11 Ottobre 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

L’USO DEGLI STESSI LOCALI E I CONTI BANCARI COINTESTATI SONO IDONEI A PROVARE L’ESISTENZA DI UNA SOCIETÀ DI FATTO TRA PROFESSIONISTI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 24881 DEL 15 SETTEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.24881 del 15/09/2021, ha statuito che l'uso degli stessi locali e i conti correnti bancari cointestati provano inequivocabilmente l'esistenza di una società di fatto tra professionisti, e quindi lo svolgimento di un'attività imprenditoriale consociativa può essere desunta dal fisco anche con ricorso a indici presuntivi.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno pienamente confermato il decisum della commissione tributaria regionale espressasi negativamente sui ricorsi di due professionisti contro un accertamento fiscale emesso nei loro confronti dall'Agenzia delle Entrate, che aveva ritenuto sussistere una “società di fatto” tra gli stessi contribuenti. Nello specifico, la CTR, analizzando analiticamente la fattispecie, evidenziava come l'esistenza della società emergeva dall'attività in comune svolta dai due professionisti diretta alla costituzione di varie società di servizi, dall'uso degli stessi locali, nonché dall'esistenza di tre conti bancari cointestati, che i professionisti, nelle loro doglianze, ritenevano prove assolutamente insufficienti dell'organizzazione d'impresa e dell'attività realizzata, in altri termini non sarebbe stata sufficiente la mera apparenza esterna per dimostrare l'esistenza di una società di fatto.

Gli Ermellini, con l’ordinanza de qua, hanno evidenziato che in materia tributaria i criteri di identificazione della società di fatto sono diversi da quelli che assumono rilevanza nei rapporti di diritto privato, giacché in questi ultimi l'esigenza è quella di tutelare l'affidamento dei terzi, ex adverso, in materia fiscale, hanno sottolineato i Giudici, la prova della società di fatto può essere dedotta anche dalla presenza di indici presuntivi che rivelino l'esistenza di una struttura sovraindividuale indiscutibilmente consociativa.

In nuce la S.C., nel caso di specie, non solo ha evidenziato l'esistenza di una società di fatto che si manifestava come tale dinanzi ai terzi, ma ha anche accertato la presenza dei requisiti specifici (id: conferimento di beni, fondo comune, divisione di utili e perdite, affectio societatis), desumendoli da tre elementi indiziari, quali la gestione di varie società di servizi, i conti cointestati e l'uso dei medesimi locali per lo svolgimento dell'attività.


AI FINI DELLA CONFIGURABILITA' DEI REATI IN MATERIA DI IVA LA DETERMINAZIONE DELLA BASE IMPONIBILE E DELLA RELATIVA IMPOSTA EVASA DEVE AVVENIRE VALORIZZANDO I COSTI EFFETTIVAMENTE DOCUMENTATI ANCORCHE' NON CONTABILIZZATI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZ. PENALE – SENTENZA N. 34661 DEL 20 SETTEMBRE 2021.

La Corte di Cassazione – sentenza n°34661 del 20 settembre 2021 – ha confermato, in tema di reati tributari e verifica della soglia di punibilità, che la determinazione della base imponibile e della relativa imposta evasa deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Potenza, confermando la sentenza del Tribunale di Matera, aveva riconosciuto responsabile del reato ex art. 5 del D.Lgs. n°74/2000 un contribuente per avere omesso, nella qualità di titolare di ditta individuale, la presentazione delle dichiarazioni fiscali relative alle imposte dirette ed all'IVA, in tal modo evadendo, quanto meno, l'IVA in misura superiore alla soglia di punibilità. In sede di gravame i Gudici avevano altresì affermato che, non essendo stati documentati i costi affrontati dal contribuente per la produzione del reddito, essi non erano stati legittimamente conteggiati ai fini della determinazione del reddito imponibile.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il contribuente duolendosi della mancata valorizzazione dei costi sostenuti per la produzione del reddito che, ancorché non contabilizzati, erano di fatto emersi dalla documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza presso i soggetti (fornitori di beni e servizi) che con l'imputato avevano avuto rapporti commerciali.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso evidenziando che l'accertamento del reddito, rilevante ai fini della determinazione delle imposte evase, fra esse comprese anche l'IVA, non può essere eseguito se non tenendo conto di tutti gli elementi – costi, ricavi, proventi ed oneri – che concorrono alla loro formazione  e che la determinazione della imposta sul valore aggiunto evasa deve essere eseguita attraverso la "contrapposizione tra l'IVA risultante dalla fatture emesse e l'IVA detraibile sulla base delle fatture ricevute", senza che tale computo possa ritenersi ineseguibile sulla sola base del "difetto di allegazione di eventuali fatture passive incombente sull'imputato", dovendo tenersi conto, pertanto, in un'ottica volta a privilegiare il dato fattuale rispetto a quello meramente formale, anche degli altri elementi probatori certi acquisiti agli atti.

