13 Settembre 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

 

Oggi parliamo di………….

 

 

 

AI FINI DELL’ACCERTAMENTO DELLA SUBORDINAZIONE, NELL’AMBITO DI PIÙ CONTRATTI INTERVALLATI NEL TEMPO, NON RILEVA L’ATTIVITÀ MEDIO TEMPORE PRESTATA

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 20099 DEL 14 LUGLIO 2021

 

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 20099/2021, depositata il 14 luglio, ha statuito che, in ambito giornalistico, ai fini della individuazione del rapporto di lavoro subordinato, rilevano l’ampiezza di prestazioni e l’intensità della collaborazione, che devono essere tali da comportare l’inserimento stabile del lavoratore nell’organizzazione aziendale.

Nel caso in esame una giornalista professionista agiva nei confronti della Rai Radiotelevisione Italiana per il riconoscimento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato affermando che, sebbene avesse sottoscritto dei contratti di collaborazione libero professionale, in realtà svolgeva lavoro subordinato, dovendo ella rispettare le scadenze imposte e le direttive impartitele dal datore. I Giudici di primo grado, ritenendo non provata la subordinazione, rigettavano la domanda.

La Corte d'Appello di Roma, in riforma della pronuncia del Tribunale, accoglieva parzialmente il ricorso della lavoratrice. I Giudici di secondo grado, infatti, considerando che l’inserimento  continuativo ed organico della prestazione nell'organizzazione dell'impresa fosse determinante per la qualificazione del rapporto come subordinato, ritenevano che nel corso dell'istruttoria fosse stata dimostrata l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, part time verticale nella misura del 50%, e con attribuzione della qualifica di redattore ordinario, atteso che la collaborazione prestata era consistita in interviste, nella cura di rubriche e di speciali e nella raccolta di dati ed informazioni per realizzazione di servizi giornalistici.

Avverso tale pronuncia la Rai ricorreva in Cassazione lamentando che i Giudici d’Appello, mancando di prendere in considerazione le collaborazioni intrattenute dalla giornalista negli intervalli tra un contratto ed un altro, avevano trascurato fatti decisivi ai fini dell'accertamento della insussistenza del vincolo di subordinazione nel rapporto in esame. La Suprema Corte, ribadendo che la subordinazione si caratterizza per l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro, affermava che essa non poteva escludersi per il sol fatto che il lavoratore godesse di una certa libertà e non fosse obbligato al rispetto di un orario di lavoro. Al contrario risultava, invece, determinante la circostanza tale per cui la giornalista fosse sempre a disposizione dell’editore, pronta ad eseguire le sue direttive ed istruzioni. In sostanza, richiamando principi già affermati con riferimento al lavoro giornalistico (cfr. ex multis Cass. n. 8068/2009), statuiva che ai fini della individuazione del rapporto di lavoro subordinato rilevano “l'ampiezza di prestazioni e l'intensità della collaborazione”, che devono essere tali da comportare l’inserimento stabile del lavoratore nell’organizzazione aziendale. Tale verifica, nel caso di più contratti di collaborazione intervallati nel tempo, deve essere effettuata sull’arco temporale di effettivo svolgimento del rapporto nel periodo indicato dal contratto, “restando irrilevante l’attività medio tempore prestata”.

La Suprema Corte riteneva, inoltre, che i Giudici d’Appello avessero correttamente preso in esame i diversi archi temporali verificando che la lavoratrice, dovendo rispettare le scadenze funzionali alla prestazione e le direttive del caporedattore, fosse inserita nell’organizzazione aziendale. 

In conclusione la Cassazione rigettava il ricorso confermando la decisione della Corte d’Appello.

 

IL CHIAMATO ALL’EREDITA’ CHE AD ESSA RINUNCI NON PUO’ ESSERE GIAMMAI CONSIDERATO SOGGETTO PASSIVO DELL’OBBLIGAZIONE TRIBUTARIA INERENTE I DEBITI DEL DE CUIUS.

 

CORTE DI CASSAZIONE – V SEZIONE – ORDINANZA N. 21006 DEL 22 LUGLIO 2021

 

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.21006 del 22 luglio 2021, ha statuito che non ci può essere nessun obbligo fiscale per il contribuente che ha rinunciato all'eredità, neanche se risulta fra gli eredi successibili ex lege ovvero abbia presentato la dichiarazione di successione, infatti tale ultimo adempimento è di natura prettamente tributaria e non costituisce, in alcun modo, accettazione dell'eredità.

Nel caso di specie , i Giudici di piazza Cavour, hanno respinto in toto le doglianze dell'Agenzia delle Entrate, secondo la quale, la rinuncia all'eredità poteva essergli opposta ai fini fiscali perché non era ancora decorso il termine di prescrizione di 10 anni previsto per la revoca della rinuncia stessa, e pertanto, sulla base di tale presupposto l’Amministrazione Finanziaria aveva notificato al cittadino contribuente un avviso di accertamento per il recupero di IRES, IRAP e IVA riferito alla società di proprietà del de cuius.

