12 Settembre 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

L’APPLICAZIONE PARZIALE DELLE CLAUSOLE DI UN CONTRATTO COLLETTIVO NON IMPLICA UN’ADESIONE IMPLICITA ALLO STESSO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 18537 DELL’8 GIUGNO 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 18537 dell’8 giugno 2022, afferma che l’applicazione sporadica di alcune delle clausole di un particolare contratto collettivo da parte del datore di lavoro, non assume rilevanza ai fini della valutazione di un’implicita adesione al contratto stesso.

Nel caso in esame, un lavoratore aveva agito in giudizio per ottenere la corresponsione di quanto spettante a titolo di straordinario per diversi anni di lavoro, ritenendo applicabile al rapporto di lavoro un particolare contratto integrativo provinciale, che prevedeva un orario giornaliero inferiore rispetto a quello da lui svolto nell’esercizio delle sue mansioni.

Se, in primo grado, il Tribunale accoglieva la domanda, in secondo grado di giudizio la Corte d’Appello, in accoglimento dell'impugnazione del datore di lavoro, respingeva la domanda, ritenendo insufficienti gli elementi forniti per poter affermare che il datore di lavoro avesse effettivamente applicato o recepito la contrattazione provinciale richiamata.

Il lavoratore ricorreva quindi in Cassazione. La Suprema Corte afferma che i contratti collettivi non aventi efficacia erga omnes sono atti negoziali privatistici, applicabili, pertanto, ai soli rapporti individuali intercorrenti tra soggetti iscritti alle associazioni stipulanti oppure, in mancanza di quest’ultimo requisito, tra soggetti che vi abbiano aderito anche implicitamente attraverso un comportamento concludente, desumibile da una costante e prolungata applicazione, senza contestazione, delle clausole al singolo rapporto di lavoro. Sulla base di tale premessa è da ritenersi correttamente valutata da parte della Corte Distrettuale la circostanza che il datore di lavoro aveva applicato in maniera totalmente sporadica e solo isolatamente alcune delle clausole del contratto integrativo indicato dal ricorrente, tra cui alcuni dei valori indicati nelle tabelle salariali. Pertanto, il non costante impiego dello stesso nella gestione del rapporto di lavoro non era da ritenersi riconducibile al concetto di facta concludentia, più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, ai fini della valutazione di un’adesione implicita ad un particolare CCNL e per la stessa ragione il ricorso veniva rigettato.

LA PAURA DI MORIRE COSTITUISCE DANNO MORALE DIMOSTRABILE CON PRESUNZIONI

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 19623/2022 DEL 17 GIUGNO 2022

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 19623 del 17 giugno 2022, ha stabilito che il danno morale costituisce un patema d’animo, ossia, una sofferenza interna che non è accertabile con metodi scientifici e che, come tutti i moti d’animo, può essere provato in modo diretto solo quando assume connotati eclatanti; diversamente, dovrà essere accertato per presunzioni.

Nel caso in trattazione, infatti, gli eredi di un lavoratore morto di cancro anche a causa dell'esposizione all’amianto, lamentavano la responsabilità ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro per non aver questi attuato le misure necessarie per contenere il rischio di intossicazione, causando così, non solo, la malattia mortale, ma anche la paura di morire ed agivano in giudizio per l’accertamento del danno biologico e morale causato dall’esposizione al materiale tossico. Il Giudice di prime cure condannava la società datrice di lavoro al risarcimento dei danni non patrimoniali.

Essendo pacifico che vi fossero almeno due concause della patologia cancerogena: il tabagismo (il lavoratore era un accanito fumatore) e l'esposizione all'amianto (lavorava come saldatore), la Corte d’Appello rigettava il gravame proposto dagli eredi applicando il principio di equivalenza secondo cui, in presenza di un concorso di cause che cagionino un evento patologico unitario ed indivisibile, occorre considerare tali cause equivalenti. In altri termini, non essendo possibile effettuare una ripartizione causale tra i due fattori cancerogeni, essi andavano considerati egualmente responsabili dell'evento dannoso, con la conseguenza che la ripartizione della responsabilità tra i due fattori di rischio inficiava l'entità del risarcimento del danno che doveva essere ridotto rispetto alla domanda iniziale dei ricorrenti.

Gli eredi del lavoratore proponevano ricorso in Cassazione sostenendo che la Corte di Appello avesse negato il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale vantato escludendo la sussistenza del danno morale e/o esistenziale (lesione di interessi costituzionalmente garantiti), ritenendo non applicabile il ricorso alle presunzioni, anche semplici; e ciò, senza considerare che la Cassazione, con precedente pronuncia, aveva statuito che il danno da paura di ammalarsi può essere provato attraverso le presunzioni e deve essere risarcito. La parte ricorrente lamentava, inoltre, che la sentenza impugnata non tenesse conto delle deduzioni ed allegazioni di cui al ricorso di primo grado: il fatto di sapere di essere stato esposto per tutta la durata del rapporto di lavoro ad agenti morbigeni, di venire a conoscenza che moltissimi colleghi di lavoro avevano contratto gravi patologie, che molti erano deceduti, aveva generato nel lavoratore l'incertezza del proprio vivere, modificando in peius la propria vita quotidiana, mettendo in primo piano la necessità di doversi sottoporre a molti esami clinici e controlli medici, con la conseguenza di un continuo ripensare alla possibilità di ammalarsi e poi morire.

