittimo il licenziamento del lavoratore che, al termine di un lungo periodo di malattia, rifiuti di ripresentarsi in azienda senza essere preventivamente sottoposto ad una visita medica.

Nel caso de quo una lavoratrice adiva il Tribunale per impugnare il licenziamento intimatole dal datore di lavoro per giustificato motivo soggettivo, a causa dell'assenza ingiustificata dal lavoro protrattasi per dieci giorni, al termine di un periodo di malattia di durata superiore a sessanta giorni regolarmente certificato. La dipendente giustificava la protratta assenza con l’omissione da parte del datore di lavoro della predisposizione della visita medica prevista dall'art. 41, comma 2, lett. e-ter) del D.Lgs. n. 81/2008, prima della ripresa dell’attività lavorativa.

Il ricorso veniva rigettato sia in primo che in secondo grado di giudizio. La Corte Distrettuale aveva infatti rilevato che la visita medica rappresenta un controllo legalmente previsto, ma non si configurava come condicio iuris della ripresa dell'attività lavorativa, pertanto, il rifiuto a ripresentarsi in azienda a seguito di formale invito del datore di lavoro rappresentava un’assenza non giustificata, rispetto alla quale risultava proporzionata l’applicazione della sanzione espulsiva. La lavoratrice ricorreva in Cassazione.

La Suprema Corte, confermando il disposto dei Giudici di merito, afferma che il D.Lgs. n. 81/2008 prevede all’art. 41 l’obbligo per il datore di lavoro di effettuare una visita medica di controllo precedentemente alla ripresa dell’attività lavorativa, in seguito all’assenza per motivi di salute di durata superiore a sessanta giorni continuativi, con il fine di verificare l’idoneità del lavoratore alla mansione, evitando che la stessa possa arrecare pregiudizio o rischio per la sua integrità psicofisica. In mancanza della suddetta visita il lavoratore può astenersi dall’eseguire la propria mansione ex art. 1460 c.c.. Tuttavia, a parere dei Giudici di legittimità, è necessario distinguere la ripresa delle proprie mansioni dall’obbligo di ripresentarsi in azienda nel momento in cui non vi sia più uno stato di malattia certificato. Ciò in quanto si tratterebbe di due momenti non necessariamente coincidenti, giacché il datore di lavoro potrebbe, nell'esercizio dei suoi poteri, disporre l’assegnazione a mansioni provvisorie del dipendente all'interno dell’impresa. Pertanto, il rifiuto della lavoratrice di recarsi in azienda non può essere considerato eccezione di inadempimento, rappresentando piuttosto una vera e propria violazione dei doveri contrattuali, passibile di sanzione secondo la disciplina del contratto collettivo.

 

PER LA CASSAZIONE, L’INVIO DI UN PLICO ED IL SUO RICEVIMENTO, NON POSSONO ESSERE LEGITTIMAMENTE ATTESTATI ALLEGANDO UNA INTERROGAZIONE POSTALE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 23177 DEL 20 AGOSTO 2021

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.23177 del 20 agosto 2021, ha statuito che nel giudizio tributario sia l'invio di un plico che il suo ricevimento, non possono essere legittimamente attestati allegando una interrogazione postale che rimane un atto privo di valenza probatoria.

Ergo il timbro postale a datario apposto sulla ricevuta dell'elenco delle raccomandate spedite, costituisce, infatti, l'unico sistema legittimo di dimostrazione dell'invio de quo.

Il caso di specie riguarda l'impugnazione di una cartella di pagamento di cui si contestava la regolarità della notifica dell'appello che il contribuente riteneva tardivo, in quanto il timbro postale apposto non era ben leggibile, producendo un’interrogazione postale da cui risultava una data differente da quella desumibile dallo stesso timbro postale.

