27 Settembre 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….
Oggi parliamo di………….

 

LA QUIETANZA LIBERATORIA FIRMATA DAL LAVORATORE DIPENDENTE RAPPRESENTA UNA MERA DICHIARAZIONE DI SCIENZA PRIVA DI VALORE NEGOZIALE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 22245 DEL 4 AGOSTO 2021
La Corte di Cassazione, ordinanza n. 22245 del 4 agosto 2021, ha riconfermato che la quietanza liberatoria sottoscritta dal dipendente al momento della cessazione del rapporto di lavoro non rappresenta la manifestazione di una volontà di rinunzia ai propri diritti, ma una mera dichiarazione di scienza, priva di valenza negoziale.
Nel caso de quo un lavoratore ricorreva in Tribunale al fine di ottenere dal suo ex datore di lavoro differenze retributive spettanti in relazione al rapporto di lavoro ormai concluso, per la scorretta applicazione della disciplina contrattuale-collettiva rispetto all’attività svolta dal datore di lavoro.
La domanda veniva accolta sia in primo che in secondo grado, la Corte Distrettuale ha ritenuto infatti priva di ogni valenza la quietanza liberatoria sottoscritta dal dipendente al momento della cessazione del rapporto di lavoro, in quanto il documento non era da considerare, come evidenziato nel decisum, espressione di una volontà abdicativa ai propri diritti da parte del lavoratore.
Gli eredi del datore di lavoro ricorrevano quindi in Cassazione, lamentando l’erronea valutazione del documento sottoscritto dal lavoratore con il quale lo stesso avrebbe rinunciato, a loro dire, all'esperimento di ulteriori azioni relative al rapporto di lavoro. La Suprema Corte, rigettando il ricorso e confermando l’orientamento espresso della Corte d’Appello, ha ritenuto che la quietanza liberatoria rilasciata a saldo di ogni pretesa costituisce, una mera dichiarazione di scienza, priva di ogni efficacia negoziale. Infatti, dichiarazioni di questo tipo sono secondo il giudizio degli Ermellini assimilabili a clausole di stile, che non provano una reale volontà dispositiva del dichiarante. Una eventuale volontà abdicativa potrebbe essere eventualmente rilevata attraverso particolari elementi di interpretazione del documento, facendo assumere alla quietanza liberatoria il valore di negozio di rinunzia o transazione. Nel caso in oggetto tali elementi però non erano stati rinvenuti e per tale ragione il ricorso degli eredi del datore di lavoro viene rigettato.
 

L’ULTILIZZO DI PERMESSI NON RETRIBUTI RICONDUCIBILI ALL’EVENTO INFORTUNISTICO CONTRIBUISCE AL SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22591 DEL 10 AGOSTO 2021
La Corte di Cassazione, sentenza n° 22591 del 10 agosto 2021, ha chiarito, in tema di superamento del periodo di comporto, la legittimità del licenziamento del dipendente per superamento del periodo di comporto, laddove i permessi non retribuiti utilizzati a seguito dell’episodio lesivo siano correlati all’infortunio occorso anche se ufficialmente terminato.
Nel caso in esame, la Corte di Appello di Potenza ha confermato la legittimità del licenziamento della lavoratrice, fondando la propria decisione sul fatto che non sussistesse alcuna effettiva soluzione di continuità fra il periodo di sospensione della prestazione per l'infortunio e il periodo di sospensione successivo alla presunta cessazione dello stesso, dovendo imputarsi entrambi i momenti al medesimo evento.
Avverso tale pronuncia, la lavoratrice ricorreva in Cassazione lamentando che i Giudici d’Appello, avevano violato i principi generali in tema di interpretazione contrattuale relativamente agli art. 175 e 177 del CCNL Commercio del 30/03/2015, nonché di non aver correttamente valutato il comportamento del datore di lavoro in relazione alla scadenza del periodo di comporto ed alla mancata adibizione della dipendente a mansioni confacenti il suo stato di salute, disapplicando il contenuto degli articoli 1175 e 1375 c.c., nonchè del Decreto Legislativo n. 81 del 2008, articoli 41 e 42.
Relativamente agli art. 175 e 177 del CCNL Commercio del 30/03/2015, la Corte territoriale, hanno argomentato gli Ermellini, ha escluso che il secondo periodo di astensione dall'attività lavorativa potesse configurarsi quale nuova malattia, ritenendo, piuttosto, che lo stesso si collegasse direttamente all'infortunio sul lavoro occorso alla dipendente, configurando in tal modo un unico periodo di sospensione dell’attività lavorativa e il raggiungimento del limite del comporto.
Sempre come rilevato dalla Corte Territoriale, in capo al datore di lavoro non sussiste nessun obbligo di comunicare alla dipendente l’imminente scadenza del periodo di comporto, né la medesima lavoratrice aveva manifestato disponibilità allo svolgimento di diverse mansioni, fermo restando l’accordo fra il datore di lavoro e la lavoratrice sulla diversa modalità di gestione della sospensione del rapporto di lavoro.
Per le motivazioni esposte, quindi, la Suprema Corte conferma la sentenza di secondo grado, rigettando il ricorso della lavoratrice.