Nei confronti di tale atto il destinatario dell’avviso di accertamento aveva proposto ricorso, rigettato dalla CTP e successivamente accolto dalla CTR che, riformando la decisione di primo grado aveva evidenziato l'intervenuta rinuncia all'eredità dell'appellante, non preclusa dalla presentazione della dichiarazione di successione, da cui ne conseguiva l'impossibilità di considerare lo stesso come erede del titolare dell'attività oggetto di accertamento dall'Ufficio delle Entrate.

Con l’ordinanza de qua, gli Ermellini, sulla scorta della sentenza n.15871 del 2020 della stessa Suprema Corte, hanno ribadito il principio secondo cui “Il chiamato all'eredità, che abbia ad essa validamente rinunciato, non risponde dei debiti tributari del de cuius, neppure per il periodo intercorrente tra l'apertura della successione e la rinuncia, neanche se risulti tra i successibili ex lege o abbia presentato la dichiarazione di successione, che non costituisce accettazione, in quanto, avendo la rinuncia effetto retroattivo ex art. 521 c.c., egli è considerato come mai chiamato alla successione e non deve più essere annoverato tra i successibili.

Per i Giudici del Palazzaccio, il chiamato all'eredità, che non abbia accettato e che vi rinunci, non può essere considerato in alcun modo titolare della soggettività passiva rispetto ai debiti del de cuius, neanche in ambito tributario. Infatti, non è affatto casuale che l’art. 65 c. 1 del D.P.R. n. 600 del 1973, individui proprio gli eredi del contribuente quali i soggetti tenuti in solido al pagamento delle imposte gravanti sullo stesso de cuius,  e pertanto, l’Amministrazione Finanziaria alla stregua di qualsiasi altro creditore, ben può utilizzare gli strumenti offerti dal c.c. a tutela della relativa posizione, come ad esempio l'impugnazione della rinuncia (id: art. 524 c.c.), ovvero la richiesta di nomina di un curatore dell'eredità giacente (id: art. 528 c.c.), al quale validamente notificare l'avviso di accertamento, onde evitare di incorrere nella relativa decadenza per intempestività, pericolo palesato dall'Agenzia delle Entrate a sostegno della correttezza della propria tesi, ma all'evidenza totalmente insussistente.

In nuce, per la S.C., il chiamato all'eredità che rinunci alla stessa, non può essere in alcun modo tenuto a rispondere dei debiti del cuius. Ciò, nondimeno, la presentazione della dichiarazione di successione può essere considerata quale manifestazione della volontà di accettare l'eredità o di voler revocare la rinuncia alla stessa.

 

 

LA MERA PRESENZA NOTTURNA SE SI TRADUCE IN UN IMPEGNO CONCRETO E COSTANTE VA RETRIBUITA ANCHE ALLE BADANTI CONVIVENTI.

 

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 21792 DEL 29 LUGLIO 2021

 

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 21792 del 29 luglio 2021, ha statuito che anche la presenza notturna per le badanti convivente va retribuita laddove venga accertato che si è trattato di un impegno concreto e costante.

Parte ricorrente proponeva ricorso avvero il doppio grado di merito conforme con il quale erano state riconosciute, ad una badante convivente, delle differenze retributive a titolo di “assistenza notturna” (voce nella quale deve ricomprendersi la mera presenza) di una persona affetta da demenza senile, sulla base di quanto previsto dall’art. 12 del contratto collettivo.

La Cassazione veniva adita in quanto, secondo la prospettazione ricorrente, il compenso per le prestazioni di mera attesa, di cui al richiamato riferimento contrattuale, era previsto esclusivamente per i non conviventi e che, in ogni caso, le prestazioni di mera presenza non impediscono il recupero delle energie psico-fisiche, trattandosi -semmai- di una situazione riconducibile all’istituto della reperibilità, donde la “mera attesa” sarebbe una condizione insita in quella di “convivenza”, in quanto tale non soggetta a specifica retribuzione. Ebbene, i Giudici di Piazza Cavour, sulla base di quanto emerso nei gradi di merito, hanno stabilito che qualora l’impegno notturno sia non solo eventuale (ergo mera presenza) ma concreto e costante la badante ha diritto alla relativa indennità.

Pertanto, soltanto “l’intervento inatteso, insolito e inconsueto” una tantum determinato da un’occasione improbabile e remota può rientrare nel contratto di badante convivente e, in quanto tale, non essere soggetto a retribuzione.

 

PER LA VALUTAZIONE DEL PRINCIPIO DI IMMEDIATEZZA OCCORRE VERIFICARE IL LASSO DI TEMPO INTERCORRENTE DALLA EFFETTIVA CONOSCENZA DELLA MANCANZA COMMESSA ALLA FORMALIZZAZIONE DELLA CONTESTAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZ. PENALE – SENTENZA N. 23332 DEL 24 AGOSTO 2021.

