19 Settembre 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

COEFFICIENTE DI RIVALUTAZIONE T.F.R. AGOSTO 2022

Il 16 Settembre scorso l’ISTAT ha comunicato coefficiente ed indice per rivalutazione TFR Luglio 2022 (id: licenziamenti dal 15 agosto al 14 settembre 2022) determinandoli in 5,943503 e 113,2.

 

LE CONSULENZE PRESTATE DAL SOCIO-AMMINISTRATORE ATTRAVERSO UNA PROPRIA SOCIETA' DI SERVIZI NON RISPETTANO IL REQUISITO DELL'INERENZA AI FINI DELLA DEDUCIBILITA' DEL RELATIVO COSTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N.20192 DEL 22 GIUGNO 2022.

La Corte di Cassazione – sentenza n°20192 del 22 giugno 2022 – ha statuito non inerenti, in quanto antieconomici, i costi sopportati da una società che esternalizzi  servizi per consulenze a favore di società terza amministrata da un proprio socio – consigliere del C.d.A.

Nel caso de quo, all'esito di verifica fiscale,  veniva disconosciuta la deducibilità di costi sostenuti per consulenze di produzione fornite da una s.a.s., in quanto ritenute antieconomiche e non inerenti ex articolo 109 TUIR, comma 5. In particolare, le consulenze erano state affidate ad una società amministrata dal socio della società committente che rivestiva anche la carica di consigliere di amministrazione.

Destinataria di conseguente avviso di accertamento, la società contribuente, sullo specifico rilievo, aveva proposto ricorso; soccombente sia in sede provinciale che in sede regionale aveva perciò adito la Suprema Corte per violazione e falsa applicazione dell'art. 109 TUIR, comma 5, per avere ritenuto insussistente il requisito dell'inerenza dei costi per consulenze e servizi forniti dalla società  s.a.s..

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato  il ricorso evidenziando che i costi in questione afferivano, pacificamente, a prestazioni fornite da società s.a.s., e venivano rese esclusivamente dal socio della s.r.l., che rivestiva anche la carica di consigliere di amministrazione. Conseguentemente, non vi era alcuna possibilità di distinzione del tipo di servizi resi, dei ruoli, delle mansioni e degli interessi imprenditoriali del socio, quale amministratore della società verificata, e dello stesso   quale soggetto terzo,  titolare ed unico materiale esecutore dei servizi resi.

Correttamente, quindi, hanno concluso gli Ermellini, l'Ufficio ha escluso il requisito dell'inerenza ex articolo 109 TUIR, comma 5, con valutazione confermata dalla C.T.R., in quanto il socio (nella sua duplice veste) si occupava, per la s.r.l. committente, della gestione della produzione, per cui appariva del tutto antieconomica ed ingiustificata la scelta imprenditoriale di affidare ad una società esterna tale compito. Inoltre, il prezzo pattuito per tali "servizi di assistenza" era stabilito dallo stesso soggetto, vista l'appartenenza ad entrambe le compagini sociali.

 

L’ACQUISTO DELLA COSIDDETTA CRITPOVALUTA COSTITUISCE UN’ATTIVITÀ SPECULATIVA PERSEGUITA DALL’ART. 648 TER. 1 CP

CORTE DI CASSAZIONE – II SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 27024 DEL 7 LUGLIO 2022

La Corte di Cassazione, con la sentenza n.27024 del 07/07/2022, ha statuito che è considerato autoriciclaggio comprare “bitcoin” con i proventi del reato compiuto, in quanto anche l'acquisto di critpovaluta costituisce un'attività speculativa perseguita dall'art. 648 ter. 1 CP, che punta a evitare l'inquinamento del circuito economico con soldi sporchi.

In dettaglio, il ricorrente aveva provveduto al trasferimento di somme non appena accreditate, senza mai riscuoterle, attraverso disposizioni online in favore di altro conto tedesco, intestato alla piattaforma di scambio di bitcoin, per il successivo acquisto di valuta virtuale, il cui impiego finale risultava imprecisato, ponendo in essere un investimento dei profitti illeciti in operazioni di natura finanziaria, idonee a ostacolare la tracciabilità e la ricostruzione dell’origine delittuosa del denaro.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno confermato in toto i capi d’accusa per il contribuente imputato, considerando che la cosiddetta moneta virtuale, infatti, può essere acquistata con alto grado di anonimato senza alcun controllo sulla provenienza del denaro, e contestualmente può essere utilizzata a fini di investimento e risparmio, oltre che come mezzo di pagamento.

Con la Sentenza de qua, gli Ermellini, hanno dissipato ogni e qualsiasi ragionevole dubbio su come l'acquisto di moneta virtuale rientri fra le attività punite dalla norma incriminatrice, che si limita a indicare macroaree, dalla finanza all'impresa, tutte accomunate dall'impiego finalizzato al conseguimento di un utile, per impedire che nell'economia legale sia immesso denaro o altre utilità di provenienza illecita e di cui il responsabile del reato sotteso intende nascondere l'origine.