PER LA CONTESTAZIONE DI OPERAZIONI SOGGETTIVAMENTE INESISTENTI, L'UFFICIO HA L'ONERE DI FORNIRE ELEMENTI PROBATORI INDICANDO GLI ELEMENTI ANCHE INDIZIARI SUI QUALI SI FONDA LA CONTESTAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 22969 DEL 17 AGOSTO 2021.
La Corte di Cassazione – sentenza n° 22969 del 17 agosto 2021 – ha (ri)confermato, in tema di operazioni soggettivamente inesistenti, che l'onere della prova spetta all'Ufficio  indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione.
Nel caso de quo, una società contribuente aveva impugnato un avviso di accertamento con il quale l'Agenzia delle Entrate contestava l'indebita deduzione di costi risultanti dalla contabilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti. La CTP di Bergamo, sul punto, accoglieva le doglianze della contribuente tese ad evidenziare la propria buona fede nelle operazioni accertate e, parimenti, la Commissione tributaria regionale della Lombardia aveva rigettato l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate sul presupposto che l'avviso di accertamento non fornisse elementi di prova a carico del contribuente nella partecipazione alla frode fiscale.
Per la cassazione della sentenza l'Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione.
Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso confermando che in relazione al tema delle fatture per operazioni (solo) soggettivamente inesistenti, sorge l'esigenza della tutela della buona fede del contribuente, anche in applicazione della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea che ha già affermato: "l'Amministrazione finanziaria, la quale contesti che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell'ambito di una frode carosello, ha l'onere di provare, anche solo in via indiziaria, non solo l'oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l'operazione si inseriva in una evasione dell'imposta". La prova della consapevolezza dell'evasione, hanno continuato sul punto gli Ermellini, richiede che l'Amministrazione finanziaria dimostri che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l'ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l'operazione si inseriva in una evasione fiscale.
Nella specie, la CTR aveva ritenuto sussistere la frode fiscale a carico dei soggetti emittenti le fatture false, ma aveva inoltre affermato che non sussisteva alcun elemento che potesse far dedurre il coinvolgimento consapevole del contribuente. Di contro, il ricorrente aveva dimostrato l'effettività delle operazioni commerciali di cui si discute, aveva fornito prova della corretta quantificazione delle fatture, nonché la regolarità e tracciabilità dei pagamenti. Aveva inoltre dimostrato con perizia tecnica il totale impiego nel processo produttivo delle materie acquistate con le fatture contestate, pertanto, hanno concluso gli Ermellini, la CTR ha correttamente affermato l'estraneità del contribuente rispetto alla frode fiscale perpetrata da soggetti terzi.

L’AFFATICAMENTO NORMALE SUL POSTO DI LAVORO NON PUO’ INTEGRARE LA “CAUSA VIOLENTA” NECESSARIA PER IL RICONOSCIMENTO DELL’INFORTUNIO

