15 Ottobre 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

L’ESPLETAMENTO DI ATTIVITA’ LAVORATIVA DURANTE LA MALATTIA NON GIUSTIFICA IL LICENZIAMENTO SE LO STESSO NON PREGIUDICA LA NORMALE GUARIGIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 24116 DEL 03 OTTOBRE 2018.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 24116 del 3 ottobre 2018, ha nuovamente affermato che l’espletamento di attività lavorativa durante l’assenza per malattia non è da solo sufficiente a legittimare il licenziamento essendo a tal fine necessario dimostrare che l’attività svolta abbia procrastinato la guarigione del dipendente.

Nel caso in disamina, un lavoratore veniva licenziato in quanto, durante l’assenza dal lavoro a causa di uno stato di malattia, veniva “pizzicato” dagli investigatori, incaricati dal proprio datore di lavoro, a svolgere alcune attività lavorative. Il prestatore adiva la Magistratura dimostrando che le attività poste in essere durante la malattia erano del tutto sporadiche e non avevano comportato ripercussioni sulla normale guarigione.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, il datore di lavoro ricorreva in Cassazione.

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, nel dichiarare il ricorso inammissibile in quanto il deliberato di prime cure era correttamente, logicamente ed ampiamente motivato, hanno colto l’occasione per rimarcare che, affinché possa essere ritenuto legittimo il licenziamento del dipendente che durante la malattia espleta attività lavorativa è necessario dimostrare che le attività poste in essere siano pregiudizievoli della corretta e rapida guarigione.

Pertanto, atteso che nel caso de quo il dipendente aveva dimostrato la sporadicità delle attività extra lavorative espletate e la loro ininfluenza sulla corretta guarigione, gli Ermellini hanno rigettato il ricorso attese le ampie ed esaustive motivazioni enunciate dai Giudici di merito.

 

E’ LEGITTIMO UTILIZZARE I PERMESSI DELLA L.104/92 PER TUTTE QUELLE ATTIVITÀ CHE L’ASSISTITO NON PUÒ SVOLGERE DA SOLO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 23891 DEL 2 OTTOBRE 2018

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 23891 del 2 ottobre 2018, ha statuito che il lavoratore ha diritto di utilizzare i permessi ottenuti, ex art. 33 della L. 104/1992, non solo per la mera assistenza personale del parente disabile presso l’abitazione dello stesso, ma anche per compiere tutta una serie di attività che il portatore di handicap non può svolgere da solo.

Con l’Ordinanza de qua, i Giudici di piazza Cavour, confermando in toto il decisum dei Giudici Territoriali, hanno accolto il ricorso di un lavoratore avverso il licenziamento per giusta causa, escludendo categoricamente che vi sia stata una finalizzazione a scopi personali delle ore di permesso di cui alla L.104/92 da parte del dipendente ricorrente che, durante l'assenza dal lavoro, aveva fatto la spesa, utilizzato lo sportello Postamat, incontrato un geometra e un architetto, in quanto tali attività, in base alle prove raccolte, erano da ricollegare a specifici interessi e utilità dei congiunti assistiti.

 E’ opportuno ricordare, come ribadito in molte sentenze dalla stessa S.C. che, quando il lavoratore si avvale dei permessi ex legge 104/92 non per assistere il familiare disabile ma per dedicarsi ad altre attività personali, pone in essere un comportamento che integra l'ipotesi dell'abuso di diritto. La sua condotta, infatti, è lesiva della buona fede e priva ingiustamente il datore di lavoro della prestazione lavorativa, e nei confronti dell'ente di previdenza tale comportamento si configura come un'indebita percezione dell'indennità e uno sviamento dell'intervento assistenziale.

Nello specifico, sebbene l'utilizzo dei permessi a scopo personale sia una condotta censurabile e connotata da disvalore sociale, non può comunque ritenersi che l'assistenza al familiare disabile, alla base dei permessi previsti dalla Legge 104/92, debba essere intesa solo come assistenza personale presso il suo domicilio.