Nella specie, hanno affermato gli Ermellini, la mera non contabilizzazione dei costi aziendali da parte del contribuente, non era di per sé ostativa alla loro valorizzazione, e ciò, in considerazione del fatto che essi erano comunque emersi dalla documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza.

Da ultimo, hanno argomentato gli Ermellini – annullando la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello – pur ipotizzando il superamento della soglia di punibilità, nonostante la contabilizzazione dei costi non valorizzati, sicuramente sarebbe emersa la minore gravità del reato con conseguente rimodulazione della pena irrogata.

 

VALIDI I CONTROLLI DIFENSIVI ANCHE DI NATURA TECNOLOGICA EFFETTUATI DAL DATORE ED E’ QUINDI LEGITTIMO IL LORO UTILIZZO AI FINI DISCIPLINARI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 25732 DEL 22 SETTEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 25732 del 22 settembre 2021, ha (ri)statuito che la legittimità dei c.d. "controlli difensivi" da parte del datore, diretti -cioè- ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale.

La fattispecie in esame, sviluppatasi subito dopo la modifica all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, ad opera del D.lgs. 151/2015 – art. 23, ripropone l’annosa questione della legittimità dei controlli datoriali ai danni dei lavoratori dipendenti, in assenza di un accordo sindacale ovvero di una specifica autorizzazione amministrativa.

Ebbene, ancor prima della novella, i controlli difensivi sono stati ritenuti conformi in presenza di due condizioni necessarie e di una eventuale. Era, in primo luogo, indispensabile che l'iniziativa datoriale avesse la finalità specifica di accertare determinati comportamenti illeciti del lavoratore e che gli illeciti da accertare fossero lesivi del patrimonio o dell'immagine aziendale. Il terzo presupposto era che i controlli fossero stati disposti ex post, ossia dopo l'attuazione del comportamento in addebito, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull'esecuzione della prestazione lavorativa. Tale presupposto era però da considerare come eventuale, poiché ritenuto, per lo più, dalla giurisprudenza un fattore avente funzione meramente confermativa della effettività del controllo difensivo; pertanto, esso poteva mancare, essendo sufficiente il mero sospetto circa l'esecuzione di illeciti, quale ulteriore requisito di legittimità del controllo difensivo, senza che la natura difensiva del controllo venisse in astratto meno (Cass. 3590/2011).

Nel caso, in esame, gli Ermellini hanno statuito la piena legittimità del controllo, tenendo presente che, come emerso nei gradi di merito, il controllo era del tutto svincolato dall'attività lavorativa ed era stato effettuato per verificare se la strumentazione aziendale in dotazione fosse stata utilizzata per la perpetrazione di illeciti; che esso, al di fuori di una verifica preventiva a distanza dell'attività dei lavoratori, era stato occasionato da una anomalia di sistema tale da ingenerare il ragionevole sospetto dell'esistenza di condotte vietate e, quindi, giustificato dal motivo legittimo di tutelare il buon funzionamento dell'impresa nonché i dipendenti che vi lavorano, anche al fine di evitare di esporre l'azienda a responsabilità derivanti da attività illecite compiute in danno di terzi; che l'acquisizione dei dati era stata effettuata con modalità non eccedenti rispetto alle finalità del controllo e, quindi, nell'osservanza dei criteri di proporzionalità, correttezza e pertinenza, che non sono stati rilevati elementi dai quali desumere che il datore di lavoro avrebbe potuto utilizzare misure e metodi meno invasivi per raggiungere l'obiettivo perseguito.

Per l’effetto, hanno dichiarato legittimo l’utilizzo ai fini disciplinari ed il conseguente licenziamento irrogato.


IL DATORE DI LAVORO NON PUÒ UTILIZZARE LE CHAT PRIVATE DEL DIPENDENTE, SE QUEST’ULTIMO NON È STATO ADEGUATAMENTE INFORMATO SUI CONTROLLI EFFETTUATI DAL DATORE DI LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 25731 DEL 22 SETTEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n. 25731 del 22 settembre, ha statuito che il datore di lavoro non può utilizzare le conversazioni private del dipendente, anche quando a contenuto offensivo, a fini disciplinari senza un’adeguata informazione sui controlli effettuati.

Nel caso in oggetto, una lavoratrice adiva il Tribunale per impugnare il licenziamento intimatole per giusta causa a seguito di accertamento dell’esistenza nella chat aziendale di conversazioni nelle quali aveva utilizzato parole offensive nei confronti di un suo superiore gerarchico e di altri colleghi.

Tali dati erano stati rilevati accidentalmente in seguito ad attività di controllo effettuata dal personale tecnico informatico, volta a verificare l’esistenza di dati aziendali da conservare, in seguito alla decisione di chiudere progressivamente la chat, di cui però i dipendenti non erano stati informati.