I Giudici di piazza Cavour, con l’ordinanza de qua, ribaltando la decisione dei Giudici di Merito Toscani, hanno evidenziato che il documento su cui è apposto il timbro postale a datario, è l'unico atto del caso avente natura pubblica fidefaciente, e che in ogni caso è esclusa la possibilità di ricorrere a documenti equipollenti, quali, ad esempio, registri o archivi informatici dell'amministrazione finanziaria o attestazioni dell'ufficio postale.

Inoltre, gli stessi Ermellini, avevano già ribadito con precedente pronuncia (id: Cassazione n.15988/2021) che, la corretta notifica di un atto deve essere provata non oltre l'udienza di discussione, con la produzione dell'avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso.

In nuce, per la S.C., la notifica non può essere surrogata dal deposito della stampa di una pagina del servizio on line dell'Amministrazione Postale, ancorché la quale attesti l'avvenuta consegna o il ricevimento della raccomandata, poiché solo ed unicamente il timbro postale fa fede ai fini della regolarità della notificazione.

 

IL CONTROLLO AUTOMATIZZATO EX ART.36bis DPR 600/1973 ED EX ART. 54bis DPR 633/1972 NON TIENE CONTO DEI RIPORTI DEGLI ANNI PRECEDENTI SE LE CORRISPONDENTI DICHIARAZIONI SONO STATE OMESSE, MA RESTA PER IL CONTRIBUENTE SEMPRE VALIDA LA PROVA CONTRARIA CON LA PRESENTAZIONE DELL’OPPORTUNA DOCUMENTAZIONE.

 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA 23382 DEL 24 AGOSTO 2021

La Corte di Cassazione ha ribadito che il controllo sostanziale della documentazione a base della dichiarazione dei redditi può superare il limite formale dell’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi.

Nel caso in specie, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio aveva dato ragione ad una società che aveva proposto doglianza circa il mancato riporto, nella dichiarazione dei redditi per l’anno d’imposta 2003, della perdita dell’anno 2002 perché la corrispondente dichiarazione non era stata presentata nei termini. Il controllo automatizzato operato sull’anno 2003 aveva quindi escluso il riporto ed aveva evidenziato un maggior debito d’imposta. La Commissione Tributaria Provinciale aveva rigettato il primo ricorso della società, che aveva invece trovato accoglimento nel secondo grado di giudizio.

La Corte di Cassazione accoglie invece il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, e conferma le risultanze del controllo automatizzato in parola. Difatti la Corte analizza la funzione dei controlli automatizzati ex art. 36bis DPR 600/73 e ex art. 54bis DPR 633/72, che trovano la loro ragione nel controllo puramente formale della dichiarazione, per evitare errori di calcolo o di riporti, e riferendosi sempre a quanto già dichiarato dal contribuente, facendo però un importante rilievo: osservano infatti gli Ermellini che, sebbene il controllo automatizzato abbia, nel caso in esame, correttamente escluso il riporto della perdita degli anni precedenti, non essendo state tempestivamente presentate le corrispondenti dichiarazioni, tale mancanza avrebbe potuto essere sanata mediante la presentazione di idonea documentazione tesa a dimostrare l’effettiva esistenza del credito non dichiarato. Infatti tali circostanze non sono desumibili soltanto dal riscontro di una dichiarazione, che assume sempre il valore di dichiarazione di parte, tanto più se tale adempimento risulta omesso.

Ricorda infatti la Suprema Corte che il controllo automatizzato non fa altro che analizzare e incrociare i dati che i contribuenti stessi, mediante le dichiarazioni, forniscono all’Amministrazione Finanziaria, e che in caso di omissione di dichiarazione, costituisce preciso onere del contribuente fornire le informazioni necessarie per dimostrare il diritto vantato dal contribuente: “…conseguentemente, se la violazione formale è emendabile, sul piano del rapporto impositivo, … è sul contribuente medesimo che, comunque, ricade l’onere di provare, a fronte delle contestazioni dell’Ufficio, l’esistenza delle condizioni sostanziali cui la normativa ricollega il diritto medesimo”. 