In nuce, per i Giudici del Palazzaccio, rientrano tra le attività che si possono compiere durante i permessi de quibus, e che non legittimano il licenziamento per giusta causa del dipendente, anche il compiere commissioni di vario genere nell'interesse dell'assistito.

 

E' LEGITTIMA L'ACQUISIZIONE DI DOCUMENTAZIONE DURANTE UNA VERIFICA FISCALE SE AVVIENE CON L'AUTORIZZAZIONE DI UN DIPENDENTE DELL'AZIENDA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 24306 DEL 4 OTTOBRE 2018.

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 24306 del 4 ottobre 2018, ha statuito che l'autorizzazione preventiva del Procuratore della Repubblica all'apertura di pieghi sigillati e simili, durante una verifica fiscale, è richiesta soltanto in caso di "apertura coattiva".

Nella vicenda in esame, nell'ambito di una verifica fiscale ad opera dell'Agenzia delle Entrate presso la sede di una società, era emersa l'esistenza di documentazione relativa ad un conto corrente bancario intestato ad una persona fisica ove erano transitate operazioni riconducibili alla società contribuente. La documentazione era stata rinvenuta mercé l'apertura di una borsa chiusa previa autorizzazione di una dipendente non delegata a prestare assistenza durante le indagini. Sulla scorta della documentazione rinvenuta, l'Agenzia delle Entrate provvedeva all'emissione di avvisi di accertamento a carico della società con i quali erano stati recuperati a tassazione ricavi non dichiarati.

La Commissione tributaria regionale del Veneto, ribaltando il giudizio di primo grado, aveva accolto l'appello della contribuente dichiarando privi di fondamento gli avvisi di accertamento ed evidenziando la condotta illegittima dell'Agenzia delle Entrate in ordine all'apertura della borsa contenente le informazioni poste a base dell'accertamento, in quanto priva della necessaria autorizzazione del Procuratore della Repubblica ex art. 52, terzo comma, D.P.R. n°633/72.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'Agenzia delle Entrate.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata, rinviando alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione.

In particolare, hanno ribadito gli Ermellini, l'autorizzazione del Procuratore della Repubblica all'apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti e mobili in genere, prescritta dall'art. 52, terzo comma, D.P.R. n°633/72 (e necessaria anche in tema di imposte dirette, in virtù del richiamo contenuto nell'art. 33, D.P.R. n°600/73), è richiesta solo nel caso di "apertura coattiva" e non anche quando l'attività di ricerca si svolga con la collaborazione del contribuente. Conseguentemente, deve ritenersi legittima l'acquisizione di documentazione custodita all'interno di una borsa rinvenuta in sede di verifica fiscale laddove, come nel caso in esame, l'apertura della stessa è avvenuta con l'autorizzazione di un dipendente dell'impresa in verifica e, comunque, senza che sia stata sollevata alcuna contestazione specifica in sede di dichiarazione resa a chiusura della verifica medesima.

 

L’ENTITÀ ELEVATA DEI COMPENSI CORRISPOSTI DAL CONTRIBUENTE AD UN ALTRO PROFESSIONISTA NON FA SCATTARE AUTOMATICAMENTE L’IMPOSIZIONE IRAP

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 21762 DEL 7 SETTEMBRE 2018

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21762 del 7 settembre 2018, ha statuito che un compenso elevato corrisposto dal contribuente ad un altro professionista non fa scattare in automatico l’imposizione IRAP.

Nel caso in specie, a carico di un professionista l’Agenzia delle Entrate aveva provveduto ad emettere tre avvisi di accertamento ai fini IRAP in quanto riteneva sussistente in capo al professionista il presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione per la corresponsione a terzi di compensi elevati.

I suddetti avvisi venivano prontamente impugnati dinanzi alla giustizia tributaria da parte del professionista. La C.T.P. accoglieva il ricorso, mentre il Giudice d’Appello accoglieva l’appello dell’Agenzia delle Entrate ritenendo sussistente il presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione causa la corresponsione di elevati compensi a terzi, pur se riferiti a prestazioni estranee alle competenze professionali del contribuente.

