28 Ottobre 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

E' RITORSIVO IL LICENZIAMENTO INTIMATO AL LAVORATORE DI RITORNO DA UNA LUNGA MALATTIA SE LE RAGIONI ADDOTTE DAL DATORE DI LAVORO PER IL G.M.O. SI RIVELANO INFONDATE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 23583 DEL 23 SETTEMBRE 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 23583 del 23 settembre 2019, ha (ri)statuito che il licenziamento per ritorsione richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del recesso da parte datoriale.

Nel caso de quo, la Corte di Appello di Firenze, in accoglimento del reclamo proposto da un lavoratore, dichiarava la nullità del licenziamento perché intimato per ritorsione e, in applicazione dell'art.18, legge n°300/70, comma 1, come modificato dalla L. n°92/2012, condannava la società datrice a reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro con relativo risarcimento del danno. In particolare, il lavoratore, assunto alle dipendenze della società  come operaio specializzato con mansioni di incisore pantografista, aveva ricevuto, al momento del suo rientro in servizio dopo una lunga assenza per malattia, una lettera di licenziamento motivata dalla scelta organizzativa di chiudere il settore produttivo della bigiotteria, argenteria e ottone per il calo di commesse riguardante tale settore, con conseguente soppressione della posizione e della funzione ricoperta dal lavoratore  e impossibilità di ricollocamento in altre mansioni uguali o equivalenti. La Corte di Appello osservava come la documentazione prodotta e la prova testimoniale avessero dimostrato l'inesistenza di un reparto di lavorazione dei materiali diversi dall'oro, nonché l'assunzione, successiva al licenziamento, di una nuova dipendente che, di fatto, era stata addetta alle lavorazioni dell'oro. La Corte territoriale ravvisava, quindi, la sussistenza del motivo ritorsivo del licenziamento, espressione della volontà di rappresaglia per la prolungata assenza del dipendente per malattia.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società datrice, duolendosi della mancata prova del motivo ritorsivo come unico e determinante del recesso.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ed ha ricordato che l'onere della prova del carattere ritorsivo del licenziamento grava sul lavoratore e può essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza l'intento di rappresaglia, dovendo tale intento aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro. Per accordare la tutela prevista per il licenziamento nullo (art. 18, comma 1, legge 300/70 come novellato dalla L. n°92/2012), perché adottato per motivo illecito determinante ex art. 1345 cc. occorre che il provvedimento espulsivo sia stato determinato esclusivamente da esso, per cui la nullità deve essere esclusa se con lo stesso concorra un motivo lecito, come una giusta causa o un giustificato motivo.

Dunque, hanno continuato gli Ermellini, in ipotesi di domanda di nullità del licenziamento per il suo carattere ritorsivo, la verifica di fatti allegati dal lavoratore richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del recesso (id: licenziamento per g.m.o.), che risulti solo allegata dal datore, ma non provata in giudizio.

Nel caso in esame, hanno concluso gli Ermellini, la domanda sulla natura ritorsiva del licenziamento è stata esaminata dopo aver escluso la sussistenza del g.m.o., per cui il licenziamento del reclamante, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, non presentava altra spiegazione che il collegamento causale con l'assenza per malattia.

 

