10 Ottobre 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

AI CASI DI MANCATA O INFEDELE DENUNCIA OBBLIGATORIA ALL'INPS PUO' CONSEGUIRE UNA IPOTESI DI EVASIONE PRESUMIBILE DAL FINE FRAUDOLENTO DI OCCULTAMENTO DEL RAPPORTO O DELLA RETRIBUZIONE EROGATA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21831 DEL 11 LUGLIO 2022.

La Corte di Cassazione – sentenza n°21831 del 11 luglio 2022 – ha (ri)confermato l'applicazione della sanzione ex art. 116, comma 8, lett. b), legge n°388/2000 nei casi di omessa denuncia contributiva, ferma restando la possibilità di dimostrare l'assenza del fine fraudolento, con prova a carico del datore.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva dichiarato dovute le sanzioni per evasione contributiva richieste dall'INPS ad una società contribuente in relazione all'omessa presentazione delle denunce mensili obbligatorie relative ai contributi dovuti su taluni lavoratori dipendenti, che in parte erano stati pagati, sia pure in ritardo, e in parte non erano stati pagati per non avere ancora l'INPS inviato il relativo avviso bonario.

La Corte, in particolare, aveva ritenuto che l'omessa presentazione delle denunce mensili valesse a configurare il presupposto per addebitare alla società la più grave sanzione per l'evasione, ex art.  116, comma 8, lett. b) della legge citata, in luogo di quella per l'omissione, lett. a) senza considerare le circostanze già valorizzate dal primo Giudice.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società evidenziando la mancanza della specifica intenzionalità all'occultamento di rapporti di lavoro in riferimento alle denunce non presentate che, invero, erano state in parte già pagate e oggetto di sgravio.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso richiamando la sentenza n°28966 del 2011 che ha chiarito l'ambito della meno grave ipotesi dell'omissione contributiva (ex art.  116, comma 8, lett. a), configurabile nel mancato o ritardato pagamento di contributi o premi il cui ammontare è rilevabile dalle denunce e/o registrazioni obbligatorie; specularmente la medesima sentenza ha tracciato il campo di applicazione della fattispecie più grave dell'evasione, che a mente dell'art 116, comma 8, lett. b), è "connessa a registrazioni o denunce obbligatorie omesse o non conformi al vero, cioè al caso in cui il datore di lavoro, con l'intenzione specifica di non versare i contributi o premi, occulta rapporti di lavoro in essere ovvero le retribuzioni erogate".

In questo senso, ha soggiunto la sentenza in esame, l'omissione o l'infedeltà della denuncia, ove non meramente accidentale, episodica o strettamente marginale, deve considerarsi di per sé sintomatica della volontà di occultare i rapporti e le retribuzioni, stante l'ovvia possibilità che la mancanza di successivi accertamenti o riscontri nell'arco temporale dei termini prescrizionali consentano de facto ai soggetti obbligati di sottrarsi totalmente o parzialmente all'adempimento dell'obbligo contributivo.

Tuttavia, hanno concluso gli Ermellini cassando la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione, la sussistenza dell'intento fraudolento non è assoluta, bensì relativa e può esser vinta dalla prova, a carico del datore inadempiente, che l'omesso invio della denuncia o l'invio di una denuncia non veritiera, sia avvenuto in buona fede, allegando circostanze precise e dimostrative dell'assenza dell'intento fraudolento (come nel caso in specie), con conseguente applicazione della più lieve sanzione prevista dalla lett. a) della norma citata.


LA CESSAZIONE DELLA SOCIETA’ NON ESCLUDE LA RESPONSABILITA’ DEI SOCI NEI CONFRONTI DELL’ERARIO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA 23730 del 29/07/2022

La responsabilità per debiti tributari degli ex soci di una società cessata e cancellata dal Registro delle Imprese sussiste anche se non abbiano partecipato alla ripartizione degli utili del bilancio finale di liquidazione.

La Corte di Cassazione, nell’Ordinanza indicata, ha ritenuto applicabile questo principio, come corollario del Principio di Diritto secondo cui la circostanza secondo la quale" i soci abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione non è dirimente (…) ai fini dell'esclusione dell'interesse ad agire del Fisco creditore"– (Cass. n. 9094/2017).