I Giudici Supremi ritenevano corretto il ragionamento operato dalla Corte d’Appello in merito alla ripartizione della responsabilità tra i due fattori di rischio che aveva comportato la riduzione del risarcimento. In estrema sintesi, anche secondo la Corte di Cassazione, tra il tabagismo e l'esposizione all'amianto non vi era una causa prevalente sull'altra e, pertanto, l'ammontare del risarcimento cui sarebbe tenuto il datore di lavoro ex artt. 2087 e 2049 c.c. andava ridotto in ragione del principio di equivalenza. Riguardo secondo motivo di doglianza, la Corte, richiamando precedenti pronunce delle Sezioni Unite, sottolineava che il danno derivante dallo sconvolgimento dell'ordinario stile di vita è risarcibile indipendentemente dal danno biologico, quando tale sconvolgimento impatti sulla “vita normale” dell'individuo e, quindi, sulla libera e piena esplicazione delle sue abitudini quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti e rafforzati dall'art. 8 CEDU, sulla protezione della vita privata. Poiché lo sconvolgimento della vita quotidiana è una sofferenza intima, esso può essere provato mediante presunzioni, sulla base di nozioni di comune esperienza.

Pertanto, poiché la Corte territoriale non aveva considerato la prova presuntiva della sofferenza morale, benchè adeguatamente allegata, la Corte di Cassazione cassava la sentenza con rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione.
 

IN CASO DI ACCORDO DI RICOLLOCAZIONE DEL PERSONALE, SPETTA AL LAVORATORE ESCLUSO DIMOSTRARE IL POSSESSO DEI REQUISITI RICHIESTI PER L’ASSUNZIONE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 21450 DEL 6 LUGLIO 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 21450 del 6 luglio 2022, ha dichiarato che l’accordo sindacale avente ad oggetto la ricollocazione, in una diversa impresa, di una determinata percentuale di dipendenti messi in mobilità, va qualificato alla stregua di un contratto a favore di terzi che, pur rappresentando elemento necessario a far sorgere in capo ai lavoratori interessati un diritto da opporre alla società promittente, non rappresenta condizione sufficiente ai fini dell’assunzione.

La pronuncia deriva dalla pretesa di instaurazione del rapporto di lavoro sollevata da un dipendente in esecuzione di un accordo sindacale, in virtù del quale la società neocostituita si impegnava ad assumere 12.500 lavoratori tra il personale in precedenza impiegato alle dipendenze di un’altra azienda posta in amministrazione straordinaria.

La Corte d’Appello rigettava la predetta domanda sul presupposto che il ricorrente, terzo estraneo all’accordo sindacale, non aveva dimostrato il possesso dei requisiti necessari a soddisfare i criteri selettivi elencati nell’accordo stesso.

Gli Ermellini, nel confermare il giudizio di merito, hanno ribadito che l'accordo avente ad oggetto la ricollocazione del personale interessato dalla cessazione dell’attività di una delle due imprese e contenente l'impegno della subentrante ad assumere alle sue dipendenze una determinata percentuale dei dipendenti messi in mobilità, va qualificato come contratto a favore di terzi.

Ciò posto, qualora detto accordo non indichi nominativamente i dipendenti da assumere, ma si limiti a stabilire i criteri per l’individuazione dei lavoratori che dovranno transitare alle dipendenze dell'impresa subentrante, il titolo della pretesa che il singolo prestatore può far valere nei confronti di quest'ultima non è costituito solo dall'accordo collettivo, ma anche dal possesso dei requisiti stabiliti dalle parti contraenti per l’individuazione dei terzi beneficiari.

Secondo i Giudici di legittimità, ne consegue che è onere del lavoratore che agisca in giudizio per rivendicare il diritto all'assunzione, non solo dimostrare l’esistenza dell’accordo ma anche che sulla base dei criteri indicati nello stesso la scelta doveva ricadere sulla sua persona.

 

I LIMITI DI IMPIGNORABILITÀ SONO APPLICABILI ANCHE A SEQUESTRI E CONFISCHE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE PENALI – SENTENZA N. 26252 DEL 7 LUGLIO 2022

La Corte di Cassazione, con la sentenza n.26252 del 07/07/2022, ha statuito che i limiti di impignorabilità delle somme spettanti a titolo di stipendio, salario o altre indennità relative al rapporto di lavoro sono applicabili anche alla confisca e al sequestro disposti nell'ambito del processo penale.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, si sono pronunciati a risoluzione della questione sollevata dalla sezione rimettente, con cui si chiedeva di chiarire se, e soprattutto in quali eventuali termini, si applicassero anche alla confisca per equivalente e al sequestro ad essa finalizzato, i limiti alla pignorabilità previsti dall’art. 545 c.p.c.