In nuce, per la S.C., le valute virtuali comprendono prodotti che rappresentano riserva di valore, e l'acquisto di bitcoin, in particolare, si presta ad agevolare condotte illecite col suo sistema permissionless che non prevede verifiche sull'immissione di nuovi “nodi”. Tant’è che nel dark web, sono numerose le criptovalute che garantiscono un elevatissimo livello di privacy per l’utente e per l’oggetto di compravendita. Inoltre, per i Giudici di Legittimità è il più grave reato di autoriciclaggio a definire la competenza territoriale, che appartiene al giudice dove ha sede la banca online da cui partono i bonifici per comprare moneta virtuale.

 

NESSUNA SANZIONE PER IL LAVORATORE MALATO CHE NON RISPONDE AL MEDICO FISCALE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 22484/2022 DEL 18 LUGLIO 2022

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 22484 del 18 luglio 2022, ha stabilito che l’obbligo di cooperazione che grava sul lavoratore in malattia non può essere esteso fino a ricomprendere il divieto di astenersi dal compiere qualsiasi atto del vivere quotidiano, normalmente compiuto all’interno delle pareti domestiche.

Nel caso in trattazione, infatti, un lavoratore assente per malattia adiva il Tribunale per l’annullamento della sanzione disciplinare comminatagli per aver “mancato” la visita di controllo domiciliare del medico fiscale, nonostante si fosse attivato immediatamente per consentire l'accertamento.

La Corte d'Appello respingeva l’appello proposto dalla società datrice avverso la sentenza di prime cure che aveva accolto il ricorso del lavoratore e, annullata la sanzione disciplinare del richiamo scritto, condannava la società a corrispondere al ricorrente l'indennità di sala operatoria sospesa in quanto il regolamento contrattuale ne condizionava l'erogazione all'assenza di provvedimenti disciplinari. Il giudice territoriale, premettendo che il lavoratore al momento della visita di controllo non aveva sentito suonare il campanello di casa perché "sotto la doccia" e ciò aveva impedito l'accesso del medico fiscale nell'abitazione, sottolineava che lo stesso si era immediatamente attivato, manifestando piena disponibilità a consentire l'accertamento, ed aveva anche inviato tempestiva comunicazione dell'accaduto agli organi preposti. Pertanto, condividendo le conclusioni alle quali era giunto il Tribunale ordinario, riteneva che in relazione alle circostanze del caso concreto, doveva essere esclusa la rilevanza disciplinare della condotta, non risultando violati gli obblighi esigenza e di esecuzione del contratto secondo buona fede, imposti dagli artt. 2104 e 2106 c.c.

Per la cassazione della sentenza proponeva ricorso la società datrice di lavoro sostenendo che il mancato rispetto della reperibilità costituisce inadempimento contrattuale sanzionabile in sé, ossia a prescindere dalla presenza o meno dello stato di malattia, perché il lavoratore ha nei confronti del datore un dovere di cooperazione e pertanto, anche nel domicilio, è tenuto ad astenersi da condotte che impediscano l'accesso al medico della struttura pubblica. Aggiungeva inoltre che il contratto collettivo prevede espressamente la rilevanza disciplinare dell'assenza alla visita domiciliare di controllo ed insisteva nel sostenere che la decisione di "fare la doccia durante la fascia di reperibilità" integrava inadempimento contrattuale.

La Suprema Corte respingeva il ricorso osservando che non tutte le condotte che rilevano nei rapporti con l''istituto previdenziale e che possono determinare decadenza del beneficio comportano anche una responsabilità disciplinare; perché si verifichi quest'ultima è necessario accertare il rispetto delle condizioni richieste sul piano sostanziale dall'art. 2106 c.c. e sul piano formale dall'art. 7, l. n. 300/1970. La condotta tenuta dal dipendente all'interno delle pareti domestiche non coincide con quelle condotte aventi rilievo disciplinare, ne consegue che “l'obbligo di cooperazione che grava sul lavoratore in malattia, pur rilevando anche sul piano contrattuale del rapporto di lavoro, non può essere esteso fino a ricomprendere il divieto per il lavoratore medesimo di astenersi dal compiere qualsiasi atto del vivere quotidiano, normalmente compiuto all'interno delle pareti domestiche”.

 

IL REATO DI CAPORALATO, EX ART. 603 BIS DEL CODICE PENALE, SI CONFIGURA IN PRESENZA SIA DELLO SFRUTTAMENTO CHE DELL’APPROFITTAMENTO DELLO STATO DI BISOGNO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA 28289 DEL 19 LUGLIO 2022

La Corte di Cassazione, sentenza n° 28289 del 19 luglio 2022, è tornata a pronunciarsi sul reato di intermediazione illecita di manodopera e sfruttamento del lavoro, questa volta cercando di fare chiarezza sul perimetro di operatività dell’art. 603 bis del codice penale; per i Giudici di legittimità la mera conoscenza dello stato di bisogno del lavoratore -laddove sussistente- non è di per sé indicativa dell’approfittamento della condizione di grave difficoltà vissuta, a meno che non si provi il concreto vantaggio volontariamente tratto da un suo abuso.

