29 Agosto 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE DI RIVALUTAZIONE T.F.R. LUGLIO 2022

Il 10 Agosto scorso l’ISTAT ha comunicato coefficiente ed indice per rivalutazione TFR Luglio 2022 (id: licenziamenti dal 15 luglio al 14 agosto 2022) determinandoli in 5,182910 e 112,3.

LE DIVERSE MODALITA’ ATTRAVERSO CUI SI PERFEZIONA IL REATO DI SFRUTTAMENTO DEL LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 24388 DEL 10 MARZO 2022

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 24388 del 10 marzo 2022, ha declinato il perimetro del reato di sfruttamento del lavoro che, giusta previsione dell’art. 603-bis c.p., si perfeziona non soltanto attraverso l’assunzione, ma anche con l’utilizzazione o l’impiego di manodopera, in condizioni di sfruttamento e con approfittamento dello stato di bisogno.

La controversia, che ha condotto dapprima al sequestro preventivo dell’ingiusto profitto e poi alla condanna del datore ex art 603-bis c. p., ha riguardato il caso di alcuni dipendenti che, sin dall’assunzione, sarebbero stati costretti a lavorare per un numero di ore superiore a quello previsto dalla contrattazione collettiva anche a seguito di modifica unilaterale del contratto, con passaggio da tempo pieno a tempo parziale; invero, benché i dipendenti figurassero formalmente come lavoratori part-time e fossero retribuiti come tali, di fatto avrebbero prestato servizio per un numero di ore corrispondenti al contratto a tempo pieno, raggiungendo le 48 ore settimanali in alta stagione, senza usufruire, peraltro, delle ferie, della riduzione dell’orario di lavoro e dei giorni di assenza e permesso spettanti.

Secondo la difesa, l’illecito in commento sarebbe stato ingiustamente ascritto al rappresentante legale e all’amministratore di fatto della società, atteso che tutti i rapporti di lavoro presi in esame sarebbero sorti in epoca antecedente al 2016, anno in cui il novero dei soggetti attivi per il reato di sfruttamento – che in precedenza contemplava esclusivamente l’intermediario – si sarebbe esteso anche al datore di lavoro.

La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha rilevato, preliminarmente, come la fattispecie dello sfruttamento del lavoro introdotta nel 2016 rappresenti un reato nuovo e differente da quello di intermediazione illecita, ragion per cui non è corretto parlare di estensione di responsabilità al datore di lavoro per l’illecito reclutamento di manodopera. Inoltre, lo sfruttamento del lavoro deve considerarsi come reato istantaneo con effetti permanenti il cui perfezionamento si realizza non soltanto attraverso l’assunzione, ma anche con l’utilizzo o l’impiego di manodopera in condizione di sfruttamento e con approfittamento dello stato di bisogno. Ciò significa che la lesione del bene giuridico tutelato non si consuma esclusivamente all’atto di assunzione, ma permane finché perdura la condizione di sfruttamento e approfittamento.

In ordine al requisito dell’approfittamento dello stato di bisogno è emerso che le dipendenti si siano viste costrette ad accettare le condizioni imposte per mantenere un’occupazione, in mancanza di reali alternative nel contesto in cui è maturata la vicenda. Con riguardo, invece, alla definizione dello stato di bisogno, i Giudici di legittimità hanno chiarito che questo non corrisponde esattamente ad uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta; trattasi, piuttosto, “di uno stato di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose.”


ESENTE DA RESPONSABILITÀ IL DATORE DI LAVORO CHE ABBIA CORRETTAMENTE EFFETTUATO LA VALUTAZIONE DEI RISCHI

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21064 DEL 31 MAGGIO 2022

La Corte di Cassazione, sentenza n. 21064 del 31 maggio 2022, ha statuito che non vi è responsabilità del datore di lavoro per infortunio mortale del dipendente, qualora il primo abbia correttamente provveduto alla compilazione del DVR, ponendo in essere le misure a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Nel caso in oggetto, a seguito di decesso del lavoratore per malore insorto durante il suo turno di lavoro, la Corte d’Appello, confermando la sentenza del Tribunale, aveva assolto i legali rappresentanti della società datrice di lavoro per l’assenza di profili di colpa generica o specifica ascrivibili agli stessi.

