4 Ottobre 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LICENZIAMENTI COLLETTIVI E CRITERI DI SCELTA. QUELLO DEL “PENSIONABILITA’” È LEGITTIMO ANCORCHE’ COINCIDENTE ESATTAMENTE CON IL NUMERO DEI LAVORATORI IN ESUBERO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 10995 DEL 26 APRILE 2021

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 10995/2021, depositata il 26 aprile, ha statuito la legittimità del licenziamento collettivo messo in atto da un’azienda per la riduzione del personale in esubero ritenendo sufficiente, nella comunicazione dei licenziati, il riferimento all’elenco dei lavoratori in esubero, in applicazione del criterio della pensionabilità, esattamente coincidenti con il numero dei dipendenti licenziabili.

Nel Caso in esame, un dipendente contestava la procedura di licenziamento collettivo per riduzione del personale conclusasi con la risoluzione del rapporto di lavoro di quindici dipendenti, impugnando il recesso. Sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello confermavano la legittimità del provvedimento; in particolare, i Giudici di secondo grado rilevavano che nell’accordo sindacale, approvato anche dalle assemblee dei lavoratori, le parti avevano circoscritto il nucleo dei lavoratori interessati alla applicazione del criterio del pensionamento, riferito ai dipendenti nati prima dell’1 gennaio 1965 e che l’esito delle verifiche, a cui avevano titolo a partecipare le organizzazioni sindacali e la R.S.U. di cui il lavoratore era componente, aveva condotto all’accertamento della coincidenza dei lavoratori licenziabili in base al criterio adottato con il numero degli esuberi. Risultava, pertanto, superfluo il ricorso alla indicazione di ulteriori parametri selettivi da inserire nella comunicazione.

Avverso tale pronuncia il lavoratore ricorreva in Cassazione, sostenendo che la comunicazione inviata non poteva essere ritenuta sufficiente, vista la mancata indicazione per iscritto di un elenco nominativo dei lavoratori licenziati e delle “informazioni idonee a rendere comprensibili al lavoratore le ragioni della scelta del personale da esodare”.

I Giudici, pur rimarcando che in materia di licenziamenti collettivi la determinazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, sanzionato dalla L. n. 300 del 1970, art. 15, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell’obiettività e della generalità e devono essere coerenti con il fine dell’istituto della mobilità dei lavoratori, ritenevano “razionalmente adeguato il criterio della prossimità al trattamento pensionistico, stante la giustificazione costituita dal minore impatto sociale dell’operazione”. Evidenziavano, inoltre, che l’indicazione dell’elenco dei dipendenti in esubero, in applicazione del criterio della pensionabilità, esattamente coincidente con il numero del personale licenziabile, era idonea a consentire la puntuale verifica delle modalità di applicazione del criterio stabilito. Già in passato la Suprema Corte aveva ritenuta corretta la comunicazione indicante specificamente, come criterio di scelta, il possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione di anzianità o vecchiaia, la cui natura oggettiva rendeva superflua la comparazione con i lavoratori privi del requisito stesso. In questo caso specifico il criterio della prossimità al pensionamento veniva correttamente applicato, in quanto idoneo a formare una graduatoria rigida senza alcun margine di discrezionalità da parte datoriale nella individuazione dei lavoratori da licenziare.

In conclusione, gli Ermellini ritenendo che la comunicazione contenente l’indicazione dei soggetti licenziati fosse sufficiente a dar conto delle ragioni della scelta, senza, quindi, la necessità di ulteriori comparazioni fra lavoratori tali da imporre un obbligo di puntuale comunicazione, data anche la coincidenza del numero del personale licenziabile con quello effettivamente licenziato, rigettavano il ricorso e dichiaravano legittimo il licenziamento.

 

PER LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE L’ASSEGNO VERSATO SUL CONTO CORRENTE DEL CONTRIBUENTE PUÒ SEMPRE ESSERE IMPUTATO A RICAVI IN NERO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 24238 DEL 8 SETTEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.24238 del 8/09/2021, ha statuito che l'assegno circolare versato sul conto corrente dell'imprenditore ovvero del professionista può sempre essere imputato dal fisco come un ricavo in nero, a prescindere dalla circostanza che la Banca, per motivi privacy, si rifiuti di rivelare chi emette il titolo.  

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, hanno accolto le doglianze dell'Agenzia delle Entrate, in seguito ad un accertamento emesso nei confronti di un contribuente che aveva versato un assegno circolare di 52 mila euro imputandolo a una cessione di quote e quindi non riconducibile a suoi introiti imprenditoriali, ma costituente il corrispettivo a lui versato per la vendita delle suddette quote aziendali.

