19 Ottobre 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI SETTEMBRE 2020

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Settembre 2020. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Settembre 2020 è pari a 1,125 e l’indice Istat è 101,90

 

L’OBBLIGAZIONE CONTRIBUTIVA E’ INDIPENDENTE DA QUELLA RETRIBUTIVA, DONDE VA SEMPRE VERSATA LA CONTRIBUZIONE DI CUI AL MINIMALE L. 389/89

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21479 DEL 6 OTTOBRE 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21479 del 6 ottobre 2020, ha (ri)statuito l’ormai noto e consolidato principio per il quale l’obbligazione contributiva, essendo prevista ope legis, è indipendente e, per l’effetto, non risente delle differenti pattuizioni intervenute fra datore di lavoro e lavoratore in ordine al ridotto pagamento della retribuzione.

I Giudici di Piazza Cavour, ripercorrendo un orientamento ormai granitico (ex pluribus, sentenza n° 3491/2014), hanno accolto i motivi dell’Inps e, dunque, cassato la sentenza della Corte di Appello di Bologna che, riformando quella in primo grado del Tribunale di Forlì, aveva dato ragione alla società che si era opposta al verbale di accertamento dell’Istituto previdenziale.

La vicenda nasceva dall’accordo fra datore e lavoratori di ridurre la retribuzione in ragione di una attenuazione e, in alcuni casi, della cessazione temporanea delle attività lavorative e, pertanto, era stata, sul ridotto importo, specularmente assolta la relativa obbligazione contributiva.

Gli Ermellini, infatti, hanno precisato che, dal principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto alle vicende dell'obbligazione retributiva, deriva la regola del cd. “minimale contributivo”, che prevede l'obbligo datoriale – a prescindere da eventuali pattuizioni individuali difformi nell'ambito del rapporto di lavoro – di rispetto della misura dell'obbligo contributivo previdenziale in riferimento ad una retribuzione commisurata ad un numero di ore settimanali non inferiore all'orario normale di lavoro stabilito dalla contrattazione collettiva.

Ne deriva che la contribuzione è dovuta anche in caso di assenze o di sospensione concordata della prestazione che non trovino giustificazione nella legge o nel contratto collettivo, bensì in un accordo tra le parti che derivi da una libera scelta del datore di lavoro.

Va infatti esclusa la libertà delle parti di modulare l'orario di lavoro e la stessa presenza al lavoro con effetto sull'obbligazione contributiva, considerato che quest'ultima è svincolata dalla retribuzione effettivamente corrisposta e dev'essere connotata dai caratteri di predeterminabilità, oggettività e possibilità di controllo.

Detto principio, hanno concluso i Supremi Giudici, vale anche nel caso di attenuazione o cessazione temporanea dell'attività lavorativa per insussistenza di commesse, essendo tali eventi ricompresi nell'ambito del rischio imprenditoriale che grava sul datore di lavoro in via esclusiva, senza che ciò possa riflettersi sull'obbligo contributivo.

 

IL RICONOSCIMENTO DEL DIRITTO A GODERE DI PERMESSI STRAORDINARI E RETRIBUITI PER MOTIVI DI STUDIO SCONTA IL LIMITE DELLA DURATA LEGALE DEL CORSO DI STUDI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 19610 DEL 18 SETTEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 19610 del 18 settembre 2020, ha statuito che il diritto a godere di permessi studio da parte dei lavoratori è riservato ad un numero delimitato di anni, ovvero quelli coincidenti con il corso legale di studi.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Bologna, in conferma della pronuncia di primo grado del Tribunale di Ravenna, aveva respinto la domanda di un lavoratore volta al riconoscimento del diritto a godere di permessi straordinari e retribuiti per motivi di studio, anche oltre la durata prevista del relativo corso di studi. La Corte di merito, invero, concordando con il Giudice di primo grado, aveva escluso che la previsione di cui all'art. 28 del CCNL Federcasa riconoscesse permessi studio retribuiti anche ai lavoratori studenti cd. "fuori corso", e aveva ritenuto che la concessione dei permessi fosse limitata al solo periodo di frequenza nell'ambito degli anni di durata legale del corso di studi.

Avverso tale sentenza, ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore sostenendo che l'art. 28 in questione non recava una puntuale specificazione (id: distinzione) circa la preclusione al diritto, con riferimento agli studenti "fuori corso".

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso evidenziando che la norma contrattuale (id: art. 28 ccnl) costituisse la specificazione del diritto riconosciuto dalla L. 20 maggio 1970, n°300, art. 10, comma 2, che prevede il diritto dei lavoratori studenti, compresi quelli universitari, che devono sostenere prove di esami, di fruire di permessi giornalieri retribuiti.