Sia in primo che in secondo grado di giudizio il ricorso veniva accolto, giacché veniva rilevato dai Giudici della Corte Distrettuale che la chat, essendo fornita di password di accesso, era da considerarsi alla stregua di corrispondenza privata, sottoposta a forme di tutela della libertà e segretezza imposte dall’art. 15 della Costituzione. Inoltre, le frasi non erano da ritenersi offensive in quanto utilizzate senza carattere denigratorio, rappresentando piuttosto uno “sfogo” della dipendente, rivolto al destinatario di quei messaggi.

Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione. La Suprema Corte, confermando la sentenza dei Giudici di merito, afferma che l’illegittimità del licenziamento intimato alla dipendente si fonda sull’inutilizzabilità delle conversazioni trovate all’interno della chat, a causa della violazione dell’art. 4 comma 3 della Legge n. 300/1970, laddove era stato omesso di dare tempestiva ed adeguata informazione a tutto il personale dei controlli effettuati sul servizio. Un ulteriore profilo di illegittimità dell’utilizzo delle conversazioni private della dipendente è dato dalla circostanza che i controlli, effettuati inizialmente dal datore di lavoro per ragioni di carattere tecnico, avevano assunto la natura di un vero e proprio controllo difensivo da parte del datore di lavoro, potendo essere tali controlli attivati solo a condizione che il dipendente abbia ricevuto adeguata informazione in merito alle modalità d'uso degli strumenti e dell’ effettuazione dei controlli, nel rispetto di quanto disposto dal D.Lgs. n. 196/2003.  Per i motivi esposti, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso del datore di lavoro.


MANCATI ADEMPIMENTI AFFIDATI AL COMMERCIALISTA E CORRISPONDENTI SANZIONI: IL MANCATO CONTROLLO DELL’EFFETTUAZIONE DEGLI ADEMPIMENTI NON INTEGRA LA TUTELA DELL’ART.6, COMMA 3 D.LGS.472/97

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 26372 DEL 29 SETTEMBRE 2021

La Corte di Cassazione ha analizzato la reale portata della condizione esimente di cui all’art. 6, comma 3 del D.Lgs 472/97, che prevede che “il contribuente, il sostituto e il responsabile d’imposta non sono punibili quando dimostrano che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria ed addebitabile esclusivamente a terzi”.

Nel caso in specie, la Commissione Tributaria Regionale della Campania aveva annullato le sanzioni ad un contribuente che aveva dato incarico al proprio commercialista di curare la contabilità, presentare le dichiarazioni fiscali ed effettuare i versamenti; ricevuto accertamento fiscale per la mancata presentazione delle dichiarazioni per gli anni 2005 e 2006 ed il mancato pagamento dei tributi per gli stessi anni, aveva proposto ricorso, allegando agli atti copia della denuncia penale nei confronti del commercialista, che non aveva adempiuto a tali obbligazioni.

Ricorre l’Agenzia delle Entrate, non ritenendo sufficiente la presentazione della denuncia, se non suffragata da comportamenti che avrebbero potuto evitare gli inadempimenti.

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, e integra il principio esimente di cui all’art.6 comma 3 del D.Lgs 472/97 con il contenuto dell’art.5 comma 1 dello stesso decreto, che recita “Nelle violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”.

Infatti gli Ermellini si soffermano su un importante principio, che ponga in rapporto le due norme:

– l'applicazione dell'esimente di cui alla disposizione richiamata implica:

a) l'inadempimento degli obblighi riconnessi al mancato pagamento del tributo, esclusi pertanto gli obblighi solo formali;

b) l'imputabilità di tale inadempimento ad un soggetto terzo (normalmente l'intermediario incaricato), estraneo alla compagine sociale del contribuente (Cass. n. 20113 del 16/11/2012);

c) l'adempimento, da parte del contribuente, di un obbligo di denuncia all'autorità giudiziaria nei confronti dell'intermediario, cui è stato attribuito l'incarico, oltre che della tenuta della contabilità e dell'effettuazione delle dichiarazioni fiscali, di effettuare i pagamenti;

d) l'insussistenza del dolo o della negligenza del contribuente nell'inadempimento, nemmeno sotto il profilo della culpa in vigilando, dovendo l'inadempimento medesimo essere imputabile in via esclusiva all'intermediario.

Nel caso in argomento la Commissione Tributaria Regionale, non attenendosi al suddetto principio, ha ritenuto applicabile l'esimente (di cui all'art. 6 del d.lgs. n. 472/97) essendosi il contribuente limitato a presentare la denuncia penale nei confronti dell'incaricato commercialista, senza verificare l'insussistenza del dolo o della negligenza del contribuente nell'inadempimento, nemmeno sotto il profilo della culpa in vigilando, dovendo l'inadempimento medesimo essere imputabile in via esclusiva all'intermediario.

In conclusione, la ragione dell’accoglimento del ricorso dell’Agenzia delle Entrate è da ricercare nella mancanza, nel comportamento del contribuente, di atteggiamenti univoci che avrebbero potuto corroborare il convincimento di un’esclusiva responsabilità dell’intermediario.

Ad maiora


IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 11 Ottobre 2021