Il caso in esame trae origine da un avviso di accertamento ai fini delle Imposte Dirette ed Indirette (tra l’altro per omessa presentazione delle relative dichiarazioni) che una società riceve dopo essere stata cancellata dal Registro delle Imprese: gli ex soci, chiamati a rispondere di tali accertamenti, avevano proposto ricorso lamentando la carenza di legittimazione passiva per non aver partecipato al riparto delle risultanze del bilancio finale di liquidazione, e la Commissione Tributaria Regionale, nel caso in esame, aveva dato ragione ai contribuenti, limitando la responsabilità degli ex soci alle somme risultanti dal prospetto di riparto del bilancio finale di liquidazione, quindi ponendo a carico dell’Amministrazione Finanziaria l’onere di dimostrarne anche l’effettiva percezione.

Invero tale fattispecie trovava base su una precedente pronuncia della stessa Corte di Cassazione (n.9672/2018) che aveva reputato la questione meritevole di dibattimento, seppur poi non confutando il principio statuito dalla sentenza citata n.9094/2017.

La Corte di Cassazione  riprende pienamente quest’ultima tesi, ritenendo che la Commissione Tributaria Regionale abbia errato nell’interpretare la vicenda, stanti anche le conclusioni a cui arrivavano gli Ermellini nella stessa Sentenza 9672/2018, per cui “… l'assenza nel bilancio di liquidazione della società estinta di ripartizioni agli ex soci non esclude "l'interesse dell'Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell'interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti"-

Decide quindi per la conferma del Principio di Diritto richiamato, e per questi motivi cassa la sentenza e la rinvia alla CTR in diversa composizione per un nuovo esame.
 

VALIDO IL LICENZIAMENTO IN FORMA SCRITTA BENCHE’ CONOSCIUTO DAL LAVORATORE INDIRETTAMENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 24391 DEL 5 AGOSTO 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 24391 del 5 agosto 2022, ha statuito che è valido, e dunque efficace, il licenziamento comunicato in forma indiretta, purché risulti da atto scritto, sia chiaro e intellegibile.

Il caso esaminato riguarda l’opposizione alla risoluzione del rapporto di lavoro – per mezzo di determina dirigenziale- esperita da un dipendente pubblico che, sottoposto ad accertamento medico a seguito di infarto del miocardio, era stato dichiarato permanentemente inidoneo al servizio in modo assoluto presso la pubblica amministrazione. Più precisamente, il ricorrente lamentava la mancata ricezione di una copia conforme dell’atto firmato in originale, configurandosi così l'assenza di forma scritta del licenziamento che, pertanto, avrebbe reso inefficace il provvedimento espulsivo.

Se il Tribunale aveva accolto la domanda del dipendente, qualificando quel licenziamento come intimato oralmente sulla base della mancata dimostrazione di avvenuta notificazione dello stesso da parte della pubblica amministrazione, la Corte d’Appello aveva ritenuto assolto l’onere di comunicazione a carico dell’Ente ex art. 2 della L. 604/1966, proprio in ragione sia della presenza di un atto scritto (determina dirigenziale), sia della conoscenza del recesso da parte del destinatario che, per sua stessa ammissione, ne aveva acquisito -informalmente- una copia presso gli uffici amministrativi.

In accordo con la Corte Distrettuale, i Giudici di Piazza Cavour hanno dichiarato che, in tema di licenziamento, benché il recesso datoriale debba rispettare il parametro della forma scritta a pena di inefficacia, non esistono vincoli sulle modalità di notificazione dello stesso. Pertanto, è valido il licenziamento del dipendente pubblico espresso mediante determina dirigenziale di collocamento a riposo, malgrado al lavoratore non venga consegnata copia conforme dell'atto, poiché, per legge, il licenziamento deve avvenire per iscritto ma nulla vieta che la comunicazione del recesso venga effettuata in maniera indiretta.
 

LA SCELTA DELL’IMPRENDITORE DI DESTINARE LE SOMME RINVENIENTI DAL MANCATO VERSAMENTO ALL’ERARIO DEL TRIBUTO AI DIPENDENTI, E DARE CONTINUITÀ AZIENDALE, INTEGRA IN PARTICOLARE, L’OMESSO VERSAMENTO DELL’IMPOSTA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 30628 DEL 5 AGOSTO 2022

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30628 del 5/08/2022, ha statuito che non versare l'IVA per pagare gli stipendi costituisce a tutti gli effetti un reato, in quanto la scelta dell'imprenditore di destinare le somme rinvenienti dal mancato versamento all'erario del tributo ai dipendenti per dare continuità aziendale, integra, in particolare, la violazione dell'art. 10-ter del Dlgs. n. 74 del 2000 (id: omesso versamento IVA).