Il caso esaminato deriva dal ricorso promosso da un datore di lavoro condannato dal Tribunale di Bari al divieto di esercizio di incarichi direttivi delle imprese perché accusato di avere assunto, con l’ausilio di un terzo reclutatore, alcuni lavoratori stranieri, approfittando del loro stato di bisogno, per utilizzarli nel lavoro agricolo.

Di senso opposto, invece, è stato il giudizio della Suprema Corte: la ratio dell’art. 603 bis risiede non tanto nella volontà di punire lo sfruttamento in sé, quanto di colpire l’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore, che può essere desunto sia da condizioni economiche gravemente sproporzionate, sia da altri fattori tali da indurre il lavoratore, indebolito nella propria capacità contrattuale, ad accettare condizioni cui altrimenti non avrebbe acconsentito. Deve quindi ricorrere l'abuso della condizione esistenziale del lavoratore cui corrisponde un vantaggio concreto per il datore di lavoro. Tuttavia, l’assunzione di un soggetto di cui si conosce lo stato di bisogno non è di per sé sintomatica di sfruttamento, qualora siano rispettate le prerogative retributive ed orarie del lavoratore e sia garantita la sua sicurezza sul luogo di lavoro.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno rilevato che la motivazione del provvedimento interdittivo disposto a danno dell’imputato era gravemente carente poiché sorretto solo dal fatto che i braccianti risiedessero in un Centro di accoglienza, stante l’ormai assunto orientamento giurisprudenziale secondo cui “soggiornare in un Centro di accoglienza, pur costituendo una condizione di disagio non coincide di per sé con lo stato di bisogno.”

 

L’ATTO DI ACCERTAMENTO DEVE CONTENERE AB ORIGINE LE MOTIVAZIONI CHE HANNO PORTATO ALLA SUA EMISSIONE, NON ESSENDO POSSIBILE INTEGARLE NEL CORSO DEL GIUDIZIO DI IMPUGNAZIONE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA 22918 del 21/07/2022

La Corte di Cassazione è tornata sul principio secondo cui l’atto accertativo deve contenere già nella sua formazione tutti i dati, gli elementi e le motivazioni che ne hanno determinato l’emissione, in ossequio al principio di permettere al contribuente una difesa non difficoltosa.

Nel caso in esame ad un contribuente era stato notificato un atto di accertamento ai fini delle imposte di registro in cui veniva modificato il valore della compravendita di due immobili, con la conseguente richiesta di maggiori imposte di registro e catastali: l’Ufficio aveva indicato un valore più alto facendo riferimento ai valori OMI della zona di riferimento, ma senza esplicarne i calcoli, esplicando solo il metodo utilizzato per la rettifica del valore.

Il ricorso del contribuente fu accolto dalla Commissione Tributaria Provinciale, che fece notare la carenza di motivazione, giacché l’Amministrazione Finanziaria aveva esposto i calcoli sottesi alla determinazione del maggior imponibile solo in sede di contenzioso, sostenendo (l’A.F.) che sia sufficiente che l'avviso enunci il criterio astratto in base al quale è stato rilevato il maggior valore riservando in sede contenziosa l'esame del valore in contraddittorio tra le parti: infatti solo in sede di contenzioso l’A.F. aveva indicato quali atti avesse preso in considerazione ai fini della comparazione con i valori indicati nella compravendita in esame.

Tale doglianza fu accolta dai giudici della Commissione Tributaria Regionale, che si pronunciarono in favore dell’Amministrazione Finanziaria, valutando che non può essere dichiarata la nullità per carenza di motivazione di un avviso di rettifica che indichi il presupposto della maggiore imposta e renda nota la fonte informativa sottostante alla rettifica.

A diverse conclusioni arriva invece la Corte di Cassazione, che stabilisce erronea l’affermazione che l’ufficio, a fronte di carenze motivazionali dell’atto impositivo, possa sanare la nullità integrando l’atto in giudizio, “poiché l'avviso di liquidazione deve contenere "ab origine" la chiara esposizione delle ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda, con un grado di determinatezza ed intellegibilità che permetta al contribuente l'esercizio non difficoltoso del proprio diritto di difesa, di talché eventuali lacune non possono essere colmate dall'amministrazione finanziaria con una motivazione postuma, resa nel corso del giudizio di impugnazione (Cass. n. 11284 del 07/04/2022; Cass. 12400 del 21/05/2018)”.

In altre parole, la Corte di Cassazione richiama l’attenzione sull’importanza della predisposizione e formazione degli atti impositivi, che devono essere formulati in maniera tale da rendere nota al contribuente la chiarezza e l’autosufficienza delle pretese e poter così agevolmente valutare termini e condizioni per resistere in giudizio.

Per questi motivi, la Corte cassa la sentenza e la rinvia alla CTR in diversa composizione per un nuovo esame.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
    Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

Condividi:

Modificato: 19 Settembre 2022