Le due sentenze di assoluzione, integrandosi a vicenda, avevano infatti evidenziato che le previsioni contenute nel documento di valutazione dei rischi adottato dalla società fossero congrue rispetto alle mansioni svolte dai lavoratori, essendo indicate adeguate misure di miglioramento delle condizioni ambientali di rischio, nonché i limiti di esposizione a fattori sfavorevoli rispetto al lavoro da svolgere, con particolare riguardo a quelli micro e macroclimatici, trattandosi di lavoro nel settore agricolo.

Avverso la sentenza di secondo grado, le parti civili hanno proposto ricorso in Cassazione.

La Suprema Corte, giudicando infondato il ricorso, afferma che il datore di lavoro è esente da responsabilità quando le previsioni del documento di valutazione dei rischi siano congrue rispetto alle mansioni svolte dai lavoratori, contenendo precise indicazioni in merito alle misure di miglioramento delle condizioni ambientali di rischio, non solo limitando i tempi di esposizione a fattori sfavorevoli, ma anche dotando il personale dipendente di indumenti appropriati, nonché di locali utili per il ristoro fisico.

Inoltre, non è evidenziabile una responsabilità del datore di lavoro quando le mansioni affidate al lavoratore rientrino nel cosiddetto rischio accettabile, non richiedendo alcun specifico intervento del datore di lavoro, né dal punto di vista procedurale, con riferimento alla formazione ed alla sorveglianza sanitaria, né dal punto di vista organizzativo.


IL TRASFERIMENTO DEL SINDACALISTA INDAGATO E’ ILLEGITTIMO SE MANCA IL NULLA OSTA DELLA R.S.U.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 20827/2022 DEL 30 GIUGNO 2022

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 20827 del 30 giugno 2022, ha ritenuto illegittimo il trasferimento di un dipendente di un’agenzia fiscale, dirigente sindacale, in assenza del nulla osta previsto dalla L. 300/1970.

Nel caso in trattazione, infatti, nei confronti di un lavoratore, dirigente sindacale, era stato disposto il trasferimento presso un’altra sede senza l’osservanza delle disposizioni previste dall’ art. 22 L. 300/1970 che stabilisce che il trasferimento dei dirigenti sindacali in altra sede diversa da quella di assegnazione può essere disposto solo previo nulla osta associazioni sindacali di appartenenza. Sia in primo grado che in appello i Giudici respingevano la tesi sostenuta dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli secondo la quale l'onere di richiedere il nulla osta per il trasferimento decadrebbe nel caso in cui il trasferimento stesso sia originato da fatti che abbiano determinato in capo all'interessato l'avvio di un procedimento penale, come nel caso in esame.   La Corte d’Appello, in particolare, rimarcava che il trasferimento in altra sede avrebbe dovuto essere disposto in osservanza delle prescrizioni di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 22, applicabile anche al settore pubblico, e dall'art. 18, comma 4, del CCNQ del 7.8.1998 secondo cui lo stesso può essere disposto solo previo nulla osta delle rispettive organizzazioni sindacali di appartenenza e della R.S.U. ove il dirigente ne sia componente. Secondo i Giudici, dunque, le ragioni di incompatibilità ambientale del lavoratore, per effetto del procedimento penale cui era sottoposto, addotte dall’Agenzia datrice di lavoro non potevano condizionare l'applicazione della disciplina dettata a salvaguardia del prioritario interesse all'espletamento dell'attività sindacale.