Tale generale diritto costituisce oggetto di interpretazione ormai consolidata da parte della Suprema Corte che ha già chiarito (Cfr. Cass n°52/1985) come l'art. 10 deve essere inteso nel senso che quel diritto spetta a tutti i lavoratori che intendono dedicarsi allo studio per conseguire la possibilità di affrontare, senza remore di carattere economico, gli esami, per ottenere titoli riconosciuti dall'ordinamento giuridico statale, senza che la categoria dei soggetti legittimati possa essere limitata ai soli studenti iscritti e frequentanti corsi regolari di studio in scuole statali, pareggiate o comunque abilitate al rilascio di titoli di studio legali.

La norma contrattale esaminata, hanno continuato gli Ermellini, risulta certamente di carattere migliorativo rispetto alla previsione contenuta nello Statuto dei lavoratori, poiché attribuisce il diritto ad ottenere permessi anche per la frequenza di corsi, e non solo per sostenere gli esami, tuttavia sottoponendo tale diritto a limiti numerici (id: numero massimo di dipendenti richiedenti) e numero di ore fruibili.

Sul punto, hanno concluso gli Ermellini, la Corte di merito ha giustamente posto in rilievo che la norma dell'art. 28 si riferisce alla "frequenza" di corsi di studio universitari, attività chiaramente riservata ad un numero delimitato di anni, quelli coincidenti con il corso legale di studi, non potendo essere riconosciuto al lavoratore il diritto a permessi retribuiti per seguire le lezioni senza limiti, cioè al di fuori della durata legale del corso e a prescindere dal superamento o meno degli esami sostenuti per i corsi seguiti.

 

L'ACCERTAMENTO FISCALE PRECLUDE IL DISPOSITIVO PREMIALE DEL RAVVEDIMENTO OPEROSO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 24589 DEL 31 AGOSTO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 24589  del 31 agosto 2020, ha statuito che il contribuente italiano che abbia vinto somme di denaro al Casinò del Principato di Montecarlo, le deve esporre integralmente nella sua dichiarazione dei redditi in Italia, e l'integrale pagamento del debito tributario, conseguente l'accertamento effettuato nei suoi confronti dall'Agenzia delle Entrate, non consente l'applicazione del dispositivo premiale contemplato dall'art. 13, D.lgs n. 74 del 2000, per via del fatto che il ravvedimento operoso era stato richiesto dopo l'avvio del procedimento.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno rigettato le doglianze di un contribuente, condannandolo alla pena condizionalmente sospesa di un anno di reclusione in quanto responsabile del reato di cui all’art. 4 del D.lgs. 74/2000 per aver indicato nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno di imposta 2010, al fine di evadere la relativa imposta, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, costituito dalla somma di € 1.339.955 relativa alle vincite conseguite presso il Casinò di Montecarlo, e superiore al 10% di quelli indicati in dichiarazione.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini, hanno ricordato che l'art. 67 del DPR n.917/86 annovera tra i redditi diversi alla lettera d, le «vincite delle lotterie, dei concorsi a premio, dei giochi e delle scommesse organizzate per il pubblico (…)», e che tali redditi concorrono a formare il reddito complessivo per l'intero ammontare, senza alcuna deduzione, mentre l'art. 30 del DPR 600/1973 fissava l'obbligo di effettuazione della ritenuta, distinguendo allora tra le vincite corrisposte tra «chiunque organizza intrattenimenti, giochi e altre attività» e case da gioco. Infatti, ai sensi dell'ultimo comma del citato art. 30, recita la sentenza in commento, «se le vincite erano corrisposte da case da gioco italiane, l'imposta era compresa in quella sostitutiva dovuta dalla casa da gioco ed assolta direttamente ed esclusivamente da essa», cioè quella dell'art. 3, DPR n. 640/1972.

I Giudici di Legittimità hanno inoltre evidenziato che, sino all'introduzione della Legge n. 122/2016, che con l'art. 6 ha abrogato l'ultimo comma dell'art. 30 del Dpr 600/1973 fino allora vigente, introducendo il comma 1 bis all’art. 69 del Tuir, per cui «Le vincite corrisposte da case da gioco autorizzate nello Stato o negli altri Stati membri dell'Unione europea o in uno Stato aderente all'Accordo sullo Spazio economico europeo non concorrono a formare il reddito per l'intero ammontare percepito nel periodo di imposta». Pertanto, sia attualmente sia all'epoca dei fatti, solo per le vincite corrisposte dalle case da gioco autorizzate nello Stato o negli altri membri Ue le stesse non entrano a fare parte del reddito imponibile né soggiacciono a prelievi alla fonte per via dell'abrogazione dell'art. 30 ultimo comma prima richiamato.

