26 Ottobre 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IL TERMINE DI DECADENZA PER IL DEPOSITO IN TRIBUNALE DEL RICORSO VA CONTEGGIATO DALLA DATA DI INVIO DELL’IMPUGNATIVA STRAGIUDIZIALE DEL LICENZIAMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 17197 DEL 17 AGOSTO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 17197 del 17 agosto 2020, ha (ri)statuito che il dies a quo per il deposito del ricorso decorre dalla data di invio (non di ricezione) della comunicazione stragiudiziale di impugnativa del licenziamento inviata al datore.

Ecco i fatti.

Un lavoratore impugnava in data 5/12 un licenziamento per giusta causa e provvedeva a depositare in Tribunale il ricorso, ex legge 92/2012 (Rito Fornero), in data 8/6 dell’anno successivo, cioè entro il 180° giorno dalla data di ricezione dell’impugnativa del licenziamento da parte del datore di lavoro.

Sia in primo grado, nella sua articolazione bifasica, che in Appello veniva dichiarata la tardività del deposito e, per l’effetto, il rigetto del ricorso.

Il lavoratore, pertanto, ricorreva in Cassazione.

Ebbene, gli Ermellini hanno inteso dare continuità all’ormai noto e consolidato principio secondo cui il termine di decadenza, previsto dalla L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, decorre dalla trasmissione dell'atto scritto di impugnazione del licenziamento imposto dal comma 1, dell'articolo citato e non dal perfezionamento dell'impugnazione stessa per effetto della sua ricezione da parte del datore di lavoro né dallo spirare del termine di sessanta giorni (cfr. Cass. n. 23890 del 2018, Cass. n. 20666 del 2018, Cass. n. 12352 del 2017, Cass. n. 17165 del 2016, Cass. n. 21410 del 2015, Cass. n. 20068 del 2015, Cass. n. 17373 del 2015; Cass. n. 5717 del 2015).

Più in particolare, i Giudici di Piazza Cavour hanno precisato che l'impugnazione del licenziamento costituisce una fattispecie a formazione progressiva, soggetta a due distinti e successivi termini decadenziali, rispetto alla quale risulta indifferente il momento perfezionativo dell'atto, perché la norma non prevede la perdita di efficacia di un'impugnazione già perfezionatasi, dunque pervenuta al destinatario, ma impone un doppio termine di decadenza affinché l'impugnazione stessa sia in sé efficace. Pertanto, il Legislatore ha voluto subordinare l'efficacia dell'impugnazione al rispetto di un doppio termine di decadenza, interamente rimesso al controllo dello stesso impugnante, il quale, dopo avere assolto alla prima delle incombenze di cui è onerato, è assoggettato a quella ulteriore di attivare la fase giudiziaria entro il termine prefissato.

Conseguentemente, l’impugnativa del lavoratore è stata definitivamente rigettata.
 

IL REATO DI CAPORALATO E’ CARATTERIZZATO DALLO SFRUTTAMENTO DEL LAVORATORE I CUI INDICI SONO INDICATI NELL’ART. 603-BIS DEL CODICE PENALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 27582 DEL 6 OTTOBRE 2020.

La Corte di Cassazione – Sezione Penale-, sentenza n° 27582 del 6 ottobre 2020, ha affermato che il reato di caporalato si configura in presenza degli indici fattuali di sfruttamento, retributivi, orari, contrattuali e di igiene e sicurezza, previsti dalla norma.

Ecco i fatti.

Il Presidente di una cooperativa agricola ricorreva al tribunale per il riesame di Reggio Calabria al fine di farsi revocare gli arresti domiciliari, in seguito sostituiti dall’obbligo di dimora, per essere lo stesso indagato per il reato di caporalato, ex art. 603-bis del codice penale.

Allo stesso, infatti, si contestava il predetto reato atteso che risultava aver sottoposto sette lavoratori extracomunitari a condizioni di sfruttamento in relazione alla retribuzione inferiore a quanto prescritto dai contratti collettivi nazionali o territoriali applicabili e comunque sproporzionato per difetto (ossia in concreto trenta Euro a giornata lavorativa), alle condizioni di lavoro (i braccianti non avevano seguito nessun corso di formazione per la sicurezza e non erano muniti di alcun mezzo di protezione), agli orari di lavoro (lavorando otto ore al giorno, anziché sei e trenta, senza alcun riconoscimento aggiuntivo) ed alle ferie (spesso non godendo del riposo settimanale), approfittando del loro stato di bisogno connesso alla situazione di assoluta indigenza (vivendo i lavoratori nella tendopoli di (OMISSIS) ed essendo totalmente subordinati rispetto al "caporale" (OMISSIS).