CORTE DI CASSAZIOE – ORDINANZA N. 23894 DEL 3 SETTEMBRE 2021
La Corte di Cassazione, ordinanza n° 23894 del 3 settembre 2021, ha statuito che non può essere indennizzato come infortunio il “normale” affaticamento del lavoratore per la mancanza della “causa violenta”.
Il caso in esame concerne la richiesta inoltrata dagli eredi di un lavoratore finalizzata ad ottenere la rendita Inail, quali superstiti di un lavoratore, precedentemente colpito da un'ischemia miocardica, che, mentre prestava servizio, aveva sostenuto un grosso sforzo per trasportare a spalla alcuni mobili, da cui era derivata la morte.
In primo grado, il Tribunale riconosceva ai superstiti la rendita, mentre, la Corte di Appello salernitana riformava la sentenza.
Ebbene, gli Ermellini, chiamati dagli eredi-ricorrenti, hanno confermato la statuizione dei Giudici territoriali in quanto, dagli atti processuali del “merito”, non risultava accertato alcun elemento che potesse qualificare l'attività lavorativa ordinaria, così come quella svolta nel giorno del decesso, come eccedente la normale tollerabilità ed adattabilità, al punto da potersi ravvisare un rapporto diretto tra lavoro e decesso.
Pertanto, i Giudici di Piazza Cavour, nel ricordare che caratteristiche precipue dell’infortunio, da cui possono derivare le prestazioni previdenziali ed assistenziali, sono la “causa violenta” (id: azione violenta, art. 2 DPR 1124/65), l’”occasione di lavoro” e l’”evento traumatico”, hanno negato che, nella fattispecie, potesse ricorrere l’azione violenta.
Infatti, hanno affermato che, secondo l'art. 2 del T.U. Inail (DPR 1124/1965), può determinare una patologia riconducibile all'infortunio protetto deve operare come causa esterna, che agisca con rapidità e intensità, in un brevissimo arco temporale, o comunque in una minima misura temporale, non potendo ritenersi indennizzabili come infortuni sul lavoro tutte le patologie che trovino concausa nell'affaticamento che costituisce normale conseguenza del lavoro.
 

INFORTUNIO IN ITINERE: NESSUNA COPERTURA INAIL SE MANCA LA PROVA DELL’INDISPONIBILITÀ DEI MEZZI PUBBLICI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 24023 DEL 6 SETTEMBRE 2021
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 24023/2021, depositata il 6 settembre, ha ribadito che in mancanza di prova dell’indisponibilità di mezzi pubblici utilizzabili dal lavoratore, non può configurarsi l’infortunio in itinere.
Nel caso in trattazione, un artigiano edile presentava ricorso in Appello avverso il rigetto della domanda di costituzione di una rendita per infortunio, presentata a seguito di un grave incidente, occorso durante uno spostamento in auto tra due cantieri differenti.
La Corte di Appello confermava la sentenza di primo grado ritenendo che non fosse provato che l’incidente si era verificato in occasione dello spostamento tra un cantiere e l’altro e che, soprattutto, non era stata dimostrata l’impossibilità di effettuare lo spostamento utilizzando mezzi pubblici di linea. Ricordiamo, infatti, che l’utilizzo del mezzo di trasporto privato espone il lavoratore ad un maggior rischio di infortunio, pertanto, l’assicurazione opera purché tale utilizzo sia necessario (Cass n.16835/2017) in quanto mancano i mezzi pubblici (Cass. N. 12891/2000) oppure, pur essendoci, non consentono la puntuale presenza sul luogo di lavoro o il loro utilizzo è eccessivamente disagevole (Cass. N.6210/2008). Anche per i Giudici di secondo grado, quindi, l’incidente non poteva essere considerato quale infortunio in itinere.
L’artigiano ricorreva per la cassazione di tale sentenza con due motivi di doglianza. Con il primo sosteneva la violazione del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 12, per avere i Giudici trascurato che l'infortunio non era stato contestato e, soprattutto, che, trattandosi di un artigiano edile, era evidente la necessità di servirsi di un mezzo di locomozione privato per poter effettuare i vari spostamenti. I Giudici della Corte Suprema evidenziavano che la sentenza d’Appello non poneva in discussione il verificarsi dell’incidente stradale occorso al lavoratore, bensì la sua catalogazione come “infortunio in itinere”, mancando il nesso tra l’incidente e l’occasione di lavoro. Anche per la Cassazione, infatti, non era provato che lo spostamento fosse avvenuto tra cantieri ove veniva espletato il lavoro e, soprattutto, che non vi fossero mezzi pubblici utilizzabili idonei a coprire il percorso. In difetto di prova, il cui onere gravava in capo al ricorrente, il motivo era rigettato. Il secondo motivo, di natura procedurale, era ritenuto inammissibile.
In conclusione, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso ritenendo priva di fondamento la pretesa avanzata dal lavoratore nei confronti dell’INAIL.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.
Ha collaborato alla redazione di questo numero la Collega Natalia Andreozzi

Condividi:

Modificato: 27 Settembre 2021