Gli Ermellini, in ordine ai rapporti tra limiti alla pignorabilità dei beni e sequestro preventivo, hanno rammentato l'esistenza, nella giurisprudenza di legittimità, di due linee esegetiche tra esse contrapposte, nonché una terza lettura, apparentemente intermedia tra le due:

  • Un primo indirizzo sostiene l'applicabilità tout court, al sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, dei limiti predetti, in ragione della natura dell'art. 545 di regola di carattere generale, espressione di diritti inalienabili della persona;
  • Un secondo orientamento ha invece concluso per l'inapplicabilità dei limiti di cui agli artt. 545 e 546 c.p.c., valorizzando la stretta attinenza delle norme processuali civilistiche ai rapporti tra privati;
  • Il terzo orientamento, infine, ha differenziato l'esito delle conclusioni sulla base del criterio temporale della anteriorità o meno della corresponsione delle somme qualificate rispetto al momento dell'adozione del sequestro.

Con la sentenza de qua, i Giudici del Palazzaccio, come chiarito dalla stessa Corte Costituzionale, in particolare alla necessità di contemperare la protezione del credito con l’esigenza del lavoratore di avere, attraverso una retribuzione congrua, un’esistenza libera e dignitosa, hanno evidenziato che la ratio sottesa all'art. 545 c.p.c., di limitazione all'espropriabilità dei crediti da lavoro dipendente, trova fondamento nel fatto che nella generalità dei casi il lavoratore dipendente trae i mezzi ordinari di sostentamento per le necessità della vita da un'unica fonte, facilmente aggredibile.

In nuce, dalla S.C., è stato pertanto enunciato il seguente principio di diritto: "I limiti di impignorabilità delle somme spettanti a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a titolo di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengano luogo di pensione o di assegno di quiescenza, previsti dall’art. 545 cod. proc. civ., si applicano anche alla confisca per equivalente e al sequestro a essa finalizzato".

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CHE NEL TENTATIVO DI IMPEDIRE IL CAMBIO DI MANSIONI RIFIUTI DI SOTTOPORSI A VISITA MEDICA PREVENTIVA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 22094 DEL 13 LUGLIO 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 22094 del 13 luglio 2022, ha statuito la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore che rifiuti di sottoporsi a visita medica preventiva per cambio di mansioni.

Nel caso in oggetto, una lavoratrice adiva il Tribunale per impugnare il licenziamento intimato per giusta causa dal datore di lavoro, in seguito a procedimento disciplinare con il quale veniva contestato alla dipendente di essersi rifiutata di effettuare la visita medica preventiva per cambio mansioni in due diverse occasioni.

Sia il Tribunale, che la Corte d’Appello avevano rigettato la domanda della ricorrente, ritenendo che la richiesta di sottoposizione a visita medica fosse conforme alla legge ed il rifiuto dovesse reputarsi illegittimo e non giustificato.

La lavoratrice soccombente ricorreva, quindi, in Cassazione, lamentando la violazione degli artt. 20 e 41 del D.Lgs. n. 81/2008, in relazione all'art. 32 della Costituzione, laddove la visita medica imposta dal datore di lavoro non era finalizzata ad accertare la sua idoneità alle mansioni per cui era stata assunta, ma al contrario, quella a svolgere nuove mansioni, assegnatele, a suo dire, illegittimamente.

La Suprema Corte, confermando la sentenza dei Giudici di merito, afferma che ai sensi dell'art. 41 co. 2 lett. d) del D.Lgs. n. 81/2008, la sorveglianza sanitaria comprende, tra gli altri, anche la visita medica in occasione del cambio della mansione, onde verificare l'idoneità alla mansione specificamente assegnata al lavoratore. Orbene, sulla base di questa premessa, appare evidente che la visita medica di idoneità in ipotesi di cambio delle mansioni è prescritta per legge e la richiesta di sottoposizione a visita, da parte del datore di lavoro rappresenta un adempimento dovuto, la cui omissioni avrebbe costituito un inadempimento grave e colposo.

La reazione della lavoratrice, che nel tentativo di impedire il cambio di mansioni avrebbe rifiutato la visita medica non è giustificabile a norma dell’art. 1460 c.c., giacché il datore di lavoro si era limitato ad adeguarsi ad una prescrizione legislativa. Di conseguenza, la condotta della ricorrente rientra tra i comportamenti censurabili dal punto di vista disciplinare, in quanto la stessa non avrebbe potuto evitare in nessun modo lo svolgimento della visita medica, obbligo legale del datore di lavoro, ma solo impugnare l’esito della stessa, ovvero eventualmente l’illegittimo demansionamento, innanzi agli organi competenti.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 12 Settembre 2022