In nuce, per la S.C., le vincite corrisposte da case da gioco situate al di fuori dello Stato italiano o degli altri Stati membri dell'Unione europea ovvero aderenti allo Spazio economico europeo «costituiscono reddito per l'intero ammontare percepito nel periodo di imposta, senza alcuna deduzione»


IMPUGNABILE LA CONCILIAZIONE CONCLUSA IN SEDE GIUDIZIALE PER QUEGLI ASPETTI NON COSTITUENTI IL PETITUM DEL CONTENZIOSO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 20913 DEL 30 SETTEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 20913 del 30 settembre 2020, ha statuito che la conciliazione intervenuta tra le parti, in sede giudiziale, non rientra nel regime di impugnabilità ex art. 2113 c.c., mentre possono essere esercitate le azioni di nullità ed annullabilità, seppure limitatamente a questioni non incluse nella domanda con la quale è stata avviata l’azione giudiziale.

Nel caso in oggetto, un lavoratore adiva il Tribunale per ottenere il riconoscimento del diritto all'inquadramento nella categoria superiore e la condanna del datore di lavoro al pagamento delle relative spettanze economiche, anche pregresse. Durante il giudizio di primo grado interveniva una transazione tra le parti, con cui venivano riconosciuti al lavoratore sia l’inquadramento che la retribuzione corrispondente. Successivamente, il datore di lavoro ricorreva in giudizio per chiedere la pronuncia dell’illegittimità degli atti amministrativi alla base della transazione. La Corte D’Appello accoglieva il ricorso del datore di lavoro, dichiarando la nullità della transazione e condannando il lavoratore alla restituzione di quanto percepito.

Il lavoratore ricorreva, quindi, in Cassazione.

La Suprema Corte, confermando la sentenza della Corte distrettuale, ha affermato che, benché la conciliazione giudiziale sia esclusa dal regime dell’impugnabilità previsto dall’art. 2113 c.c., resta possibile esperire le azioni di nullità ed annullabilità dei contratti per quei diritti che non siano stati oggetto della domanda azionata in giudizio; infatti, gli effetti del verbale di conciliazione, anche se stipulato in sede giudiziale non equivalgono ad una sentenza passata in giudicato, ma a quelli di un titolo contrattuale esecutivo, dalla cui natura deriva pertanto l’esperibilità delle ordinarie azioni di nullità ed annullabilità.

In particolare, i Giudici di Piazza Cavour hanno affermato che, per quanto riguarda i diritti già maturati dal lavoratore, la conciliazione integra una fattispecie di rinuncia agli stessi rispetto alla quale, se i diritti derivano da norme inderogabili, è ammessa la sola azione di annullabilità dell’atto, mentre per quanto riguarda i diritti non ancora maturati da parte del lavoratore, la preventiva transazione conclusa tra le parti può comportare la nullità della stessa.

Per le ragioni esposte, la Suprema Corte, confermando la nullità della conciliazione, ha rigettato il ricorso proposto dal lavoratore.


SUSSISTE SUBORDINAZIONE LADDOVE IL LAVORATORE SIA INSERITO NELL’ORGANIZZAZIONE DELL’IMPRENDITORE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21194 DEL 2 OTOBRE 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21194 del 2 ottobre 2020, ha (ri)statuito che il requisito principale e caratterizzante della subordinazione, in un rapporto di lavoro, è la prestazione dell’attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore, con inserimento nella sua organizzazione. Gli ulteriori elementi quali la continuità dell’attività, la sua corrispondenza ai fini dell’impresa e le modalità di erogazione della retribuzione hanno valore sussidiario.  

Di seguito i fatti.

Il Tribunale di Milano rigettava l’opposizione presentata da un lavoratore avverso il rigetto dell’impugnativa di licenziamento, ritenendo infondata la domanda volta ad ottenere il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con la controparte, ai fini della dichiarazione di nullità o illegittimità del licenziamento intimatogli.

L’adita Corte d’Appello, in totale riforma della decisione, accertava la natura subordinata del rapporto e dichiarava la nullità del licenziamento, ordinando la reintegrazione del lavoratore.

Avverso tale sentenza la società datrice di lavoro proponeva ricorso per cassazione, lamentando l’erroneo riconoscimento di un rapporto di natura subordinata, avendo il Giudice di seconde cure attribuito valore decisivo ad elementi compatibili anche con il lavoro autonomo, senza aver individuato l’elemento caratteristico della subordinazione, ossia l’assoggettamento gerarchico del lavoratore.

Il relativo motivo di ricorso si rivelava in parte infondato e in parte inammissibile. In particolare, la pronuncia impugnata è risultata conforme ai principi affermati dalla giurisprudenza in tema di individuazione della subordinazione, secondo cui il requisito principale è proprio la “prestazione dell’attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore e, perciò, con l’inserimento nella sua organizzazione”. Gli ulteriori elementi dell’attività lavorativa quali la continuità dell’attività, la rispondenza dei contenuti ai fini dell’impresa e le modalità di erogazione della retribuzione, invece, hanno valore sussidiario e devono dunque essere valutati come indici probatori della subordinazione.

La Suprema Corte, pertanto, ha rigettato il ricorso confermando la natura subordinata del rapporto.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO


(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

    Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Giusi Acampora e Michela Sequino

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Modificato: 19 Ottobre 2020