Da qui, il ricorso per Cassazione da parte del professionista che poneva quale motivo di gravame principale la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2 e 3 del D.Lgs. n. 446/1997 e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. nella parte in cui la sentenza impugnata aveva ritenuto la sussistenza del requisito dell’autonoma organizzazione, quale presupposto impositivo dell’IRAP, desumendolo in sostanza da un’unica circostanza, l’entità dei compensi corrisposti a terzi per importi compresi nel triennio di riferimento tra i ventimila ed i trentamila euro annui, anche in rapporto all’entità dei compensi di poco eccedenti i centomila euro annui nell’arco temporale di riferimento.

I Giudici di Piazza Cavour, nel ritenere fondato il motivo di gravame opposto dal ricorrente, hanno preliminarmente evidenziato come la sentenza d’appello si ponesse in contrasto con giurisprudenza di legittimità esistente in materia secondo cui l’entità anche elevata di compenso corrisposto dal contribuente ad altro professionista non fa scattare automaticamente l’imposizione IRAP (cfr. Cass. n. 16368/17, Cass. n. 20610/16); nè è di per sé indice della sussistenza del requisito dell’autonoma organizzazione il valore dei costi, anche nel rapporto percentuale degli stessi con i ricavi (cfr. Cass. n. 4851/18 e Cass. n. 4783/18).

Infine, hanno concluso gli Ermellini, “l’essere poi i compensi oggettivamente riferiti ad attività che vanno oltre le competenze professionali proprie del geometra induce a ritenere che non necessitino ulteriori accertamenti per cui la causa poteva essere pertanto decisa nel merito ai fini della decisione di accoglimento dell'originario ricorso del contribuente”.

Per tutto quanto sopra, la sentenza impugnata è stata cassata con condanna alle spese del giudizio di legittimità a carico dell’Amministrazione finanziaria. 

 

IL LICENZIAMENTO DEL DIRIGENTE E’ ESCLUSO DALLA DISCIPLINA PREVISTA DALLA LEGGE 604/66

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 23894 DEL 2 OTTOBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 23894 del 2 Ottobre 2018, ha statuito che la disciplina prevista in materia di licenziamenti dalla Legge 604/1966, in ordine alla specificazione dei motivi ed ai presupposti oggettivi e soggettivi, non è applicabile alla categoria del dirigente.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Roma, a conferma della sentenza di primo grado del Tribunale di Roma, condannava l’azienda al pagamento delle indennità supplementari pari a 15 mensilità, come previsto dal CCNL dei Dirigenti. I Giudici dell’Appello giungevano a tale conclusione sul presupposto che la lettera di licenziamento era troppo generica al punto tale da non consentire una verifica sulla fondatezza delle ragioni. Aggiungendo poi, che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo impone che le scelte del datore di lavoro debbano essere riscontrate oggettivamente, nonché dimostrare l’impossibilità al repechage del lavoratore.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini hanno bacchettato i Giudici di merito e, per l’effetto, hanno accolto il ricorso dell’azienda. Hanno, infatti, chiarito che l’art. 10 della Legge 604/66 non elenca i dirigenti fra le categorie a cui si applica la norma. Di conseguenza, la disciplina prevista dall’art. 2, comma 2 circa le motivazioni del licenziamento e dall’art. 3 circa i presupposti di giustificazione soggettivi ed oggettivi del licenziamento, non sono applicabili alla categoria del dirigente.

Inoltre, proprio per tale esclusione dei dirigenti, la nozione di “giusitificatezza” prevista dalla fonte contrattuale non coincide con la definizione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, bensì fa solo riferimento al rispetto dei principi di buona fede e correttezza. Laddove, poi, la contrattazione collettiva dovesse prevedere l’indicazione delle motivazioni, ben potrà il datore di lavoro integrare o esplicitare le stesse nell’ambito del giudizio.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 15 Ottobre 2018