INTEGRA IL RICONOSCIMENTO DELL'INDENNITA' DI CASSA IL MANEGGIO NON OCCASIONALE DI VALORI IN CONTANTI, TALE DA COMPORTARE L'ESPOSIZIONE DEL LAVORATORE AD UNA POSSIBILE RESPONSABILITA'.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22294 DEL 5 SETTEMBRE 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22294 del 5 settembre 2019, ha statuito, in tema di riconoscimento dell'indennità di cassa e maneggio danaro, che la responsabilità finanziaria del lavoratore è implicita nelle attività di incasso con carattere di continuatività.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Roma aveva respinto il ricorso proposto da una società datrice avverso la decisione di primo grado che aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato ad una lavoratrice, con le conseguenze risarcitorie nell'ambito della tutela obbligatoria, ed aveva condannato altresì, la società alla corresponsione di un importo a titolo di indennità di cassa; la Corte, in particolare, aveva osservato: che la lavoratrice, addetta alla reception, aveva accesso alla cassaforte ove riponeva gli incassi, gestiva un piccolo fondo cassa per le spese di ordinaria amministrazione ed era addetta alla effettuazione della "quadratura giornaliera, settimanale e mensile" degli importi presenti in cassa; che il CCNL applicato prevedeva che, ove al dipendente addetto con continuità ad operazioni di cassa facesse capo la piena e completa responsabilità della gestione di cassa, con obbligo di accertarsi delle eventuali differenze, competesse un'indennità di cassa e di maneggio denaro nella misura del 5% della paga base che, nella fattispecie, doveva, pertanto, riconoscersi la prevista indennità contrattuale.

Non dello stesso avviso la società soccombente che ha adito la Suprema Corte per la cassazione della sentenza sostenendo che, invero, nella fattispecie, la lavoratrice anche se addetta alle operazioni di cassa non ne aveva la responsabilità in quanto non aveva alcun obbligo di ripianare gli eventuali ammanchi.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso condividendo l'operato dei Giudici di merito. Per l'insorgenza del diritto da parte del lavoratore all'indennità di cassa, hanno argomentato gli Ermellini, ciò che rileva è che l'attività svolta a contatto col denaro abbia carattere se non di esclusività quanto meno di continuatività e non occasionalità, e che comporti l'esposizione del lavoratore ad una possibile responsabilità, anche di carattere finanziario.

Tale principio è stato meglio specificato dalle sentenze Cass. n°25742 del 14.12.2016 e Cass. n° 2212 del 4.2.2016, decisioni che hanno rilevato come, ai fini del diritto all'indennità di maneggio denaro, la responsabilità per errore, anche finanziaria, è implicita nelle attività di cui l'incasso costituisce la prestazione normale o prevalente, derivando la stessa dall'art. 2104 c.c. che obbliga il dipendente alla diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta.

Pertanto, immanente all'attività stessa del cassiere, insiste sempre una responsabilità che deriva direttamente dalle norme codicistiche che obbligano il dipendente alla diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta ex art. 2104 c.c.. Ciò che rileva, quindi, ai fini del riconoscimento dell'indennità in questione è, esclusivamente, l'accertamento dell'autonomia nell'espletamento delle mansioni di cassiere e la continuatività e non occasionalità delle stesse.


LE BANCHE HANNO L'OBBLIGO DI INFORMARE TEMPESTIVAMENTE IL CLIENTE SE IL PAGAMENTO DEL MODELLO F24 NON VA A BUON FINE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 20640 DEL 31 LUGLIO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 20640 del 31 luglio 2019, ha statuito che la banca ha l’obbligo di informare tempestivamente il cliente del mancato pagamento del modello F24, in ossequio ai principi che governano il contratto di mandato, per cui in caso di scarto della delega di pagamento e di omessa tempestiva comunicazione, l’istituto è responsabile del danno che ne consegue, ancorché il pagamento non sia andato a buon fine per l’errata compilazione dell’F24 imputabile al cliente.

IL FATTO

Un cliente citava in giudizio dinanzi al Giudice di Pace la propria banca, per richiedere il risarcimento danni conseguenti all’omessa comunicazione dell’esito negativo del mandato conferito per il pagamento di un F24 non compilato in modo completo, deducendo responsabilità contrattuale dell’istituto, sia con riferimento alla disciplina del mandato, sia con riferimento al rapporto di conto corrente e ai conseguenti obblighi informativi.