Con l’ordinanza de qua, gli Ermellini, hanno evidenziato che in presenza di accertamenti bancari svolti, è onere esclusivo del contribuente imprenditore dimostrare che i proventi desumibili dalle movimentazioni bancarie non debbano essere recuperati a tassazione ovvero per averne egli già tenuto conto nelle dichiarazioni ovvero perché fiscalmente non rilevanti, siccome non riferibili ad operazioni imponibili.

Ex adverso, l'onere dell'Amministrazione Finanziaria di provare la sua pretesa è soddisfatto attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti bancari, restando a carico del contribuente quello di provare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non siano riferibili a operazioni imponibili, fornendo una prova non generica, ma analitica, ergo riferita ad ogni singolo versamento bancario.

In nuce, per la S.C., non è sufficiente che detta operazione di vendita risultasse annotata sul libro soci e neppure è esaustivo che il contribuente abbia documentalmente provato che la banca, per motivi di privacy, non gli avesse rivelato l'emittente dell'assegno circolare in questione.

 

 

NON È DOVUTA L’INDENNITA’ DI VACANZA CONTRATTUALE SE L’AZIENDA APPARTIENE AD UN SETTORE IN CRISI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 24483 DEL 10 SETTEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n. 24483 del 10 settembre 2021, afferma la non spettanza dell’indennità di vacanza contrattuale se l’azienda appartiene ad un settore in crisi economico – finanziaria.

Nel caso de quo tre dipendenti ricorrevano in Tribunale contro il datore di lavoro per richiedere il pagamento dell’indennità di vacanza contrattuale, relativa al contratto collettivo applicato in azienda. Se in primo grado la domanda veniva rigettata, in secondo grado i Giudici della Corte d’Appello accoglievano il ricorso, condannando il datore di lavoro al pagamento delle somme dovute, sul presupposto che la condizione apposta  nell’accordo concluso tra  le parti sociali (che prevedeva la soddisfazione di tale diritto, definito inderogabile,  solo al superamento della grave condizione economico finanziaria in cui versava il settore) era da ritenersi mera condizione potestativa e pertanto nulla ex art. 1355 c.c. Il datore di lavoro ricorreva perciò in Cassazione.

La Suprema Corte, riferendosi alle motivazioni addotte nel decisum dalla Corte distrettuale, afferma che l’elemento letterale secondo il quale l’indennità di vacanza contrattuale sarebbe stato definito dalle stesse parti come un diritto inderogabile dei lavoratori, non vada inteso in senso assoluto, ma al contrario la comune intenzione delle parti debba essere desunta da un esame complessivo delle diverse clausole inserite e del comportamento successivo delle parti. Tali regole sono tanto più necessarie con riferimento agli accordi sindacali, giacché in detta materia vi sono anche ulteriori elementi obiettivi che devono essere adeguatamente valorizzati, nel caso in oggetto la oggettiva situazione di crisi del settore. Inoltre, i Giudici di legittimità affermano che la condizione inserita all’interno dell’accordo siglato dalle parti sociali non rappresenta una condizione meramente potestativa, giacché questa si configura solo quando l’inadempimento o l’omissione dipenda dal mero arbitrio di una parte e non da seri ed apprezzabili motivi. Nel caso in oggetto, invece, la condizione era sottoposta al realizzarsi di un evento collegato a valutazioni di interesse e si presentava come alternativa capace di soddisfare anche l’interesse proprio del contraente. Per le ragioni esposte, la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso del datore di lavoro, cassa la sentenza e rinvia alla Corte d’Appello in altra composizione.

 

LE IMPOSTE VERSATE IN ECCEDENZA DAL SOSTITUTO D’IMPOSTA POSSONO ESSERE RECUPERATE DAL SOSTITUITO MEDIANTE RIMBORSO DIRETTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 24650 DEL 14 SETTEMBRE 2021.

La Corte di Cassazione – sentenza n. 24650 del 17 agosto 2021 – ha confermato la valenza dell’alternatività tra rimborso diretto e deducibilità delle somme restituite al soggetto erogatore (id. sostituto d’imposta) se assoggettate a tassazione in anni precedenti.

