16 Ottobre 2017

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI SETTEMBRE 2017

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Settembre 2017. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Settembre 2017 è pari a 1,723205 e l’indice Istat è 101,10.

 

IL DATORE DI LAVORO E' RESPONSABILE DELL'INFORTUNIO OCCORSO AL PROPRIO DIPENDENTE ANCHE SE LO STESSO E' STATO CAUSATO DA UNA NEGLIGENZA DEL PRESTATORE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 23263 DEL 5 OTTOBRE 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 23263 del 5 ottobre 2017, ha (ri)statuito che in materia di infortuni sul lavoro, la “semplice” negligenza del dipendente non è da sola idonea ad esimere il datore di lavoro dalle proprie responsabilità in quanto lo stesso è tenuto a fornire macchinari moderni ed efficienti ed a vigilare costantemente sulla corretta adozione delle misure di sicurezza da parte dei propri lavoratori.

Nel caso de quo, un subordinato restava infortunato ad una mano a seguito dell'uso errato e disattento di un macchinario, privo di un blocco automatico di sicurezza, dal quale era stata rimossa una barra “salva-mano”, e per il cui utilizzo il dipendente non era stato adeguatamente formato.

Il lavoratore infortunato adiva la Magistratura soccombendo in I° grado poiché i Giudici ritenevano che l'evento traumatico fosse ascrivibile esclusivamente ad una sua imperizia. La Corte territoriale, successivamente adita, in parziale riforma del primo deliberato, accoglieva una parte delle doglianze del dipendente.

Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nel sancire la piena responsabilità del datore di lavoro, hanno per l'ennesima volta rimarcato che il datore di lavoro è responsabile dell'infortunio occorso al dipendente anche se lo stesso è ascrivibile ad un comportamento negligente di quest’ultimo. Infatti il datore è tenuto a vigilare sul comportamento dei prestatori, verificando che gli stessi adottino le necessarie misure di sicurezza. Inoltre è obbligo dell'azienda fornire macchinari dotati dei migliori sistemi atti a prevenire gli infortuni.  

Pertanto, atteso che nel caso in disamina il datore di lavoro non aveva verificato che i propri dipendenti utilizzassero gli strumenti di protezione, ed i macchinari erano particolarmente vetusti tanto da non essere dotati di un “blocco automatico” in caso di rimozione della barra “salva-mano”, i Giudici di Piazza Cavour hanno respinto il ricorso confermando la condanna del datore di lavoro.

 

L'ELEMENTO DELLA CONTINUITA' NON E' INDISPENSABILE PER CARATTERIZZARE LA NATURA SUBORDINATA DEL RAPPORTO DI LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 23056 DEL 3 OTTOBRE 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 23056 del 3 ottobre 2017, ha (ri)statuito che la fattispecie di subordinazione ex art. 2094 del c.c. non richiede necessariamente una continuità giornaliera nell'esercizio dell'attività lavorativa.

Nel caso in esame, la Corte d'Appello di Roma, riformando la sentenza emessa dal Tribunale della stessa città, aveva respinto la domanda di una lavoratrice, ritenendo non provata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato intercorso tra la stessa ed una società esercente attività alberghiera, in quanto caratterizzato dalla occasionalità delle prestazioni retribuite singolarmente.

In particolare la presunta dipendente obiettava di aver prestato attività di lavoro subordinato, ancorché in modo saltuario, per tutto il periodo dal 2003 al 2006.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la lavoratrice eccependo violazione e falsa applicazione dell'art. 2094 c.c. in relazione all'assunto della Corte che aveva fatto assurgere la continuità lavorativa ad elemento discriminante e fondante della prestazione di natura subordinata. 

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ed ha annullato la sentenza con rinvio alla Corte d'Appello di Roma, riconoscendo fondato il motivo di ricorso sull'assunto che è possibile accertare la subordinazione del rapporto di lavoro, anche in assenza di prova di una continuità giornaliera, in presenza di messa in disponibilità da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative.