La Corte di Cassazione – sentenza n°23332 del 24 agosto 2021 – ha (ri)confermato, in tema di contestazione disciplinare, che il principio dell'immediatezza della contestazione dell'addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Napoli, condividendo l'iter argomentativo del primo Giudice, aveva ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare comminato alla direttrice amministrativa di un'azienda sanitaria, reputando  giustificata e proporzionata la sanzione estrema irrogata, alla luce delle gravi inadempienze, consistenti sostanzialmente, nel ripetuto ed abituale artificioso aumento delle somme riportate sui cedolini paga, con conseguente arbitrario accrescimento della retribuzione spettante ed escludendo, altresì, la configurabilità di un licenziamento ritorsivo, nonché la allegata tardività della contestazione.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la dipendente dolendosi, tra l'altro, della mancata applicazione, alla fattispecie occorsa, del termine di trenta giorni imposto dal Ccnl applicato per l'avvio del procedimento disciplinare che, invero, era stato formalizzato ben oltre il suddetto termine.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso sulla scia della costante giurisprudenza in materia, ribadendo che l'imprenditore è tenuto a portare a conoscenza del lavoratore i fatti contestati non appena gli stessi gli appaiono "ragionevolmente sussistenti"; nel valutare l'immediatezza della contestazione occorre, pertanto, tener conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla loro commissione. In particolare, perché il datore sia tenuto alla contestazione, occorre che lo stesso abbia acquisito una compiuta e meditata conoscenza dei fatti oggetto di addebito, nel bilanciamento con il diritto di difesa del lavoratore.

Non mutano tali considerazioni nel caso di specie, hanno continuato gli Ermellini, laddove il ritardo era giustificato dalla richiesta di apposita relazione tecnica su quanto occorso; ciò, anche con riguardo  alla norma di contrattazione collettiva invocata, ovvero l'art. 41 del CCNL per le aziende sanitarie, a mente del quale, i provvedimenti disciplinari devono essere adottati in conformità della legge n°300 del 1970, art. 7, nonché del rispetto, da parte del datore di lavoro, dei principi generali di diritto vigenti in materia di immediatezza, contestualità ed immodificabilità della contestazione disciplinare. Sul punto, hanno concluso gli Ermellini, si conviene che "comunque, la contestazione disciplinare deve essere inviata al lavoratore non otre il termine di trenta giorni dal momento in cui gli organi direttivi sanitari ed amministrativi delle Strutture di cui all'articolo 1 del presente contratto hanno avuto effettiva conoscenza della mancanza commessa"

 

 

NULLA LA CLAUSOLA DI RECESSO UNILATERALE DAL PATTO DI NON CONCORRENZA DA PARTE DEL DATORE DI LAVORO

 

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 23723 DEL 1 SETTEMBRE 2021

 

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 23723 del 1 settembre 2021, afferma la nullità della clausola inserita all’interno del patto di non concorrenza, con la quale si riconosce al datore di lavoro la facoltà di recesso unilaterale da detto accordo.

Nel caso in oggetto, una lavoratrice adiva il Tribunale al termine del rapporto di lavoro, per proporre domanda diretta ad ottenere la somma spettante a titolo di compenso, come pattuito attraverso il patto di non concorrenza stipulato al momento dell’assunzione per i due anni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro. Sia i Giudici di prime cure, che la Corte d’Appello rigettavano la domanda, ritenendo che avendo il datore di lavoro esercitato il suo diritto di decidere se avvalersi o meno di detta clausola ben prima dell’effettiva cessazione del rapporto, non era stata scalfita la facoltà della lavoratrice di organizzare il proprio futuro lavorativo e pertanto nessun sacrificio era stato patito dalla stessa in questo senso.

La lavoratrice ricorreva in Cassazione. I Giudici di Piazza Cavour, ribaltando il disposto della Corte d’Appello, affermano che la previsione di una clausola all’interno del patto di non concorrenza con la quale venga riconosciuta al datore di lavoro la facoltà di recesso unilaterale dal patto stesso è nulla per contrarietà a norme imperative, né assume rilevanza la circostanza che nel caso de quo il recesso sia avvenuto in costanza del rapporto di lavoro e non alla sua cessazione, giacché i rispettivi obblighi assunti dalle parti nel momento della stipula del patto di non concorrenza si cristallizzano al momento della sottoscrizione dell’accordo. Ciò vuol dire che la compressione della libertà del lavoratore, intesa come possibilità di progettare un eventuale futuro lavorativo alternativo, sacrificata in cambio del pagamento di un corrispettivo da parte del datore di lavoro, avviene già a partire dalla stipula del patto e non dalla cessazione del rapporto di lavoro. Orbene, se il datore di lavoro avesse la facoltà di liberarsi in maniera unilaterale ed ex post di questo obbligo, il lavoratore non vedrebbe riconosciuto alcun corrispettivo economico per il sacrificio patito.

Per le motivazioni esposte quindi, la Suprema Corte, riformando la sentenza di secondo grado, accoglie il ricorso della lavoratrice.

 

Ad maiora

IL PRESIDENTE

EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 13 Settembre 2021