Con la sentenza de qua, i Giudici di piazza Cavour, hanno richiamato la propria decisione delle SS.UU. n. 37424 del 28/03/2013, depositata il 12/09/2013, ove si stabilisce che l'art. 10-ter, D.lgs n. 74 del 2000, richiede il dolo generico, “per la cui integrazione è, perciò, sufficiente la consapevolezza, in capo all'agente, di non voler versare all'Erario le ritenute effettuate.”

Nello specifico, la Corte di Appello di Milano aveva condannato un imprenditore perché ometteva di versare l'imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale relativa al periodo di imposta 2014, entro il termine di legge previsto per il versamento dell'acconto relativo al periodo di imposta successivo, per un ammontare complessivo di 1.471.798 euro, evidenziando come “la prova del dolo generico è insita nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta e sottolineando, inoltre, che il debito verso il fisco relativo ai versamenti Iva è collegato al compimento delle operazioni imponibili, in quanto, ogniqualvolta il soggetto d'imposta effettua tali operazioni riscuote l'IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l'Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all'obbligazione tributaria. Pertanto, per gli Ermellini, non può essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, “ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alla esigenza predetta.

In nuce, per la S.C., la condotta dell'imprenditore consistente nell'aver «omesso pagamento dell'IVA, non può essere scusata, sul piano dell'illiceità penale, per aver scelto di destinare le somme disponibili al pagamento delle retribuzioni di dipendenti, fornitori strategici e contributi previdenziali, in quanto l'imputato avrebbe dovuto accantonare le somme corrispondenti al debito tributario per versare l'imposta entro il termine di legge.
 

LO STAGISTA NON PUO’ PRETENDERE L’ASSUNZIONE SE NON PROVA LA SUBORDINAZIONE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 25508/2022 DEL 30 AGOSTO 2022

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 25508 del 30 agosto 2022, ha stabilito che nel caso di pretesa di assunzione da parte di uno stagista non può attribuirsi alcuna rilevanza all’assunzione di un altro stagista e l’onere della prova della sussistenza degli elementi della subordinazione grava sul lavoratore.

Nel caso in trattazione, infatti, il Tribunale ordinario riteneva inammissibile la domanda per veder riconosciuto il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, l’illegittimità del “licenziamento” e la reintegrazione proposta da un tirocinante che, una volta concluso lo stage svolto in attuazione di apposita Convenzione redatta ai sensi della l. n. 196/1998 e del D.M. n. 142/1998 tra la sua Università e la società appellata, aveva presentato istanza di convocazione per ottenere l’assunzione,  atteso che un’altra stagista, al termine dello stage, era stata assunta con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato. La decisione veniva confermata anche dalla Corte d’Appello che sottolineava come, dall’esame della vicenda, non era emerso alcun elemento che potesse dimostrare la sussistenza di un vincolo di subordinazione.

Lo stagista proponeva ricorso per la cassazione della sentenza ribadendo la natura subordinata dell’attività resa nei confronti della società. Secondo la Corte Suprema i Giudici di merito avevano correttamente valutato le prove e la concreta situazione, escludendo la possibilità che si fosse configurato un rapporto di lavoro di natura subordinata. Dall’istruttoria condotta in primo grado, infatti, era risultato che le concrete modalità di svolgimento dell’attività avevano effettivamente perseguito l’obiettivo formativo. Al ricorrente, inoltre, era stata applicata la disciplina di cui al D.M. n. 142/1998 secondo cui per gli studenti universitari, compresi coloro che frequentano corsi di diploma universitario, dottorati di ricerca e scuole o corsi di perfezionamento, lo stage non può avere una durata superiore ai 12 mesi, come appunto nel caso di specie.

Fermo restando, infine, che l’onere di provare la sussistenza degli elementi tipici della subordinazione (orario di lavoro fisso e continuativo, retribuzione fissa mensile, continuità della prestazione, vincolo di soggezione al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, inserimento nell’organizzazione aziendale) grava sul soggetto che rivendica in giudizio l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, nessuno di questi indici era stato riscontrato nel rapporto in questione e, per questi motivi, la Corte rigettava il ricorso.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO


(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 10 Ottobre 2022