Sia il Giudice di Pace che quello di secondo grado respingevano la domanda del cliente, da qui il ricorso per Cassazione da parte di quest’ultimo, che tra i propri motivi di gravame poneva  in evidenza l’errore commesso dal Giudice di merito per non aver valutato gli adempimenti a carico della banca, tra cui quello dell’immediata informativa da dare al correntista circa lo scarto della delega di pagamento, provocando così l’emissione della cartella di pagamento da parte dell’Amministrazione finanziaria.

Orbene, con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour hanno accolto il ricorso del cliente affermando che l’istituto bancario avrebbe dovuto quantomeno informare senza indugio il cliente della mancata esecuzione del pagamento, in virtù dei principi generali che governano il contratto di mandato, poiché ai sensi dell’articolo 1856 cod. civ., la banca risponde secondo le regole del mandato quanto agli incarichi ricevuti dal correntista, per cui in qualità di mandatario:

  • deve compiere tutti gli atti necessari all’assolvimento del compito (articolo 1708 cod. civ.);
  • è tenuto ad adempiere ai propri obblighi con la diligenza del buon padre di famiglia (articolo 1710 cod. civ.);
  • in relazione allo svolgimento dell’attività per cui è specializzato, deve assolvere le relative obbligazioni con diligenza professionale (articolo 1176 cod. civ.);
  • deve informare il mandante delle circostanze sopravvenute che incidono sul mandato (articolo 1710 cod. civ.).

L'istituto, dal canto suo, si è difeso sostenendo di aver cercato di contattare telefonicamente la cliente senza successo a distanza di pochi giorni, senza tuttavia dedurre, dimostrare, di aver successivamente insistito, né di aver inviato immediata comunicazione al domicilio della propria cliente.

Per le motivazioni suddette il ricorso è stato accolto con annullamento della sentenza impugnata e rinvio al Giudice di merito, in diversa composizione, per stabilire i pregiudizi arrecati al cliente dal comportamento omissivo della banca per il mancato pagamento del modello F24.

 

IL CONTRIBUENTE, IN CASO DI OMESSA DICHIARAZIONE, PUÒ PORTARE IN DETRAZIONE IL SUO CREDITO FISCALE L'ANNO SUCCESSIVO. 

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 25288 DEL 9 OTTOBRE 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 25288 del 9 ottobre 2019, ha statuito che il contribuente che abbia omesso la presentazione della dichiarazione dei redditi da cui scaturiva un credito può recuperare il suddetto credito d’imposta nella dichiarazione dell’anno successivo, in quanto il suo diritto al credito nasce dalla legge e non dalla dichiarazione.

Nel caso in specie un contribuente provvedeva ad impugnare dinanzi alla giustizia tributaria cartella di pagamento emessa ai sensi degli artt. 36-bis D.P.R. n. 600/73 e 54-bis D.P.R. 633/72, ai fini IRPEF, IRAP e IVA anno 2007. La C.T.P. respingeva il ricorso, mentre la C.T.R. ribaltava la sentenza di primo grado accogliendo l’appello del contribuente non condividendo l’assunto erariale secondo cui, a fronte della circostanza dell’omissione della dichiarazione per il 2006, il credito maturato non poteva essere esposto nella dichiarazione per l'anno successivo, dovendosi necessariamente proporre un’istanza di rimborso, dopo aver versato il dovuto.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate.

I Giudici di Piazza Cavour con la sentenza de qua, uniformandosi all’indirizzo di legittimità delle Sezioni Unite, hanno respinto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, ricordando che:

  • “In materia di IVA, pur in mancanza di dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, l’eccedenza d’imposta, che risulti da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti per un anno e sia dedotta entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, va riconosciuta dal Giudice tributario se il contribuente abbia rispettato tutti i requisiti sostanziali per la detrazione, sicché, in tal caso, nel giudizio d’impugnazione della cartella emessa dal fisco a seguito di controllo formale automatizzato non può essere negato il diritto alla detrazione se sia dimostrato in concreto, ovvero non sia controverso, che si tratti di acquisti compiuti da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili (Cass., SU, n. 17757 dell’8 settembre 2016);
  • In caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA, è consentita l’iscrizione a ruolo dell’imposta detratta e la conseguenziale emissione di cartella di pagamento, potendo il fisco operare, con procedure automatizzate, solo un controllo formale e non sostanziale della posizione del contribuenteper cui nel successivo giudizio di impugnazione della cartella, l’eventuale dimostrazione, a cura del contribuente, che la deduzione d’imposta, eseguita entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, riguardi acquisti fatti da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili” (Cass., SU, n. 17758 dell’8 settembre 2016);
  • Nell’ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria recuperi, ai sensi degli articoli 36 bis del D.P.R. n. 600/73 e 54 bis del D.P.R. n. 633/72, un credito esposto nella dichiarazione oggetto di liquidazione, maturato in una annualità per la quale la dichiarazione risulti omessa, il contribuente può dimostrare, mediante la produzione di idonea documentazione, l’effettiva esistenza del credito non dichiarato, in quanto il suo diritto al credito nasce dalla legge e non dalla dichiarazione e, da un altro, in sede contenziosa, ci si può sempre opporre alla maggiore pretesa tributaria del Fisco, allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella redazione della dichiarazione, incidenti sull’obbligazione tributaria (cfr. Cass., n. 31433/2018).

 

LA SCELTA DEI DIPENDENTI DA LICENZIARE NELLE PROCEDURE DI LICENZIAMENTO COLLETTIVO NON PUO’ PRESCINDERE DA UNA VALUTAZIONE COMPLESSIVA DELLA PROFESSIONALITA’ DEL LAVORATORE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANAZA N. 24882 DEL 4 OTTOBRE 2019

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 24882 del 4 ottobre 2019, ha affermato la necessità di tenere in considerazione la professionalità complessiva dei lavoratori, ai fini della valutazione della loro fungibilità all’interno dell’impresa nei procedimenti di licenziamento collettivo.

Nel caso di specie una lavoratrice adiva il Tribunale per impugnare il licenziamento intimatole nel corso di una procedura di licenziamento collettivo ex Legge n. 223/1991, contestando in particolare la violazione dei criteri di scelta dei dipendenti interessati dalla procedura di riduzione del personale. Il Tribunale accoglieva il ricorso. I Giudici della Corte di Appello, invece, riformando parzialmente la sentenza di primo grado dichiaravano risolto il rapporto di lavoro, ritenendo che la figura professionale della dipendente non potesse essere ritenuta fungibile con altre figure professionali presenti in azienda.

La lavoratrice allora ricorreva in Cassazione. I Giudici di Piazza Cavour, richiamando il principio giurisprudenziale secondo il quale la scelta dei lavoratori da porre in mobilità non può limitarsi ai soli lavoratori dipendenti di uno specifico reparto o settore, sostengono che l’infungibilità professionale deve essere accertata attraverso una valutazione non delle mansioni ricoperte in azienda, ma tenendo in considerazione i compiti che rientrano nel bagaglio professionale di ciascun lavoratore ed il cui svolgimento poteva essere richiesto dal datore di lavoro ex art. 2103 c.c. In altri termini, la fungibilità tra lavoratori deve essere verificata sulla professionalità e non sulla mansione, dovendo necessariamente essere rapportata alla spendibilità del profilo professionale. Tale valutazione è possibile solo ricostruendo il background personale complessivo di conoscenze, formazione ed esperienze di ciascun lavoratore, tralasciando una valutazione esclusiva delle sole mansioni svolte all’interno dell’azienda assegnate dal datore di lavoro nell’esercizio del suo potere organizzativo e direttivo, in quanto non sufficienti a determinare la professionalità del singolo. La Suprema Corte, quindi, ha cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte d’Appello in diversa composizione.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redaz

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Modificato: 28 Ottobre 2019