Il Tribunale confermava l’ordinanza del G.I.P. di Palmi, donde il ricorso per Cassazione.

Il ricorrente, a supporto della propria tesi difensiva, evidenziava che il Tribunale aveva omesso di rilevare che, anche secondo le stesse sommarie informazioni delle persone offese, lui non conoscesse da prima i lavoratori e la loro provenienza poiché questi ultimi, a detta dell'ordinanza, conoscevano solo il caporale. Né vi era prova della conoscenza diretta di quel sto (tendopoli) da parte dell'indagato.

Gli Ermellini hanno dapprima ricordato il recente approdo della quarta Sezione, sentenza n° 49871/2019, con la quale è stato affermato che “la mera condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da una situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non può di per sé costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato di cui all’art. 603-bis codice penale caratterizzato, al contrario, dallo sfruttamento del lavoratore, i cui indici di rilevazione attengono ad una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavoratore, resa manifesta da profili contrattuali retributivi o da profili normativi del rapporto di lavoro, o da violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, o da sottoposizione a umilianti o degradanti condizioni di lavoro e di alloggio”.

Alla luce del richiamato principio hanno affermato la corretta applicazione dello stesso da parte del Tribunale per il Riesame atteso che non solo la durata oraria della prestazione, la retribuzione e la penosa situazione personale ed abitativa degli operai extracomunitari ma anche la decurtazione “obbligatoria” di parte non irrilevante del compenso quale corrispettivo per l’accompagnamento in auto da parte del caporale, la mancanza di dotazioni di sicurezza, il previo mancato svolgimento di corsi di formazione, la mancata fruizione di un giorno di riposo settimanale erano certamente indicativi della condizioni di sfruttamento dei lavoratori, donde la conferma della misura cautelare.
 

EFFETTO INTERRUTTIVO DELLA PRESCRIZIONE, ANCHE IN COSTANZA DI GIUDIZIO, SI HA SOLO IN PRESENZA DI UNA ESPLICITA RICHIESTA SCRITTA DEL CREDITORE CON LA QUALE SI COSTITUISCE IN MORA IL DEBITORE?

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21154 DEL 2 OTTOBRE 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21154 del 2 ottobre 2020, ha affrontato la spinosa questione attinente l’efficacia interruttiva degli atti processuali sulla prescrizione dei contributi previdenziali. La stessa, rilevato il contrasto esistente nella Corte nomofilattica, ha rimesso gli atti alla Quarta Sezione per un approfondimento della fattispecie.

I fatti

La Corte distrettuale di Torino, accogliendo l’appello dei contribuenti, dichiarava la prescrizione dei crediti contributivi vantati dall'INPS, di cui ai verbali di accertamento, atteso che, richiamando la sentenza Cass. n. 12058 del 2014, “la richiesta del convenuto (Inps) di mero rigetto della domanda attorea (nella specie diretta all'accertamento negativo di un debito) non era idonea a svolgere efficacia interruttiva della prescrizione del diritto vantato nei confronti del debitore in quanto funzionalmente volta a confutare la domanda avversaria e non a manifestare inequivocabilmente la volontà di far valere la pretesa creditoria o di mettere in mora il soggetto inadempiente”.

L’Inps ricorreva in Cassazione argomentando che le memorie difensive dell’Istituto, in primo grado, potevano avere valore di atto interruttivo della prescrizione in quanto contenenti la richiesta di rigetto del ricorso avversario e che tale requisito doveva considerarsi idoneo ai fini interruttivi in base alle pronunce di legittimità Cass. n. 7737 del 2007 e n. 13438 del 2013;

Il tema.

Gli artt. 2943 e 2945 c.c. contemplano la efficacia interruttiva permanente dei termini prescrizionali in pendenza di giudizio e fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio.

Tuttavia, per avere una efficacia interruttiva un atto deve contenere la chiara esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto, nei confronti del soggetto obbligato appositamente indicato, con l’effetto sostanziale di costituirlo in mora (così Cassazione sentenze 9589/2018, 24656/2010 e 16465/2017).

L’approdo giurisprudenziale richiamato, tuttavia, non è univocamente condiviso. Recentemente, infatti, la Cassazione, con ordinanza n° 5369/2019, ha precisato che la mera richiesta di rigetto rispetto ad un’azione di accertamento negativo ha effetto interruttivo della prescrizione ai sensi dell’art. 2943 comma 2, c.c. in base al quale la prescrizione è interrotta per effetto di una domanda proposta nel corso del giudizio, con gli effetti di cui all’art. 2945 c.c. (fino al passaggio in giudicato della sentenza).

Pertanto, rilevato il contrasto esistente, la Sezione Sesta ha rimesso gli atti alla Quarta Sezione per un approfondimento, lasciando – al momento – non risolta la querelle.
 