In particolare, hanno ribadito gli Ermellini, l'elemento della continuità non è indispensabile per caratterizzare la natura subordinata del rapporto di lavoro, potendo le parti concordare una modalità di svolgimento della prestazione che si articoli secondo le richieste o le disponibilità di ciascuna di esse, come previsto nella fattispecie del contratto di lavoro a chiamata o intermittente, o anche di part time verticale.


LA MANCATA EMISSIONE DELL’AUTOFATTURA IN RELAZIONE AD OPERAZIONI SOGGETTE AL MECCANISMO DEL REVERSE CHARGE COSTITUISCE VIOLAZIONE FORMALE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 20806 DEL 6 SETTEMBRE 2017

La Corte di Cassazione – Sezione tributaria-, sentenza n° 20806 del 6 settembre 2017, ha statuito che la mancata emissione dell’autofattura in relazione ad operazioni soggette al meccanismo del reverse charge costituisce violazione formale qualora l'operazione non sia stata occultata all’amministrazione finanziaria in quanto rinvenibile in altra documentazione contabile quale il libro giornale.

IL FATTO

L’Agenzia delle Entrate emetteva, a carico di un contribuente, un avviso di accertamento per la mancata emissione di un documento fiscale relativo al pagamento di royalties in favore di una società svizzera priva di stabile organizzazione e di rappresentazione fiscale sul territorio italiano in relazione ad un contratto di licenza d'uso di brevetto industriale posto in essere tra le due imprese. Secondo l'Agenzia il contribuente avrebbe dovuto invece assoggettare ad IVA i compensi corrisposti mediante emissione di autofattura, nel rispetto di quanto prescritto dal D.P.R. n.633/1972. 

A seguito di ricorso del contribuente la giustizia tributaria di merito, sia in primo che in secondo grado, accoglieva il ricorso, sull’assunto che il tipo di contratto posto in essere, qualificato quale licenza d’uso di brevetto di impresa, con corresponsione di una somma strettamente connessa al diritto di sfruttamento, era fuori dal campo di applicazione dell’IVA, in quanto non riguardava prestazioni di servizi verso corrispettivo dipendenti da obbligazioni di fare, di non fare o permettere.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte dell’Amministrazione Finanziaria.

Orbene, con la sentenza de qua, i Giudici delle Leggi hanno respinto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate confermando la decisione dei Giudici Tributari d’Appello, ma diversamente da quanto assunto dai Giudici Tributari, hanno chiarito che, secondo quanto espressamente fissato dall’art.3 co.2, del D.P.R. 633/72,  anche le cessioni, concessioni, licenze e simili relative ad invenzioni industriali, modelli, disegni, processi, formule e simili (cosiddetti know-how) i diritti di brevetti, i segni distintivi dell'impresa e dell'azienda o dei prodotti, royalties, ecc., sono prestazioni di servizi soggette a IVA in presenza dei requisiti soggettivi e territoriali.

Inoltre, uniformandosi a giurisprudenza esistente in materia, i Giudici di Piazza Cavour hanno chiarito che, nel caso in specie, non si potesse disconoscere il diritto alla detrazione dell’IVA per un mero errore formale (id. mancata emissione autofattura), e ciò per le seguenti motivazioni:

  • il diritto alla detrazione dell’imposta era connesso alla effettività dell’operazione (requisito sostanziale);
  • l'operazione non era stata occultata all’Amministrazione finanziaria, la quale non aveva trovato ostacoli alla ricostruzione del fatto gestionale risultante da altra documentazione contabile quale il libro giornale;
  • il risultato fiscale finale sarebbe stato comunque identico sul piano impositivo, non vi era evasione di IVA, per effetto della prevista neutralizzazione bilaterale dell’IVA in caso di emissione di autofattura.

 

IL LICENZIAMENTO O LE DIMISSIONI CAUSATE DA UN ESTRATTO CONTO SBAGLIATO RILASCIATO DALL’INPS VANNO RISARCITE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 23050 DEL 3 OTTOBRE 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 23050 del 3 ottobre 2017, ha statuito che nell’ipotesi in cui l’INPS abbia fornito all’assicurato una erronea indicazione in ordine al numero dei contributi versati, solo apparentemente sufficienti per fruire della pensione di anzianità, il danno sofferto dall’assicurato per la successiva interruzione del rapporto di lavoro, è riconducibile a responsabilità contrattuale dell’istituto, che risulta inadempiente all’obbligo di non frustrare la fiducia di soggetti titolari di interessi volti al conseguimento di beni essenziali della vita, riconducibile ai principi di correttezza, buona fede e imparzialità.