In conclusione, la ragione dell’accoglimento del ricorso dell’Agenzia delle Entrate è da ricercare non tanto nell’omessa presentazione della dichiarazione precedente, sempre emendabile, quanto nel non aver adeguatamente dimostrato la perdita d’esercizio.

 

 

RISPONDE A TITOLO DI CONCORSO NEL REATO DI DICHIARAZIONE FRAUDOLENTA L'EX AMMINISTRATORE CHE CONTABILIZZA FALSE FATTURE ANCHE SE LA CONSEGUENTE DICHIARAZIONE DEI REDDITI E' SOTTOSCRITTA DAL NUOVO RAPPRESENTANTE LEGALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZ. PENALE – SENTENZA N. 32237 DEL 26 AGOSTO 2021.

La Corte di Cassazione – sentenza n°32237 del 26 agosto 2021 – ha confermato, in tema di concorso nel reato di dichiarazione fraudolenta, che la fattispecie si concretizza anche mercé la mera predisposizione del meccanismo fraudolento (mediante contabilizzazione di fatture false) ad opera dell'amministratore, ancorché cessato dalla carica all'epoca della conseguente trasmissione telematica dei modelli dichiarativi.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Milano, uniformandosi al giudizio del Tribunale della stessa città, aveva condannato (ratione temporis) alla pena di anni uno e mesi dieci di reclusione, in relazione al reato di cui all'art. 2, D.Lgs. 10 marzo 2000, n°74 (id: Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), l'ex amministratore di una società a titolo di concorso nel suddetto reato.

Sul punto si ricorda che l’istituto del concorso di persone è possibile nelle singole fattispecie di cui agli artt. 2 e 8 del D.Lgs.10 marzo 2000, n°74, laddove i soggetti coinvolti siano più di uno: cioè siano più i soggetti ad aver concorso nell’emissione di fatture oppure nell’attività di utilizzo. In particolare, al fine di evadere le imposte sui redditi e l'Iva, erano state indicate nelle relative dichiarazioni annuali per l'anno di imposta 2010 elementi passivi fittizi, contabilizzando fatture inesistenti per un importo superiore ad € 700 mila.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'ex amministratore ribadendo che, invero, la società, all'epoca dell'invio dei modelli dichiarativi, era già stata posta in liquidazione con conseguente cessazione della propria qualifica di amministratore, essendo subentrato, con relativo potere di rappresentanza, il liquidatore all'uopo nominato, al quale (singolarmente) doveva essere attribuita la violazione, essendo irrilevante che le false fatture fossero state contabilizzate precedentemente.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso pur confermando che la responsabilità per i reati previsti dal D.lgs. n°74/2000 è attribuita all'amministratore, individuato secondo le norme civilistiche di cui agli artt. 2380 e ss., artt. 2455 e 2475 c.c., cioè a coloro che rappresentano e gestiscono l'ente. Costoro, in quanto tali, sono tenuti a presentare e sottoscrivere le dichiarazioni rilevanti per l'ordinamento tributario di cui al D.lgs. citato, ex art. 1, lett. c) ed e), adempiendo agli obblighi conseguenti e ciò, sulla base del principio secondo cui colui che assume la carica di amministratore, si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze.  Quanto al momento consumativo del reato, hanno continuato gli Ermellini, i delitti di dichiarazione fraudolenta si consumano nel momento della presentazione della dichiarazione fiscale nella quale sono inseriti gli elementi fittizi, essendo penalmente irrilevanti tutti i comportamenti prodromici tenuti dall'agente (id: contabilizzazione e registrazione). A tale data deve essere pertanto individuato il soggetto autore del reato.

Non di meno, hanno concluso gli Ermellini confermando il giudizio di merito, non si esclude che possano essere valorizzate le condotte tenute dal precedente amministratore per configurare (come nella specie) il concorso dell'estraneo nel reato proprio commesso da colui che, rivestendo successivamente la carica di amministratore della società, abbia perfezionato il reato.  

 

Ad maiora

IL PRESIDENTE

EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 6 Settembre 2021