Avverso tale sentenza l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli proponeva ricorso in Cassazione lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 22 dello Statuto dei Lavoratori e dell’art. 2103 c.c.. Il Collegio rigettava il ricorso adducendo primariamente la formulazione della censura, valutata vaga e priva di elementi sufficienti per poter accogliere la doglianza. La Corte Suprema, inoltre, evidenziava il fatto che la ricorrente non avesse proprio colto la ratio decidendi della norma che richiede il rilascio del nulla osta per il trasferimento: in mancanza del previsto nulla osta, infatti, non rileva la valutazione dell’esistenza di situazioni di incompatibilità ambientale atte a sorreggere il trasferimento che, se disposto nei confronti di dirigente sindacale senza l’osservanza delle formalità prescritte, resta ugualmente viziato da una presunzione di anti-sindacalità. Né poteva condividersi l’assunto, sostenuto dall’Agenzia, che escluderebbe l’onere di richiedere il previo nulla osta per i trasferimenti occasionati da ragioni di incompatibilità ambientale, ove legate a indagini penali nei confronti del dipendente interessato in quanto ciò avrebbe dato luogo ad un immotivato restringimento della portata applicativa dell’art. 22 contrastante con la ratio della disposizione "diretta ad evitare pregiudizi all'attività sindacale nel luogo di lavoro in cui è chiamato ad operare il componente della R.S.U. interessato al trasferimento" (Cass. 29.12.2011, n. 29633).


L’EMISSIONE DI UN PROVVEDIMENTO MODIFICATIVO DEL QUANTUM DEBEATUR IN CORSO DI GIUDIZIO NON COSTITUISCE ATTO NUOVO E NON COMPORTA LA CESSAZIONE DELLA MATERIA DEL CONTENDERE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA 21654 del 07/07/2022

La Corte di Cassazione stabilisce che se in corso di giudizio l’Amministrazione Finanziaria emette un atto modificativo degli importi accertati in capo al contribuente, senza modificare le motivazioni, tale atto non è da considerarsi nuovo atto, ma revoca parziale di quello originario.

Nel caso affrontato dalla Corte di Cassazione, un contribuente si era visto notificare un atto accertativo di presunti maggiori redditi di capitali, per utili extra bilancio accertati in capo alla società di cui deteneva le quote, a seguito del quale aveva proposto ricorso in Commissione Tributaria Provinciale.

Nel corso dello svolgimento del processo tributario, il contribuente aveva prodotto atti idonei a dimostrare la carenza di motivazione dell’atto in relazione ad una parte significativa dell’accertamento (nel caso di specie una cessione di quote di partecipazione), ragion per cui l’Amministrazione Finanziaria aveva provveduto, in corso di giudizio, ad annullare l’atto originario, ed a emettere nuovo atto accertativo, con minore pretesa erariale.

A seguito delle modificazioni degli atti come descritti, la Commissione Tributaria Provinciale si pronunciò determinando l’entità del reddito accertato e delle relative imposte e sanzioni nell’importo portato dal secondo avviso.

Il contribuente propose appello innanzi la Commissione Tributaria Regionale, che concluse favorevolmente al contribuente, rilevando che “l’annullamento dell’avviso di accertamento (omissis) in via di autotutela da parte dell’ufficio Entrate di (omissis) costituisce cessazione della materia del contendere. Va pertanto dichiarata l’estinzione del giudizio”.

L’Agenzia delle Entrate propose quindi ricorso per la cassazione della sentenza: la Corte di Cassazione accoglie le doglianze dell’Amministrazione Finanziaria, giacché “in tema di accertamento delle imposte, la modifica in diminuzione dell'originario avviso non esprime una nuova pretesa tributaria, ma una riduzione di quella originaria, sicché non costituisce atto nuovo, ma revoca parziale di quello precedente (Cass. n. 7293/2020; Cass. n. 27543/2018); tale evenienza, pertanto, in sede processuale non può comportare la cessazione della materia del contendere, in quanto permane l'interesse della pubblica amministrazione a veder riconosciuto il proprio credito tributario e quello del contribuente a negare la pretesa, con la conseguenza che l'autorità giudiziaria è tenuta a pronunciarsi sulla fondatezza della residua pretesa erariale (Cass. n. 18625/2020)

Concludono, quindi, per la cassazione della sentenza della CTR delle Marche, giacché appare errato il convincimento dei Giudici d’Appello nel ritenere che la revoca parziale del primo atto impositivo abbia determinato la cessazione della materia del contendere, e rinviando la decisione innanzi la CTR in diversa composizione, che tenga conto del principio di diritto qui ricordato.