Il caso di specie riguarda un lavoratore che aveva aderito alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con la propria azienda, sulla scorta dell’estratto conto INPS, dal quale si evinceva che il ricorrente aveva già maturato i contributi e gli anni di lavoro necessari per avere diritto al trattamento pensionistico. All’atto della presentazione della domanda di pensionamento, ex adverso, l’Istituto di Previdenza si accorgeva di aver sbagliato i calcoli e rigettava la richiesta.

I Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, confermando in toto precedenti giudizi (Cass. sent. n. 3195/2012 e sent. n. 21454/13), ha definitivamente chiarito che il lavoratore, con la convinzione di avere i contributi per andare in pensione, che si dimette o accetta il licenziamento dell’azienda, mentre invece il calcolo fornito nell’estratto conto dell’INPS è errato, ha diritto ad essere risarcito dall’Istituto stesso. L’ente previdenziale deve quindi versargli tutti i contributi necessari per raggiungere l’anzianità contributiva e poter conseguire l’assegno mensile.

In nuce, per la S.C., l’Istituto di Previdenza ha l’obbligo di non fornire informazioni errate su beni essenziali della vita come il diritto alla quiescenza visto che ha poteri di indagine e certificazione, e l’estratto conto non può considerarsi come un qualsiasi documento informale, privo del valore di certificato solo perché la richiesta viene fatta on line o allo sportello. Del resto, non sono necessarie forme particolari per la richiesta o per il rilascio ai cittadini dei dati ufficiali detenuti dall’INPS e che l’ente deve fornire obbligatoriamente per legge.

 

IL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE DEVE RISPETTARE IL PRINCIPIO DI IMMEDIATEZZA, PUR SE IL COMPORTAMENTO CENSURATO E’ OGGETTO DI UN PROCEDIMENTO PENALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 23177 DEL 4 OTTOBRE 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 23177 del 4 ottobre 2017, ha chiarito che il licenziamento disciplinare  comminato a distanza di tempo, recte dopo la condanna penale della lavoratrice, non può ritenersi valido in quanto difetta del principio di immediatezza.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Roma, a riforma della sentenza emessa dal Tribunale di primo grado, riteneva illegittimo un licenziamento comminato ad una lavoratrice in seguito alla condanna penale per detenzione di banconote false ed utilizzo delle stesse presso un ambulante.  La società, infatti, sin dal 2007 era venuta a conoscenza del provvedimento penale in corso e fino al 2010 non aveva adottato alcun provvedimento nemmeno di sospensione cautelare.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini hanno confermato il ragionamento logico giuridico dei Giudici dell’Appello, in quanto è risultato confermato che la sentenza era passata in giudicato il 15/03/2009 ed in data  14/04/2009 era stata ritirata una copia  dall’azienda senza il timbro di irrevocabilità.

La Corte, in particolare, ha precisato che la mancanza della data sulla copia della sentenza, quale attestazione del passato in giudicato, non poteva esimere l’azienda dal contestare gli addebiti con immediatezza, principio quest’ultimo non rispettato atteso il fatto che il procedimento disciplinare era stato istruito solo a febbraio 2010, con conseguente successivo recesso nel mese di marzo.

Inoltre, l’azienda ha anche lasciato la dipendente nel medesimo posto di lavoro per tutta la durata del procedimento penale senza adoperarsi con alcun provvedimento nemmeno di sospensione cautelativa, generando un giusto affidamento da parte della lavoratrice circa l’irrilevanza disciplinare dei fatti.

In conclusione, considerata la separazione ed autonomia dei due procedimenti giurisdizionali, il datore di lavoro deve comunque comportarsi secondo buona fede garantendo il diritto di difesa del lavoratore.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

 

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Modificato: 16 Ottobre 2017