Nel caso in esame, un contribuente aveva richiesto con procedura ex art. 38 DPR 602/1973 all’Agenzia delle Entrate la ripetizione delle somme trattenute da un sostituto d’imposta su un’integrazione TFR da lui percepita, ma che poi aveva dovuto restituire integralmente al sostituto d’imposta a seguito di riforma di un giudizio civile. L’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate competente aveva rifiutato il rimborso diretto, avuto riguardo alla anteriore formulazione dell’art. 10 TUIR, che prevedeva come unico rimedio la deduzione dai redditi degli emolumenti restituiti nell’anno in cui avviene la restituzione, ovvero negli anni successivi, e il contribuente, ricorrendo alla giustizia tributaria, aveva visto valere le proprie ragioni sia in primo che in secondo grado.

Per la cassazione della sentenza l'Agenzia delle Entrate ha proposto ulteriore ricorso.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso confermando che in relazione al tema delle imposte trattenute dal sostituto d’imposta,  il novello disposto dell’art.10 comma 1 lett d)bis del TUIR, a seguito delle modifiche operate dall’art.1 comma 174 della legge 147/2013, a valere dal periodo d’imposta 2013, poneva rimedio all’impossibilità per alcuni contribuenti di recuperare per intero, mediante il meccanismo dell’onere deducibile, le imposte trattenute e non dovute, avuto riguardo al reddito imponibile del contribuente stesso. Tale impossibilità non esclude, ma anzi legittima, il ricorso alla procedura di rimborso previsto dall’art.38 del DPR 602/1973, dal momento che, essendo il sistema delle deduzioni virtuale (e come innanzi specificato dipendente da redditi da portare a tassazione), nell’ipotesi di assenza o carenza di redditi nell’anno della restituzione o negli anni successivi rimarrebbe solo una perdita con conseguente indebito arricchimento da parte dell’Erario.

Evidenzia infatti la Corte che l’azione di restituzione e riduzione in pristino, che venga proposta a seguito della riforma o cassazione della sentenza contenente il titolo del pagamento (nel caso l’annullamento della sentenza civile che aveva previsto la corresponsione di un’integrazione del T.F.R.) si collega ad un’esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale anteriore a detta sentenza.

Osservano infine gli Ermellini, in risposta alla presunta omissione di fatti decisivi per il giudizio lamentata dall’Agenzia delle Entrate, relativamente alla mancata esibizione della prova dell’avvenuta integrale restituzione al sostituto dell’importo al lordo delle ritenute effettuate, che tale censura è inammissibile. Dalla riconosciuta alternatività della legittimazione ad agire (sostituto o sostituito) per la ripetizione delle imposte indebitamente versate discende la sostanziale autonomia dei rapporti rispetto al fisco, e quindi la mancanza di interesse specifico dell’Agenzia per detto rapporto tra le parti.

 

IL DIPENDENTE DEL PUBBLICO IMPIEGO (PRVATIZZATO) HA DIRITTO, IN CASO DI REITERAZIONE ILLEGITTIMA DI CONTRATTI A TERMINE, AL RISARCIMENTO DEL DANNO NELLA MISURA DI CUI ALL’ART. 32 COMMA 5 DELLA L. 183/2010

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 25406 DEL 20 SETTEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n. 25406 del 20 settembre 2021, ha statuito che, nel pubblico impiego privatizzato, il risarcimento del danno derivante dall’apposizione di un termine di durata illegittimo, oltre a non determinare la conversione in un contratto a tempo indeterminato, va commisurato sulla base della previsione di cui all’art. 32 comma 5 della L. 183/2010 (da 2,5 a 12 mensilità).

Nel caso in esame, i Giudici della Corte di cassazione, aditi da un lavoratore al quale erano state riconosciute 3 mensilità della retribuzione dalla Corte di Appello di Messina a seguito della declaratoria di illegittimità dell’apposizione del termine a diversi contratti succedutisi nel tempo, hanno riformato il decisum della Corte distrettuale, precisando che il risarcimento andava commisurata tenendo presente quanto disposto dall’art. 32 del “Collegato Lavoro” (L. 183/2020).

Infatti, gli Ermellini, in conformità con la decisione delle SS.UU. n° 5072/2016, hanno (ri)affermato il seguente principio di diritto, in base al quale “nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione, il dipendente che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto da d.lgs. 165/2001 art. 36 c. 5, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall'onere probatorio nella misura e nei limiti di cui alla L. 183/2010 art. 32, comma 5, e quindi nella misura pari ad un'indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 604/66 art. 8”.

 

Ad maiora

IL PRESIDENTE

EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 4 Ottobre 2021