LA RIPETIZIONE DELLE SOMME INDEBITAMENTE PERCEPITE DAL SOSTITUITO NON PUO' ESSERE PRETESA AL LORDO DELLE RITENUTE FISCALI E PREVIDENZIALI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 21737 DELL' 8 OTTOBRE 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 21737 dell’8 ottobre 2020, ha statuito che il rimborso di quanto percepito indebitamente dal sostituito deve avvenire al netto delle ritenute fiscali applicate all'atto della corresponsione.

Nel caso de quo,  la Corte di Appello di L'Aquila, confermando il giudicato del Tribunale di Sulmona, aveva revocato il decreto ingiuntivo, emesso in favore di  una società datrice nei confronti di una lavoratrice, volto al recupero della somma lorda a titolo di restituzione di somme corrisposte in esecuzione di una pronunzia del Tribunale di Roma che aveva stabilito la conversione di un contratto di lavoro a termine in uno a tempo indeterminato, successivamente riformata dalla Corte di Appello della stessa città che, in parziale accoglimento della domanda della società, aveva condannato la lavoratrice alla restituzione della somma (già corrisposta), al netto delle ritenute fiscali, previdenziali ed assistenziali.

Per la cassazione della sentenza la società ha proposto ricorso eccependo che il datore di lavoro può pretendere dal lavoratore la restituzione delle somme indebitamente erogate al lordo delle ritenute di legge ove, come nel caso di specie, non abbia già effettuato la richiesta di restituzione dell'imposta non dovuta all'Amministrazione finanziaria.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso conformandosi agli ormai consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità, alla stregua dei quali, qualora le ritenute fiscali non siano state versate direttamente ai lavoratori, il datore di lavoro non può pretenderne la ripetizione da parte dei dipendenti, perché appunto da questi non percepiti. Ed invero, il D.P.R. n°602/1973, art. 38, prevede che "Il soggetto che ha effettuato il versamento diretto può presentare all'Intendente di Finanza nella cui circoscrizione ha sede il concessionario presso cui è stato eseguito il versamento, istanza di rimborso entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento stesso, nel caso di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell'obbligo di versamento".

All'uopo, hanno continuato gli Ermellini, nel caso in specie, l'azione di restituzione e riduzione in pristino, proposta a seguito della riforma o cassazione della sentenza contenente il titolo del pagamento, si collega ad una esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale anteriore a detta sentenza e, dunque, a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti e, pertanto, ad un pagamento non dovuto; pertanto, la società datrice non può pretendere somme al lordo delle ritenute fiscali, poiché le stesse non sono mai entrate nella sfera patrimoniale della lavoratrice.
 

LA NOTIFICATA DELLA CARTELLA IN PDF È VALIDA SE INVIATA IN ALLEGATO ALLA PEC.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 21328 DEL 5 OTTOBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 21328 del 5 ottobre 2020, ha statuito che è valida la cartella di pagamento in PDF notificata al contribuente a mezzo PEC, ancorché senza attestazione di conformità.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, hanno respinto le doglianze di un contribuente che eccepiva l’invalidità della notifica della cartella di pagamento in pdf, anche e soprattutto perché il file in parola notificato era privo dell’attestazione di conformità.

Con l’ordinanza de qua, gli Ermellini hanno evidenziato che la notifica della cartella di pagamento può avvenire, indifferentemente, sia allegando al messaggio PEC un documento informatico, sia duplicato informatico dell’atto originario (id: atto nativo digitale), sia mediante una copia per immagini su supporto informatico di documento in originale cartaceo (id: copia informatica), come è avvenuto nel caso in commento, dove il Concessionario della Riscossione ha provveduto a inserire nel messaggio di posta elettronica certificata un documento informatico in formato PDF (id: portable document format), cioè il noto formato di file usato per creare e trasmettere documenti, attraverso un software ormai comunemente diffuso tra gli utenti  telematici, realizzato in precedenza mediante la copia per immagini di una cartella di pagamento composta in origine su carta.

In nuce, per la S.C., va esclusa, senza ombra di dubbio, la denunciata illegittimità della notifica della cartella di pagamento eseguita a mezzo posta elettronica certificata, per la decisiva ragione che era nella sicura facoltà del notificante allegare, al messaggio trasmesso alla contribuente via PEC, un documento informatico realizzato in forma di copia per immagini di un documento in origine analogico, in quanto nessuna norma di legge impone che la copia su supporto informatico della cartella di pagamento cartacea, notificata attraverso PEC, venga poi sottoscritta con firma digitale.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Giusi Acampora e Michela Sequino

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Modificato: 26 Ottobre 2020