 

L'ACCERTAMENTO DEL MAGGIOR REDDITO NEI CONFRONTI DI SOCIETA' DI CAPITALI A RISTRETTA BASE PARTECIPATIVA LEGITTIMA, ANCHE NELL'IPOTESI DI ACCERTAMENTO CON ADESIONE, LA PRESUNZIONE DI DISTRIBUZIONE DEGLI UTILI TRA I SOCI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N.21487 DEL 7 LUGLIO 2022.

La Corte di Cassazione – ordinanza n°21487 del 7 luglio 2022 – ha confermato la legittimità dell'imputazione ai soci del maggior reddito accertato in capo alla società di capitali a ristretta base partecipativa, ancorché determinato in sede di adesione.

Nel caso de quo, in conseguenza del disconoscimento di costi per operazioni inesistenti, l'Agenzia delle Entrate accertava a carico di una SPA un maggior reddito d'impresa, definito nella sua entità a mezzo di procedimento di adesione con la contribuente. Successivamente, l'Amministrazione finanziaria determinava, per la medesima annualità d'imposta, un maggior reddito di capitale imponibile a fini IRPEF in capo al socio, quale titolare di quote di partecipazioni pari all'87,5% nella società a ristretta base azionaria, considerando il reddito della società presuntivamente distribuito pro quota al socio quale utile extracontabile.

L'impugnativa giurisdizionale del socio, avverso il relativo avviso di accertamento, veniva rigettata in ambedue i gradi di merito; dal ché, conseguiva il ricorso per la cassazione della sentenza.

In particolare, ad avviso del contribuente, la definizione, con atto di adesione, dei p.v.c. da parte della società non costituiva riconoscimento o accertamento della pretesa dell'Amministrazione finanziaria e, dunque, non offriva prova della esistenza di maggiori utili presuntivamente distribuiti ai soci ed inoltre, dall'importo presuntivamente distribuito, dovevano essere almeno dedotte le maggiori imposte dovute dalla società in virtù dell'accertamento definito in adesione.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato  il ricorso, evidenziando l'ormai consolidato orientamento della Corte in base al quale,  l'accertamento del maggior reddito nei confronti di società di capitali a ristretta base partecipativa legittima, anche nell'ipotesi di accertamento con adesione, la presunzione di distribuzione degli utili tra i soci, in quanto la stessa ha origine nella partecipazione e, pertanto, prescinde dalle modalità di accertamento, ferma restando la possibilità per i soci di fornire prova contraria rispetto alla pretesa dell'Amministrazione finanziaria dimostrando che i maggiori ricavi dell'ente sono stati accantonati o reinvestiti. Pertanto, l'imputazione ai soci del reddito della società ha origine dalla partecipazione e, quindi, prescinde dall'eventuale natura adesiva dell'accertamento nei confronti dell'ente.

Da ultimo, in ordine alla doglianza relativa al recupero a tassazione in capo al socio degli importi indicati al lordo delle imposte versate a seguito della definizione dei p.v.c., ovvero di una eventuale ricchezza mai conseguita dal socio, gli Ermellini hanno specificato che trattandosi di ricavi  conseguiti "in nero" e non essendo mai pervenuti nella contabilità societaria, non vi era alcun obbligo di mitigare una doppia imposizione (inesistente), non avendoli la società mai dichiarati.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 29 Agosto 2022